Il 21 gennaio 2025 ricorre il quinto centenario della nascita del movimento anabattista zurighese, identificata con il battesimo di Jörg Blaurock da parte di Conrad Grebel, ex discepolo di Zwingli. Quello «zurighese» è solo uno tra i diversi «anabattismi» del Cinquecento, marcatamente diversi tra loro. Una parte della storiografia lo ha però proposto come la versione «classica».
Nel 1526, l’ex monaco Michael Sattler ne ha fissato i princìpi dottrinali negli Articoli di Schleitheim. Oltre al battesimo dei credenti (e non dei fanciulli), sono particolarmente importanti la separazione dalla società peccatrice e il rifiuto radicale dell’uso della forza.
Secondo gli anabattisti, il discepolo e la discepola di Gesù non possono compromettere la purezza dell’obbedienza all’Evangelo adottando i metodi necessari per gestire la società. I cristiani non sono chiamati a dirigere la polis, bensì a testimoniare il Regno di Dio. La proposta di questo filone anabattista è stata ripresa, più tardi, da Menno Simons e dalla Chiesa da lui raccolta, chiamata appunto «mennonita».
Il Cattolicesimo romano e la Riforma protestante hanno entrambi rifiutato, e anche perseguitato, l’Anabattismo, considerandolo, oltre che religiosamente ereticale, socialmente pericoloso. I cristiani e le cristiane, secondo le due Chiese allora maggioritarie, hanno il dovere di partecipare alla conduzione della società, assumendo incarichi civili e politici, nonché la responsabilità dell’uso della forza da parte della comunità politica, per fini di polizia o di legittima difesa (qualunque cosa ciò significhi in concreto) militare. Il rifiuto di prestare giuramento e la rinuncia all’uso della forza sono rimasti segni distintivi di gruppi cristiani «radicali» (anche qui: rinunciando a una definizione rigorosa dell’aggettivo): oltre ai mennoniti, si possono menzionare, ad esempio, i quaccheri.
Per le due grandi confessioni occidentali (ma lo stesso vale per l’ortodossia), rinunciare agli strumenti necessari per la gestione della cosa pubblica, compreso l’impiego delle armi quando necessario, significa abbandonare la società al caos. La questione dell’uso della forza riemerge ciclicamente nelle Chiese cristiane: l’aggressione all’Ucraina da parte della Russia ha recentemente riproposto la contrapposizione tra chi ritiene cristianamente legittima e anche necessaria la difesa armata e chi invece pensa che l’uso dello strumento militare sia incompatibile con la fede in Gesù.
Va rilevato, tuttavia, che l’influenza delle Chiese nella società è nettamente diminuita rispetto ad altri tempi. Le accesissime discussioni in ambito cristiano, infatti, non hanno minimamente influenzato le scelte dei diversi Paesi, dettate da spinte dell’opinione pubblica e fattori politici ben diversi dalle opinioni ecclesiastiche. Alla luce di questo decisivo mutamento sociologico, ci si domanda da alcune parti: ha ancora senso che Chiese sempre meno rilevanti si pongano il problema della gestione politica della società? Non farebbero meglio a concentrarsi sulla testimonianza che le caratterizza e che parla di un mondo radicalmente «altro»?
Il profeta, in fondo, non offre soluzioni politiche, nemmeno Gesù lo ha fatto. Egli ha annunciato l’orizzonte del Regno di Dio, assumendo un atteggiamento critico nei confronti del potere politico e di quello religioso. Altri ritengono, invece, che la responsabilità politica sia una delle espressioni di ciò che il Nuovo Testamento chiama «amore» e richieda anche l’uso della forza, sia all’interno (polizia), sia in politica estera. La parola «deterrenza», in tale prospettiva, non costituisce una bestemmia, anzi, può essere un tentativo di prevenzione.
Un Cristianesimo minoritario non deve necessariamente salire su una nuova Arca di Noè, bensì operare il bene sporcandosi le mani con la politica e le sue ambiguità. Gesù, questo è sicuro, non era un politico, bensì un profeta disarmato. Non è detto però, in questa seconda prospettiva, che ciò implichi un separatismo del tipo di quello anabattista. Non è un caso che l’alternativa si riproponga oggi. Si tratta di una tensione che il Cristianesimo vive da Agostino in poi: ogni generazione di credenti è chiamata a sopportarla ed elaborarla.
Fulvio Ferrario è professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma. Il suo testo è stato pubblicato sul sito della rivista Confronti, il 7 gennaio 2025