Il card. Francesco Coccopalmerio, già presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi, affronta alcune domande intriganti: è necessario il diritto nella Chiesa? Quale rapporto fra diritto e Vangelo? I canoni e la misericordia? I cristiani e l’ecologia?
– Eminenza card. Coccopalmerio, da quasi un anno (6 marzo 2018) lei è – diciamo – in pensione dal suo impegno istituzionale che era quello di presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi. Chissà quante volte, nel suo pluriennale servizio, ha dovuto rispondere al significato del diritto nella Chiesa! Sarebbe possibile per la Chiesa fare a meno del diritto? Infine, il codice è uno strumento abbastanza recente…
Per dare una risposta che risulti soddisfacente alla domanda particolarmente intrigante, sarebbe necessario spiegare a lungo cosa è il diritto o, più precisamente, cosa è il diritto della Chiesa o, più precisamente ancora, cosa è il diritto della Chiesa cattolica (o diritto canonico, perché formulato in canoni). Ma dare una descrizione del diritto considerando tutti gli elementi di questa complessa realtà, sarebbe cosa impossibile, almeno in questa sede.
Mi limito a indicare un aspetto, peraltro abbastanza elementare: il diritto è da intendersi come una norma di vita, come una regola di comportamento (canone, appunto, significa regola).
Il diritto della Chiesa cattolica, cioè il diritto canonico, dovrebbe essere inteso come norma di vita, come regola di azione per il fedele cristiano, per il discepolo di Gesù, nella particolare, concreta condizione di membro della Chiesa cattolica.
Mi rendo conto di semplificare al massimo, però è solo per tentare di farmi capire.
Dunque, mi chiedo: io, che sono un fedele cristiano, che sono un discepolo di Gesù, come devo vivere, come devo comportarmi, quali devono essere le mie scelte di valore? Ora, se il diritto della Chiesa è norma di azione per il fedele discepolo di Gesù, il diritto deve dare la risposta al mio interrogativo.
Deve indicarmi la strada per andare nella direzione giusta e poter arrivare alla meta. È, allora, possibile fare a meno del diritto? Posta la plausibilità di quanto detto, si impone evidentemente una risposta negativa.
Non solo codice
– Ma dove trovo il diritto come regola di azione, come indicatore della strada? Nel codice di diritto canonico?
Riprendo la domanda da cui siamo partiti. Essa suonava così: sarebbe possibile per la Chiesa fare a meno del diritto? E subito si continuava: infine, il codice è uno strumento abbastanza recente. Dunque, si faceva spontaneamente un’identificazione tra il diritto e il codice. Sembra, in altre parole, che il codice di diritto canonico – e quindi il legislatore canonico – sia il creatore del diritto e tutto il diritto si trovi nel codice e solo nel codice in quanto opera del legislatore canonico. Ora, dev’essere chiaro: il diritto della Chiesa si trova certamente nel codice di diritto canonico, ma non solo lì.
– Dove allora?
Lo si trova, certamente, in tutto il magistero della Chiesa, che è testimone e interprete in modo autentico dell’ormai bimillenaria tradizione. Ma lo si trova soprattutto nel Vangelo e nell’intera sacra Scrittura. Il codice e il legislatore canonico non sono certamente creatori del diritto della Chiesa e unico luogo di tale diritto.
– E, allora, il codice che valore ha?
Il discorso sul codice, e sulla codificazione, è complesso e non possiamo certamente affrontarlo in questa sede. Dico solo, con la massima semplificazione, che un codice è importante, perché è utile, nel senso che indica ai fedeli cristiani, anche ai più semplici, in un prospetto chiaro e unitario, l’identità del discepolo di Gesù e le sue norme di vita. Però, a questo punto, mi viene spontanea una critica, direi radicale e pesante, al codice di diritto canonico, come oggi concepito.
Mt 25 e i canoni che mancano
– In che consiste? Lo dica apertamente.
Volentieri, anche se con un certo imbarazzo. Abbiamo detto che il codice dovrebbe offrire un prospetto dell’identità del fedele cristiano e delle norme di vita cristiane. Di fatto, almeno una parte del codice oggi vigente è dedicata a questo. Si possono vedere i cann. 204 ss., che hanno come titolo: “I fedeli cristiani”, “Obblighi e diritti di tutti i fedeli”, “Obblighi e diritti dei fedeli laici”. Però – come detto – le norme di vita del fedele devono essere cercate anche e soprattutto nel Vangelo o in tutta la sacra Scrittura, nella tradizione e nel magistero della Chiesa. E, a questo punto, faccio un’operazione particolare: dapprima leggo i canoni appena sopra citati e poi apro il Vangelo dove trovo la straordinaria pagina di Matteo 25,31-46.
Gesù stesso, legislatore divino, nella previsione grandiosa e tragica del giudizio alla fine dei tempi, istituisce e ammonisce i suoi discepoli: Ci sono persone – avverte Gesù – che sono prive di beni personali: il cibo, la bevanda, l’abitazione, il vestito, la salute, la libertà. Pertanto, queste persone hanno la necessità vitale, cioè hanno il diritto, di ricevere il conferimento dei beni predetti. E, di conseguenza, i discepoli di Gesù hanno la necessità vitale, cioè hanno il dovere, di conferire i beni stessi. E notiamo con meraviglia che, nel misterioso testo, Gesù stesso si identifica con la persona dei vari bisogni, così che il dovere di conferire loro i vari beni diventa un dovere verso Gesù.
I diritti e i doveri contenuti nel brano di Mt 25 sono stati in seguito recensiti e, direi, codificati, dalla riflessione orante dei fedeli e dallo stesso magistero della Chiesa, nelle quattordici opere di misericordia, divise, al contempo, in sette corporali e sette spirituali: dar da mangiare agli affamati… Certamente si tratta di doveri fondamentali dei discepoli di Gesù. Tant’ è vero che di opere di misericordia parla, con una certa ampiezza, il Catechismo della Chiesa cattolica al n. 2447.
Se, a questo punto, dopo aver rivisitato l’eccezionale brano evangelico, ritorniamo all’elenco del codice dei doveri fondamentali dei fedeli e cerchiamo in particolare quelli relativi alle opere di carità verso i bisognosi, vi troviamo il can. 222, §2, che così afferma: “(I fedeli) sono anche tenuti all’obbligo di promuovere la giustizia sociale, come pure, memori del comandamento del Signore, di soccorrere i poveri”.
Le opere di misericordia
– Se il legislatore canonico afferma in questo testo che è un comandamento del Signore quello di soccorrere i poveri, ciò equivale a riconoscere che egli ha attinto questo dato dalla sacra Scrittura e, nel nostro caso, soprattutto da Mt 25,31-46. Dunque, il dettato del codice risponde in questo caso al testo del Vangelo di Matteo.
Per certi aspetti sì, per altri proprio no. E, in effetti, se ritorniamo all’espressione del can. 222, §2: “tenuti all’obbligo… memori del comandamento del Signore, di soccorrere i poveri”, rimaniamo, a dir poco, stupiti o quasi increduli di fronte all’avarizia del testo codiciale. Dov’è finita l’enorme ricchezza, cristologica ed ecclesiologica, del brano di Matteo? Dov’è finito il molteplice e variegato dovere di dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, da abitare ai forestieri, da vestire ai nudi… E soprattutto servendo in loro la persona di Gesù stesso?
Tutto, nel codice, viene compendiato, cioè ridotto e reso incomprensibile, nella vacua espressione: “soccorrere i poveri” (pauperibus subveniendi). Espressione vacua nel senso di vuota, cioè di priva del ricchissimo contenuto evangelico che abbiamo sopra richiamato. Le parole del canone potrebbero esprimere, questa volta in modo adeguato, il dovere di un adepto in una comunità umano-filantropica, ma sono assolutamente insufficienti e perciò del tutto inefficaci per esprimere il dovere del fedele cristiano, del seguace di Gesù.
Orbene, tali doveri dovrebbero essere contenuti nel codice di diritto canonico, nei cann. 204 ss. È appunto da lì che tutti dovrebbero conoscere quali sono i diritti e quali sono i doveri dei fedeli cristiani, dei discepoli di Gesù. E i doveri potrebbero, con felice formulazione, essere espressi con le opere di misericordia. Dobbiamo rilevare con schiettezza che il codice di diritto canonico, nel nostro particolare caso, non si dimostra all’altezza del suo importantissimo servizio. Non meravigliamoci poi dell’apatia o dell’antipatia di tanta parte dei fedeli nei confronti del diritto canonico, o di questo diritto canonico, insieme con il codice che lo contiene.
– Per quale motivo il codice di diritto canonico non ha fatto quello che lei indicava?
Precisando la sua domanda, è spontaneo chiederci per quale motivo non abbia recensito le opere di misericordia e quindi a non trasformare le opere di misericordia in appositi canoni. Non possiamo accettare una risposta peraltro ricorrente, però del tutto superficiale e per tale ragione sbrigativa, la quale consiste nel ritenere che certi comportamenti dei fedeli, come le opere di misericordia, siano doveri non giuridici, bensì morali. Il che non è vero, almeno per due motivi.
Il primo è che le opere di misericordia sono già qualificate dallo stesso legislatore canonico come doveri giuridici nelle laconiche, però inequivocabili, espressioni del can. 222,§2: “tenuti all’obbligo… di soccorre i poveri”.
Il secondo chiaro motivo è che le opere di misericordia sono comportamenti interpersonali, tra una persona che ha il diritto di ricevere un certo bene e una persona che il dovere di conferire il bene in questione. Come sarebbe concepibile negare a tali comportamenti la qualifica di doveri giuridici? Ripeto che tale qualifica è già data dallo stesso legislatore canonico nelle citate espressioni: “tenuti all’obbligo… di soccorrere i poveri”.
Il giudice e il confessore
– Però qualcuno potrebbe insistere facendo notare che i comportamenti in oggetto, appunto le opere di misericordia, non sono sanzionabili da parte di un giudice ecclesiastico, né in giudizio contenzioso né in giudizio penale. Come, in effetti, sarebbe possibile citare un fedele di fronte al giudice ecclesiastico accusandolo, per esempio, di non aver dato da mangiare a un affamato oppure di non aver visitato gli ammalati o i carcerati?
Questo intelligente obiettore dimenticherebbe però che nella Chiesa, e quindi nell’ordinamento canonico, esiste non soltanto il giudice di foro esterno, bensì, nello stesso tempo, il giudice di foro interno, in altre parole, il confessore. Ora, in foro interno il confessore può sanzionare con le sue autorevoli ammonizioni certi comportamenti dei fedeli indicandone il dovere anche grave.
E l’infrazione di un dovere grave significa peccato grave, cui consegue latae sententiae la pena dell’esclusione dal sacramento dell’eucaristia. Tutto quanto abbiamo considerato dovrebbe convincere il legislatore canonico a uscire dalle strette del can. 222, §2 e inserire nel codice le opere di misericordia come doveri fondamentali di tutti i christifideles.
E vogliamo aggiungere, per dire schiettamente la verità, che non si riesce a capire perché si sia instaurata e, perché tuttora permanga, una dualità di documenti della Chiesa come, da una parte, il Codice di diritto canonico e, dall’altra, il Catechismo della Chiesa cattolica, entrambi per indicare ai fedeli la loro identità, i loro diritti e i loro doveri. Non sarebbe più comprensibile che ci fosse a tale riguardo un solo documento ecclesiale? A meno di pensare che il codice di diritto canonico potrebbe contenere i diritti e i doveri dei fedeli, mentre, in aggiunta, il Catechismo della Chiesa cattolica potrebbe offrire un’esplicitazione, appunto catechistica, di tali realtà.
Gli articoli della Laudato si’
– Mi pare che lei aggiungerebbe volentieri, all’elenco dei doveri dei fedeli espressi nelle opere di misericordia, un altro dovere fondamentale, del quale so che lei ha parlato in qualche occasione, in tempi recenti.
Lei si riferisce ad una mia recente proposta di indicare tra i doveri fondamentali di tutti i fedeli cristiani, e perciò di inserire nel codice, il dovere dell’ecologia, cioè quello di tutelare e di promuovere l’integrità del creato. Tale dovere ci è richiamato dall’enciclica Laudato si’ di papa Francesco e viene certamente indicato come dovere grave non solo di tutti gli uomini, ma anche in modo speciale di tutti i fedeli cristiani. Per tale motivo dovrebbe avere un posto nel codice.
Potrebbe essere formulato pressappoco così:
“ § 1 Tutti i fedeli cristiani ciascuno nelle sue condizioni hanno il grave dovere e il corrispondente intangibile diritto, di tutelare e di promuovere l’ambiente naturale nel quale viviamo, considerandolo casa comune, anche al fine di tramandarlo, integro e accresciuto, alle nuove generazioni.
§ 2 I fedeli, inoltre, hanno il diritto di promuovere iniziative o di fondare associazioni al fine di attuare ancora più efficacemente la tutela e la promozione del creato”.
– Dopo le riflessioni che ci siamo scambiati sul diritto canonico e sul codice relativo, il discorso va spontaneamente al dicastero per i testi legislativi, da lei presieduto per undici anni. All’inizio dell’anno scorso, lei ha pubblicato, per la Libreria Editrice Vaticana, un volumetto di una cinquantina di pagine, a cui ha dato il titolo Il Pontificio Consiglio per i testi legislativi, in cui illustra i compiti principali di questo dicastero della curia romana in aiuto al papa: legislazione, vigilanza, interpretazione, promozione. Potrebbe spiegarli?
Dopo le riflessioni sul diritto e sul codice, è più facile parlare del dicastero della curia romana competente per tale materia e cioè del dicastero per i testi legislativi. Sappiamo che ogni dicastero compie un’attività del papa in servizio della Chiesa universale. E noi ci siamo chiesti quale è precisamente l’attività che il papa compie attraverso il nostro dicastero. Certo, la Pastor bonus ne parla in modo autorevole, agli artt. 154-158. Però, abbiamo riflettuto, abbiamo anche pregato, e ora abbiamo abbastanza chiaro che il Pontificio Consiglio per i testi legislativi aiuta il papa nel suo difficile servizio di promuovere il diritto canonico e quindi i codici relativi.
Compiti del dicastero
– In che consistono le altre attività del dicastero: vigilanza, interpretazione, promozione?
Ci siamo convinti che il primo ambito di aiuto al papa è quello relativo alla legislazione.
Risulta del tutto evidente che il dicastero per i testi legislativi non è legislatore, (l’unico e supremo legislatore nella Chiesa è il papa), però ha il compito di suggerire al papa quali interventi legislativi sarebbe opportuno compiere, e ciò nel duplice caso o di lacuna legis o di legge invecchiata e quindi inutile o dannosa.
Se, come detto, il compito del diritto canonico è quello di indicare l’identità del fedele cattolico e i doveri corrispondenti a tale identità, dobbiamo essere consapevoli che avere leggi buone, cioè capaci di indicare identità e attività dei fedeli cattolici, è compito essenziale del papa supremo pastore e legislatore e del dicastero suo aiutante in questo fondamentale servizio.
Connessa con la funzione di mantenere aggiornata la legislazione della Chiesa è un’altra funzione, quella cioè di vigilare perché l’ordinamento canonico sia efficacemente applicato. Sarebbe infatti inutile avere leggi buone se poi queste non venissero applicate o perché dimenticate o perché contraddette con qualche prassi difforme. Di qui un’attenta vigilanza. Questo compito di controllo si esplica in vari modi, per esempio nel giudicare la legittimità di tutte le nuove norme che i vari soggetti nella Chiesa, a cominciare dalla curia romana, vanno continuamente producendo.
Un’altra funzione del Pontificio Consiglio per i testi legislativi è quella della ricorrente interpretazione delle norme canoniche, ma soprattutto della continua risposta a tanti quesiti che vengono inviati, quasi giornalmente, da pastori e fedeli. Le leggi della Chiesa sono sufficientemente chiare, ma varie persone hanno dubbi e si rivolgono al dicastero per maggiore chiarezza e per maggiore tranquillità.
Vi sono altre attività che non sto qui a dettagliare, ma che servono a promuovere la conoscenza e la prassi del diritto canonico e vanno dal sito internet, alla pubblicazione della rivista Communicationes, ai convegni di studio, alla promozione della docenza del diritto canonico, alla fondazione e allo sviluppo delle associazioni di canonisti in tutto il mondo, al colloquio con i vescovi in visita ad limina, e altre similari.
Considerate le precedenti spiegazioni, mi si consenta uno spontaneo paragone: nello stesso modo in cui la Congregazione per la dottrina della fede è garante nella Chiesa universale dell’orto-dossia, il Pontificio Consiglio per i testi legislativi ritiene di essere garante, a servizio della Chiesa universale, dell’orto-prassi canonica.
– Nonostante quello che lei ci ha detto e di cui ci ha offerto competenti ragioni, mi pare che nella curia romana si noti una certa fatica nell’accettare il ruolo e il peso del dicastero per i testi legislativi, anche per l’innegabile motivo che la storia di questo dicastero è abbastanza recente.
È vero. E tali resistenze sono, per noi operatori del diritto, da una parte, sgradevole motivo di delusione con relative tentazioni di scoraggiamento, ma, dall’altra, stimolo continuo per ripensare la finalità del diritto canonico.
Il servizio della curia
– Il discorso che abbiamo fatto su un dicastero della curia romana acuisce spontaneamente la curiosità e induce a presentarle domande sulla curia romana nel suo complesso. Si è discusso e si discute molto sulla riforma di tale istituzione, sulla dialettica italianità o internazionalità, strumento di centralizzazione o di coordinamento, baluardo difensivo o centro di stimolo. Lei quale idea si è fatta?
Anche qui il discorso sarebbe complesso e lungo. In sintesi. La costituzione apostolica Pastor bonus, del 28 giugno 1988, con la quale il santo pontefice Giovanni Paolo II ha inteso continuare la delicata opera di strutturazione ottimale della curia romana, contiene nell’introduzione alcuni testi per noi significativi. Cito solo il seguente: “… il Concilio afferma: nell’esercizio della sua suprema, piena e immediata potestà sopra tutta la Chiesa, il Romano Pontefice si avvale dei Dicasteri della Curia Romana, che perciò adempiono il loro compito nel nome e nell’autorità di lui, a vantaggio delle Chiese e al servizio dei sacri Pastori” (Christus Dominus, 9)…
Da tutto ciò risulta chiaramente che la caratteristica principale di tutti e di ciascun dicastero della curia romana è quella ministeriale, come affermano le parole già citate dal decreto Christus Dominus, e soprattutto quella espressione: “Il Romano Pontefice si avvale dei dicasteri della Curia Romana”. Si indica così, in modo evidente, l’indole strumentale della curia, descritta in un certo senso come uno strumento nelle mani del papa, talché essa “non ha alcuna autorità né alcun potere all’infuori di quelli che riceve dal Supremo Pastore” (Pastor bonus, Introduzione, n. 7).
Partendo dall’autorevole indicazione del testo appena citato, possiamo lasciarci guidare da un presupposto teorico-pratico assolutamente chiaro e sicuro: la curia romana esiste per aiutare il romano pontefice a compiere in modo ottimale le sue molteplici attività in servizio della Chiesa universale.
Su tale presupposto si coglie, al contempo e molto logicamente, la strutturazione di fondo della curia romana: infatti il romano pontefice svolge molteplici attività in servizio alla Chiesa universale e la curia romana lo aiuta a svolgerle in modo ottimale.
Se ora individuiamo ed elenchiamo tali attività del papa e affidiamo ciascuna di esse a vari soggetti o strutture, abbiamo immediatamente e logicamente una serie di organismi di curia, ciascuno dei quali ha la titolarità di una delle attività del papa da svolgere in suo aiuto. Sono nati così le congregazioni, i pontifici consigli, i tribunali, gli uffici e altri organismi, insomma le parti della curia che si denominano anche dicasteri. Ogni dicastero ha una competenza e questa competenza consiste precisamente in una attività del papa (a volte una principale e altre secondarie o accessorie), da svolgere in aiuto al papa.
Così, solo per esemplificare e ribadire il concetto, la Congregazione per la dottrina della fede vigila, in aiuto al papa, sulla correttezza della fede cattolica, attività, questa, evidentemente propria del pastore supremo; oppure il Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani si adopera, in aiuto al papa, perché venga raggiunta la piena riunione tra le Chiese, altra opera del pastore supremo, e così via.
Un “moderator curiae”?
– Una curia romana che compie le opere del papa, il quale serve la Chiesa universale, deve necessariamente essere concepita come un’istituzione che serve lei stessa la Chiesa universale, quindi i vescovi, le conferenze episcopali. Nel suo dicastero ha potuto sperimentare concretamente questo servizio?
Direi di sì, per vari motivi e in vari settori. Ne segnalo tre.
Una delle attività più importanti e più interessanti è sempre stata quella dell’accoglienza delle conferenze episcopali che venivano in visita ad limina. Ricevendo i vescovi di tutto il mondo, presentavamo a loro i problemi e le prospettive del diritto canonico, per esempio l’opportunità pastorale di celebrare sinodi diocesani, di avere e di far agire tutti gli organismi di sinodalità, quali il consiglio presbiterale, il consiglio pastorale diocesano, i due consigli parrocchiali, o di avere canonisti preparati che nella curia aiutino il vescovo nella correttezza degli atti di governo, o di disporre di un’associazione di canonisti che aiutino la conferenza episcopale, la possibilità e opportunità di costituire un tribunale penale come quelli per la nullità matrimoniale.
Una seconda attività a servizio della Chiesa nel mondo è quella di rispondere alle tante richieste di chiarimenti, che provengono da vescovi, sacerdoti o semplici fedeli.
E un ulteriore servizio nel senso dell’uscita – diciamo – dal centro è quello del pieno rispetto e della convinta valorizzazione delle Chiese orientali, per le quali il dicastero ha ottenuto un ufficiale dedicato a questo compito e collaborare da vicino con la Congregazione per le Chiese orientali.
– Un’ultima domanda sulla curia romana. Lei ha suggerito la figura del moderator curiae. Quale ruolo rivestirebbe? Come coordinarlo con la Segreteria di Stato?
Per servire il papa in modo efficace, la curia romana deve essere una struttura idonea. Per ottenere un risultato soddisfacente, si coglie la necessità di un soggetto che si occupi della curia romana in modo diretto ed esclusivo, promuovendone la qualità e il continuo aggiornamento. La figura operativa sopra delineata è un moderator curiae romanae, figura analoga al moderator curiae nelle grandi diocesi (cf. can. 473, §2).
Il moderator curiae romanae avrà diversi compiti dei quali posso dare qualche semplice esempio: preservare l’identità di ogni dicastero, valutando l’opportunità di apportare dei cambiamenti; garantire il rispetto delle competenze affidate a ciascun dicastero e assicurare che il rapporto tra dicasteri sia positivo e collaborativo; individuare persone competenti per le varie attività dei dicasteri, tenendo anche conto dell’opportuna internazionalizzazione della curia e interessando regolarmente le conferenze episcopali; promuovere la formazione permanente, di natura professionale e spirituale, di tutti gli addetti della curia, anche mediante iniziative di predicazione e di preghiera comune; favorire riunioni di capi dicastero e di segretari per reciproca conoscenza e opportuno scambio di opinioni in vista di decisioni comuni; curare l’organizzazione, su richiesta degli interessati, di incontri interdicasteriali, generali o particolari evitando eccessive burocratizzazioni.
È evidente che un’istituzione come quella descritta deve trovare la sua collocazione nell’ambito della Segreteria di Stato, la quale attrezzerà un’apposita sezione, dotata di un capo e di tanti addetti quanti concretamente la prassi richiederà.
Ottima la riflessione del card. Coccopalmerio sul rapporto tra Vangelo e Diritto canonico. Glielo potete trasmettere? Oltre tutto egli fu mio alunno in seminario a Milano e siamo rimasti sempre amici. Grazie.