Presentazione
L’origine del discorso
L’8 dicembre 1967 Paolo VI aveva comunicato l’intenzione di istituire la celebrazione di una Giornata mondiale della pace, la cui ricorrenza veniva fissata al 1° gennaio di ogni anno.
La decisione cadeva a due anni esatti dalla conclusione del Concilio Vaticano II, a cinque anni dalla promulgazione dell’enciclica Pacem in terris e, soprattutto, in un contesto internazionale segnato pesantemente dalla contrapposizione est-ovest. Dal 1964 era iniziata l’escalation dell’impegno militare statunitense in Vietnam, ormai sfociato in un vero e proprio conflitto nel corso del quale gli americani avevano iniziato a fare ricorso a campagne di bombardamenti a tappeto.
All’annuncio di Paolo VI, l’arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro decise quindi di dare un riscontro tutt’altro che cerimoniale.
A partire dal suo rientro a Bologna dal Concilio, Lercaro aveva ridefinito in modo significativo la sua azione pastorale, desiderando dare una piena applicazione ai decreti conciliari. Questo aveva sortito effetti importanti a svariati livelli: non solo nel senso di una ridefinizione degli obiettivi pastorali e degli strumenti per raggiungerli, ma anche rispetto all’attitudine da mantenere con le autorità civili che reggevano il Comune di Bologna.
Il cardinale Lercaro abbandonò il più tradizionale atteggiamento di collateralismo rispetto alla Democrazia Cristiana che caratterizzava ovunque il profilo dei vescovi italiani e, assumendo il dettato della costituzione Gaudium et spes, adottò uno stile di dialogo e confronto con quegli esponenti di tradizioni e culture politiche con cui era entrato apertamente in conflitto negli anni precedenti: un atteggiamento che aveva sortito effetti inimmaginabili sino a pochi anni prima, come la decisione del Comune di conferire al cardinale la cittadinanza onoraria.
La celebrazione della prima Giornata mondiale della pace si prestava così per Lercaro a una presa di posizione forte contro la guerra del Vietnam: se si voleva assumere sul serio il vangelo della pace, andava proclamato con forza l’abominio di questa guerra, mettendo finalmente da parte quelle prudenze e quei tatticismi che avevano impedito sino a quel momento di denunciare gli errori commessi anche dagli Stati Uniti.
Il contenuto
Fu dunque Giuseppe Dossetti, in quel momento provicario della diocesi di Bologna, a stendere, su richiesta dell’arcivescovo, la minuta dell’omelia che il cardinale Lercaro pronunciò in cattedrale il 1° gennaio 1968. Il contenuto di questo testo rifletteva indiscutibilmente anche la storia più recente di Lercaro al Concilio Vaticano II: già in un altro momento l’arcivescovo di Bologna era stato sul punto di intervenire con forza in aula per condannare la politica della deterrenza, ma si era fermato – e si era limitato a consegnare il testo per iscritto – per non apparire contraddittorio rispetto all’intervento compiuto negli stessi giorni da Paolo VI all’ONU, in cui il papa aveva sostanzialmente ridimensionato il portato dell’enciclica Pacem in terris.
Nel dicembre 1967 Lercaro scelse di andare sino in fondo e di non perdere una nuova occasione per dichiarare nel modo più solenne lo scandalo della guerra e l’impossibilità, per i cristiani, di venire a patti con coloro che non intendevano recedere dai loro progetti di morte: non si trattava di imprudenza o precipitazione, ma di essere pienamente coerenti rispetto al messaggio evangelico e rispetto all’obbligo che questo poneva a tutti i cristiani: «La Chiesa», dirà Lercaro in cattedrale, «non può essere neutrale di fronte al male da qualunque parte venga: la sua via non è la neutralità, ma la profezia; cioè il parlare in nome di Dio, la parola di Dio. Pertanto, nella umiltà più sincera, nella consapevolezza degli errori commessi nella sua politica temporale del passato, nella solidarietà più amante e più sofferta con tutte le nazioni del mondo, deve tuttavia portare su di esse il suo giudizio, deve – secondo la parola di Isaia ripresa dall’evangelista san Matteo (12,18) – annunziare il giudizio alle nazioni».
L’eredità
È ampiamente noto cosa accadde nelle settimane immediatamente successive al pronunciamento di questa omelia.
Il cardinale Lercaro, a dispetto delle garanzie offerte poco prima da Paolo VI all’arcivescovo di Bologna, fu rimosso dalla sua cattedra e per la diocesi di Bologna iniziò una fase di “normalizzazione” che durò decenni. Si rimuoveva non solo o non tanto un uomo o il suo ricordo, ma soprattutto il suo magistero.
L’omelia del 1° gennaio 1968 divenne, e da subito, un testo proibito, confinato nello scaffale dell’immenzionabile: emblematica, sino a sconfinare nel ridicolo, la scelta della Santa Sede di non fare accenno in nessun modo, nel volume che dedicò a censire le celebrazioni della Giornata mondiale in tutto il mondo, a ciò che era stato detto a Bologna (cf. Giornata della pace 1968, Tipografia Poliglotta Vaticana).
La memoria di quel discorso rimase sempre più confinata al pugno di persone che avevano seguito da vicino la vicenda della conclusione dell’episcopato di Lercaro: ma tutti ebbero modo di appurare, una volta di più, il fallimento della mediazione vaticana, così come poco prima era stato sabotato il tentativo compiuto da Giorgio La Pira; di fatto, la guerra in Vietnam si protrarrà sino al 1975, un anno prima della morte del cardinale Lercaro.
Ma il primo a essere consapevole dei costi del suo intervento era stato lo stesso arcivescovo di Bologna: nella stessa omelia del 1° gennaio aveva detto: «Il profeta può incontrare dissensi e rifiuti. Anzi è normale che, almeno in un primo momento, questo accada: ma se ha parlato non secondo la carne, ma secondo lo Spirito, troverà più tardi il riconoscimento di tutti. È meglio rischiare la critica immediata di alcuni che valutano imprudente ogni atto conforme all’Evangelo, piuttosto che essere alla fine rimproverati da tutti di non aver saputo – quando c’era ancora il tempo di farlo – contribuire ad evitare le decisioni più tragiche o almeno ad illuminare le coscienze con la luce della parola di Dio».
C’è voluto un papa, Francesco, per restituire a Bologna e al mondo il ricordo dell’omelia di Lercaro del 1° gennaio e per ribadire, citando proprio quell’omelia, che «la Chiesa non può essere neutrale di fronte al male, da qualunque parte esso venga: la sua vita non è la neutralità, ma la profezia». (Incontro con gli studenti e il mondo accademico, 1° ottobre 2017)
La registrazione
Ecco che finalmente, dopo essere rimasto chiuso in archivio per mezzo secolo, è riemerso l’audio dell’omelia del cardinale Lercaro del 1° gennaio 1968. Venne registrata dall’altoparlante che si trovava nella sagrestia della cattedrale (e questo spiega anche i rumori estranei che l’accompagnano). È un nuovo tassello che si aggiunge alla ricostruzione della vicenda di quella stagione della storia della Chiesa di Bologna che qualcuno pensava di devitalizzare o occultare, scordando quella massima che papa Giovanni ripeteva spesso: e cioè che «la storia tutto vela e tutto svela».
Certamente, resta ancora molto da capire intorno a questa omelia, che sarà anche oggetto di una prossima pubblicazione commentata a cura dell’editore Zikkaron, ma almeno da oggi possiamo restituire a Lercaro la sua voce e, tramite il web, fare in modo che il messaggio che lanciò il 1° gennaio 1968 risuoni ancora in un mondo che, purtroppo, ha sempre più bisogno di cristiani che rinnovino l’annuncio del vangelo della pace.
Il testo dell’omelia
Figli dilettissimi, popolo di Dio della nostra santa Chiesa bolognese,
nella odierna Eucaristia celebriamo l’ottavo giorno dalla nascita del Salvatore: come ci ha detto or ora l’Evangelo: «quando cioè furono compiuti gli otto giorni per la circoncisione del Bambino, fu circonciso e chiamato Gesù». Secondo l’ordine dato da Dio ad Abramo (Gen 17,9-14), rinnovato a Mosè nell’Esodo (Es 12,44; cf. Lev 12,3), la circoncisione era per tutte le tribù d’Israele il segno della alleanza con Dio, e per ognuno in particolare, il segno della appartenenza al popolo eletto, la condizione per partecipare alla santa assemblea e per comunicare alla salvezza nella Pasqua del Signore.
Ma in Cristo circonciso il segno si concreta e il simbolo diventa realtà, e non più soltanto per un popolo, ma per l’intero genere umano. Il primo sangue versato dal Dio Bambino inizia il sacrificio del Calvario e anticipa il lavacro di «acqua e sangue» (Gv 19,34) che ne scaturirà non più soltanto per la razza di Abramo, ma a riscatto di tutti gli uomini di ogni «razza, lingua, popolo e nazione» come si esprime l’Apocalisse (5,9).
Così, la circoncisione del Figlio di Maria, da un lato, significa la sua legittima appartenenza al popolo d’Israele; dall’altro, anticipa il battesimo cristiano, cioè l’universalità del «sigillo della giustizia della fede», come dice Paolo nella Lettera ai Romani (4,11), nella quale tutti gli uomini – nessuno escluso – potranno essere «circoncisi nel cuore secondo lo Spirito» (2,29) riuniti in un unico e definitivo popolo di Dio.
Dunque, già in questo ottavo giorno del Natale, nel nome di Gesù «viene annunziato un Buon Annunzio eterno a quelli che abitano sulla terra, ad ogni nazione, razza, lingua e popolo» (Ap 14,6). Ed è proprio meditando l’universalità dell’Evangelo di salvezza, che anche noi – secondo il desiderio e il Messaggio del Sommo Pontefice – presentiamo in questo giorno l’appello per la pace rivolto dal Papa a tutti gli uomini della terra.
Abbiamo già offerto in questi giorni il Messaggio pontificio ai capi delle altre comunità di credenti in Bologna e alle autorità responsabili delle comunità e delle istituzioni civili.
Qui, stasera, in questa Messa episcopale, lo consegniamo idealmente a tutti i fedeli della nostra Chiesa bolognese: a quanti, con noi – secondo la parola dell’Apostolo letta poc’anzi dal lettore – credono che oggi «l’amabile bontà del nostro Dio salvatore si è rivelata a tutti gli uomini».
- La liturgia odierna e il Messaggio pontificio convergono oggi ad illuminare il mistero e l’impegno della nostra unità e pace con tutti gli uomini in Cristo: a farci, dunque, sentire in modo particolarissimo questo come il momento di «rinunziare all’ira, allo sdegno, alla malignità», – sono le parole di san Paolo –, il momento di rivestirci dell’uomo nuovo, «nel quale – è ancora san Paolo che parla – non vi è più né greco né giudeo, né circonciso né incirconciso, né barbaro né Scita, né schiavo né libero, ma in tutto e in tutti è Cristo» (Col 3,8 e 11).
Perché il nostro anelito e la nostra preghiera di pace per tutte le nazioni possa essere autentica e sincera, occorre che noi, in questa sede, rinunziamo a cercare, a giudicare le cause di divisione e di conflitto che possono venire da altri, ma piuttosto imploriamo dallo Spirito il dono di sapere «esaminare noi stessi, per non essere giudicati» (1Cor 11,31). «Ognuno di noi – dice l’Apostolo – renderà conto a Dio di sé stesso. Dunque non giudichiamoci più a vicenda, ma pensate piuttosto a non mettere inciampo né a dare scandalo al vostro fratello» (Rm 14,12-13).
- Fratelli e figli dilettissimi, vorrei aprirvi tutto il mio animo, confessarmi a voi, davanti al Signore e alla Vergine, della quale la liturgia di oggi con tanta insistenza invoca l’intercessione.
Da più giorni, il Messaggio del Santo Padre mi sospinge a scrutare la mia coscienza e la mia vita. Mi chiedo quale è stata la testimonianza di pace mia personale e dell’intera nostra comunità ecclesiale. Mi domando soprattutto fino a che punto possiamo avere talvolta inclinato a vedere solo in altri la causa dei disordini e dei conflitti ed eventualmente a giudicarli come fomentatori di guerra e perturbatori della pace, piuttosto che esaminare noi stessi ed eventualmente preoccuparci di togliere da noi le pietre d’inciampo sul cammino della pace e le ragioni di scandalo, forse inconsapevolmente offerte ai credenti e ai non credenti.
- Miei figli amati in Cristo, vi confesso ancora che del Messaggio che ora vi presento, alcune parole mi sono entrate più a fondo nell’anima, cioè quelle in cui il Santo Padre spiega la sua insistenza nel parlare e nell’operare per la pace: «Vorremmo – egli dice – che non mai ci fosse rimproverato da Dio o dalla storia di avere taciuto davanti al pericolo di una nuova conflagrazione fra i popoli, che – come ognuno sa – potrebbe assumere forme improvvise di apocalittica terribilità». Anche a me, secondo la mia modestissima misura e responsabilità, anche a me, da tanti anni vostro pastore e vostro maestro, voglia il Cielo che non si debba mai rimproverare di avere taciuto qualche cosa che potesse essere essenziale alla valida testimonianza di pace della nostra Chiesa bolognese, nel contesto umano, sociale, culturale in cui essa vive e opera. Perciò non posso ora limitarmi alla semplice consegna del testo del Sommo Pontefice: ma, quasi a suggello e a commento di esso sento di dovere mettere nelle vostre mani i sentimenti più profondi del mio cuore di pastore di questa nostra Chiesa bolognese.
- Io vorrei riempire questa consegna con tutto ciò che ho detto e fatto per la pace in tutta la mia vita: specialmente in questi ultimi anni, nel Concilio, nel governo e nell’insegnamento ordinario in Diocesi, nelle assemblee delle nostre Chiese, nell’aula del Consiglio Comunale e in quelle delle varie istituzioni bolognesi.
Vorrei ora, in particolare, richiamare alla mia coscienza e riproporre a voi il discorso in cui, alcuni mesi or sono all’Archiginnasio, ho cercato di esporre i temi principali della dottrina conciliare e della visione biblica sulla pace: penso che quel discorso trovi ora, al di là del previsto, una verifica e una nuova attualità in tutto quello che accade e viene detto da tante parti in questi ultimi giorni.
- Ma soprattutto ora piego le ginocchia davanti al Signore, che giudicherà la mia vita e il mio episcopato, e mi chiedo se quello che ho detto sinora può bastare o se ancora non vi sia qualche cosa da aggiungere, per orientare ancor meglio le nostre anime a pensieri e a opere di pace, proporzionate alla estrema gravità del pericolo e dell’impegno storico che, variamente ma solidalmente, grava su tutti e su ciascuno. Mi vado convincendo sempre più che il compito della Chiesa a questo riguardo è duplice, consta di due elementi complementari e inscindibili: veramente «occorre adempiere l’uno, senza omettere l’altro».
- Da una parte, la Chiesa non deve stancarsi di diffondere, spiegare e rispiegare l’insegnamento generale cristiano sulla pace; deve anzi approfondire ancora più le radicali esigenze del Vangelo circa la rinunzia alla violenza; deve formare le coscienze; soprattutto deve metodicamente guidare i credenti e rispettosamente aiutare i non credenti a ricomporre in sé stessi quella pace personale e interiore che l’uomo moderno poco conosce e «che è – secondo le parole di Paolo VI – la radice profonda e feconda della pace esteriore, politica, militare, sociale, comunitaria» (Discorso di Natale).
- Dall’altra parte, la Chiesa non deve far mancare il suo giudizio dirimente – non politico, non culturale, ma puramente religioso – sui maggiori comportamenti collettivi e su quelle decisioni supreme dei responsabili del mondo, che possano coinvolgere tutti in situazioni sempre più prossime alla guerra generale e che possano, a un tempo, confondere le coscienze proponendo false interpretazioni della pace o false giustificazioni della guerra e dei suoi metodi più indiscriminatamente distruttivi.
- Certo la Chiesa non può né deve assidersi arbitra delle contese politiche fra le nazioni: memore della risposta data da Gesù a chi gli chiedeva di arbitrare la divisione dell’eredità fra due fratelli, la Chiesa deve ripetere agli uomini e agli Stati: «Chi mi ha costituito arbitra o ripartitrice fra di voi?» (Lc 12,13-14). Certo, la Chiesa – per non apparire invadente o parziale o imprudentemente impegnata nell’opinabile e nel contingente – deve affinare sempre più la sua purezza trascendente e il suo distacco da ogni interesse politico e persino da ogni metodo in qualche modo analogo a quelli delle potenze.
- Ma la Chiesa non può essere neutrale, di fronte al male da qualunque parte venga: la sua via non è la neutralità, ma la profezia; cioè il parlare in nome di Dio, la parola di Dio. Pertanto, nell’umiltà più sincera, nella consapevolezza degli errori commessi nella sua politica temporale del passato, nella solidarietà più amante e più sofferta con tutte le nazioni del mondo, la Chiesa deve tuttavia portare su di esse il suo giudizio, deve – secondo le parola di Isaia riprese dall’Evangelista san Matteo (12,18) – «annunziare il giudizio alle nazioni».
- Il profeta può incontrare dissensi e rifiuti, anzi è normale che, almeno in un primo momento, questo accada: ma se ha parlato non secondo la carne, ma secondo lo Spirito, troverà più tardi il riconoscimento di tutti. È meglio rischiare la critica immediata di alcuni che valutano imprudente ogni atto conforme all’Evangelo, piuttosto che essere alla fine rimproverati da tutti di non aver saputo – quando c’era ancora il tempo di farlo – contribuire ad evitare le decisioni più tragiche o almeno ad illuminare le coscienze con la luce della parola di Dio.
- Figli miei, le ultime circostanze mi hanno indotto a ripensare in concreto alle esperienze di guerra attraversate nella mia lunga vita: ancora come bimbo, la prima guerra d’Africa; come chierico, la guerra di Libia e poi come novello sacerdote, quando mi ha sorpreso e mobilitato la Prima guerra mondiale. Ho ripercorso il travagliato itinerario di questi ultimi cinquant’anni e delle diverse guerre in cui si è trovato coinvolto, suo malgrado, il nostro paese. Ho voluto rivedere, con gli occhi di oggi, le singole decisioni supreme del 1915, del 1936, del 1940 che hanno portato tre volte il nostro popolo in guerra. In guerre che nessuna esigenza vitale di sopravvivenza e di giustizia ci imponeva, in guerre che il popolo nella sua maggioranza, non voleva e non sentiva, ma che tuttavia furono intraprese dai governanti per una concatenazione quasi fatale di pregiudizi, di ambizioni, di tragiche leggerezze, di fatalismo, o per il meccanismo incontrollabile delle alleanze impegnate dai capi.
- Ebbene, se ripenso a tutto l’arco di questi dieci lustri, debbo riconoscere che la parola più concreta e incidente, in rapporto alle vicende belliche in cui l’Italia fu coinvolta, fu pronunziata appunto cinquant’anni fa (1917) da Benedetto XV: alludo al suo giudizio che definiva la guerra in corso fra le potenze, una «inutile strage». Quel giudizio – veramente non politico, non diplomatico, ma religioso – fu immediatamente il bersaglio di ogni accusa: ma oggi da tutti si riconosce che quella parola profetica costituisce uno dei titoli maggiori della statura, pontificale e storica, del papa Benedetto.
- E adesso, potremmo facilmente passare da quell’esempio, lontano ma tanto significativo, a un esempio attualissimo. La dottrina di pace della Chiesa (messa sempre meglio a fuoco da papa Giovanni, dal Concilio, da papa Paolo) per l’intrinseca forza della sua coerenza, non può non portare oggi a un giudizio sulla precisa questione dirimente, dalla quale dipende oggi di fatto il primo inizialissimo passo verso la pace oppure un ulteriore e forse irreversibile passo verso un allargamento del conflitto. Intendo riferirmi, come voi ben capite, alle insistenze che si fanno in tutto il mondo sempre più corali – e delle quali si è fatto eco il Papa nel recentissimo discorso ai cardinali – perché l’America (al di là di ogni questione di prestigio e di ogni giustificazione strategica) si determini a desistere dai bombardamenti aerei sul Vietnam del Nord. Il Santo Padre ha detto testualmente: «Molte voci ci giungono invitandoci ad esortare una parte belligerante a sospendere i bombardamenti. Noi lo abbiamo fatto e lo facciamo ancora… Ma contemporaneamente invitiamo di nuovo anche l’altra parte belligerante… a dare un segno di seria volontà di pace».
- La Chiesa, questo lo deve dire, anche se a qualcuno dispiacesse. Lo deve dire perché, a questo punto, è il caso di coscienza immediato di oggi, è il primo nodo da cui possono dipendere le svolte più fauste o più tragiche. In paragone a questo nodo concreto, a questa scelta compromettente, l’attualità odierna dell’Evangelo si verifica, essa può effettivamente attirare e orientare gli spiriti, specialmente delle nuove generazioni, e la sua dottrina di pace non resta teoria evanescente, ma si incarna e può incidere sulla storia degli uomini.
- Figli dilettissimi, tutto questo esame di coscienza e questo confronto più scavato tra l’Evangelo e la problematica più cruciante dell’ora presente, riportano i nostri spiriti alle considerazioni che ci suggeriva all’inizio la liturgia odierna: per la Chiesa e per il cristiano è una cosa tremendamente impegnativa e concreta l’universalità della salvezza donata a tutti gli uomini nel sangue di Gesù, l’unità e la pace fondata fra tutti gli uomini in Cristo, unico Salvatore del mondo. È un mistero tanto trascendente ogni possibile motivo umano di differenza o di disaccordo, tanto imperativo e tanto vincolante, che non ci può essere età della Chiesa o età del mondo che non ne sia del tutto condizionata, dominata con una coerenza sempre più lucida e radicale, man mano che l’umanità procede anche nel suo cammino storico, nelle sue possibilità smisuratamente più grandi di concordia o di conflitto.
- Perciò è sembrato a me, vostro padre in Cristo, di essere debitore – di fronte a voi e ancora di più di fronte ai vostri figli – di un debito che vorrei adempiere sin da questo nuovo anno 1968, almeno predisponendo alcune premesse che altri, secondo il divino beneplacito, porterà a più avanzato sviluppo. Intendo dire che mi sento in obbligo di impegnare me stesso e tutta la nostra comunità ecclesiale – più di quanto sinora non si sia fatto – in un più largo e più approfondito sforzo catechetico per dare ai nostri ragazzi e ai nostri giovani in dimensioni nuove una coscienza evangelica dell’universale fraternità in Gesù, del rispetto assoluto della dignità di ogni uomo redento da Cristo, del rifiuto radicale di ogni forma di violenza, interiore od esteriore, privata o collettiva.
- Dicevo un anno fa che avrei voluto essere sempre più e soltanto un servitore dell’Evangelo, e che avrei voluto ormai lasciarmi incontrare solo col Vangelo sulle labbra e nell’anima da tutto il popolo di Bologna. Ora vorrei precisare: in quest’anno che si inizia col Messaggio del Papa a tutto il mondo, vorrei essere un servo dell’Evangelo di pace, vorrei che tutta la Chiesa di Bologna non fosse altro che un unico generale annunzio dell’Evangelo di pace a tutti, ma specialmente ai giovani, perché tutta la nostra gioventù possa divenire – malgrado tutte le tentazioni, tutti i miti e tutte le compromissioni di guerra – una forza grande, spirituale e storica, nei nostri giorni “operatrice di pace” e perciò, secondo la promessa delle Beatitudini, veramente “figlia di Dio”.
LE STRAGI COMPIUTE SONO DIVENTATE ORMAI ACQUISIZIONI DELLA STORIA. ALL’EPOCA IN CUI SI VERIFICARONO NON MANCARONO VOCI DI DISSENSO CONTRO LA BARBARIE E LE ATROCITA’ COMPIUTE. ANCHE TRA GLI STESSI REDUCI SI EBBERO FENOMENI DI SMARRIMENTO PSICOLOGICO E DI SQUILIBRIO MENTALE A CAUSA DEGLI ORRORI VERIFICATISI.
LA PACE E’ UN BENE A CUI NON SI PUò RINUNCIARE OVE SI PENSI AL PERICOLO DELL’APOCALISSE, E LE CONTROVERSIE INTERNAZIONALI VANNO RISOLTE DIPLOMATICAMENTE E TRAMITE GLI ORGANISMI DI RAPPRESENTANZA MONDIALE.
ANCHE UNA DEMOCRAZIA COME GLI USA CHE HA TRA L’ALTRO IL MERITO DI AVER CONCORSO A LIBERARE L’EUROPA DAL NAZIFASCISMO, DEVE RICERCARE PACIFICAMENTE E DIPLOMATICAMENTE LA SOLUZIONE DELLE
CONTROVERSIE INTERNAZIONALI. CONTEMPORANEAMENTE DIVENTA NECESSARIA UN’INTESA GLOBALE PER IL DISARMO, PER IL CONTROLLO DELLE NASCITE IN PAESI DI ESTREMA POVERTà, NONCHè UNA POLITICA DI NTERVENTI CONTRO LA FAME NEL MONDO E CONTRO LE DISUGUAGLIANZE DI UNA FORBICE SEMPRE PIù DIVARICATA..
CONTROVERSIE E DEI DISSENSI, UTILIZZANDO IL CONFRONTO ALL’INTERNO DEGLI ORGANISMI SOVRANAZIONALI
E’ ovvio che la Chiesa è profetica, come è ovvio che a volte (o tante volte) non è profetica per non compromettersi, per salvare il carrierismo e …
Grazie a Dio che abbiamo papa Francesco che su questo è avanti anni, anni rispetto a tante realtà nella chiesa stessa
La cosa che impressiona, a distanza di 50 anni, è che in fondo, l’omelia del Cardinale, oltre che un tentativo di riflessione sulla pace, è una lunga costruzione il più possibile motivata per arrivare alla famosa frase sul Vietnam, è una lunga giustificazione per fare un’affermazione profetica di pace, che allora come oggi, dovrebbe essere l’ovvio per la chiesa. Il fatto che il vescovo si sentisse di dovere dare tutte quelle motivazioni per farlo, il fatto che avesse delle evidenti pressioni e l’esito di quell’affermazione, deve farci pensare molto sulla qualità profetica del nostro essere chiesa.