Chiesa: abusi e riparazione

di:

cencini1

Si è svolto dal 1° al 5 maggio scorsi a Roma, ma organizzato dal santuario francese del Sacre Coeur di Paray-Le-Monial, un convegno in occasione del 350° anniversario delle apparizioni di Gesù a santa Margherita Maria Alacoque.

Scopo dichiarato del Symposium, dal titolo quanto mai significativo: “Réparer l’irreparable”, era quello di tentare un’interpretazione attualizzata del concetto che è al centro delle stesse apparizioni e locuzioni (e che è stato all’origine d’un certa riflessione teologica e tradizione spirituale): la riparazione.

Che senso ha quella riparazione chiesta ripetutamente da Gesù a santa Margherita Maria, a fronte dell’ingratitudine e dell’indifferenza, o persino del disprezzo e della bestemmia, da parte dei credenti, dei “suoi”, se ora questa riparazione è riferita alle ferite delle vittime di oggi, dei vari abusi perpetrati all’interno della Chiesa e per mano di suoi rappresentanti?

Un Colloque dunque molto attuale e coraggioso, e quanto mai opportuno in questo momento, non a caso pensato e programmato all’interno d’una Chiesa, come quella francese, che ha dato prova di coraggio e trasparenza nell’affrontare tale drammatica questione.

Il presente articolo non intende fare una sintesi del convegno, ma solo partire da esso per proporre una riflessione in particolare sulla vittima e l’approccio ad essa.

“Magistero delle vittime”

Focus del convegno è stato come intervenire in maniera rispettosa ed efficace sulla vittima di abusi perché… non continui a esser vittima, a subire violenza distruttiva, un tempo fisica addirittura, ora d’altro genere, ma sempre destrutturante; e non unicamente da un aggressore preciso, ma anche da parte di altri, di chi oggi la dovrebbe aiutare a uscire dall’abisso in cui l’ha scaraventata quel gesto disgraziato; e non solo con azioni platealmente offensive nel passato, ma con omissione di gesti positivi e ricostruttivi nel presente.

Ovviamente, dietro a questo rilievo con le sue distinzioni c’è una certa idea, anche nell’immaginario collettivo ecclesiale, di chi è comunemente considerato “vittima”, oltre il piano della definizione giuridica.

È l’idea che la vittima sia solo o soprattutto persona vulnerabile e ferita cui prestare soccorso, “da riparare”, o da sopportare con compassione; o – all’opposto – da guardare con diffidenza e da cui difendersi. Non è ancora del tutto entrata nella nostra cultura la percezione della dignità della vittima legata proprio al suo dramma, che le riconosce una singolare cattedra o magistero, il “magistero delle vittime”.

Tale espressione potrà sembrare eccessiva, in realtà non è nuova, dai tempi del famoso Simposio a Roma del febbraio 2019, fatta propria dai Sussidi del Servizio Nazionale Tutela Minori,[1] ma che non sembra ancora far parte di quell’immaginario collettivo di cui dicevamo, ove “magistero” è termine con altri referenti, più politically correct. Ma che – a sua volta – rimanda a una certa immagine, in particolare, della vulnerabilità umana, rischiando di non farcene cogliere il mistero.

Dall’ambiguità teologica al delirio psicologico

Quando è esploso lo scandalo degli abusi, abbiamo subito pensato a un problema psicologico, legato a un grave vuoto formativo se non addirittura a un disturbo di personalità pregresso, di solito nell’area affettivo-sessuale, con implicanze poi anche d’altro tipo. Ben presto ci siamo accorti di quanto tale lettura fosse banale e riduttiva. Per vari motivi.

Accenno a uno solo: l’abuso in particolare dell’uomo-di-chiesa non è mai problema solo psicologico, ma è sempre anche problema più ampio, che coinvolge vari ambiti della sua personalità, anche quello spirituale, o persino teologico, poiché implica una certa immagine di Dio.

Se, all’origine degli abusi c’è sempre un’ansia di potere (che nasce a sua volta – e singolarmente – dalla sensazione della propria impotenza), è possibile, o non così strano, che l’immagine di Dio del futuro abusatore sia legata a quest’ansia (un Dio grande nel potere), e che costui sogni poi – come suo eventuale ministro – un particolare rapporto con lui, in cui gli è dato di condividere lo stesso potere divino. Non è egli il suo rappresentante? E il potere del prete non è forse chiamato “potere sacro”?

Sarebbe il modo migliore e definitivo, tra l’altro, di risolvere o di compensare il problema del proprio senso d’inferiorità e impotenza. Attraverso un passaggio strategico (di solito inconscio): dall’ambiguità concettuale teologica al delirio onnipotente psicologico.[2]

E l’abuso, a questo punto, è servito o già in atto: abuso d’una certa idea di Dio, o di Dio stesso, tout court, della propria vocazione e del modo di pensarsi e di relazionarsi, e poi abuso come stile – di stampo clericale – e sempre più con gesti corrispondenti, ma con un’attenzione: quella di andare a cercarsi la vittima tra chi è meno in grado di opporsi al delirio, come il minore o la persona per vari motivi vulnerabile.

Qual è, allora, l’aspetto decisivo, da cui nasce e attorno a cui ruota la dinamica abusante? È la realtà – o il mistero – della vulnerabilità, a vari livelli.

Mistero della vulnerabilità umana

Chi abusa dell’altro mostra, infatti, d’avere smarrito la percezione autentica della vulnerabilità in sé stessa come dimensione normale umana, segnata dal limite, ma da un limite che convive – singolarmente – col suo contrario, con l’aspirazione illimitata pur presente nel cuore umano, come in un giuoco di estremi: luogo dunque del mistero.

Ma vulnerabilità anche come spazio che apre alla relazione, ove ognuno è e si scopre bisognoso dell’altro, e ove dunque si ricompone un’altra misteriosa polarità, tra l’io e il tu, come terra d’incontro e di scambio.

Anzi, quando la vulnerabilità è vissuta dinanzi al tu di Dio, lì le due polarità (umana e divina) possono raggiungere ognuna il punto più estremo, che all’apparenza le distanzia tra loro, e pure “misteriosamente” le ricongiunge: è quel che avviene quando l’uomo sperimenta la sua propria umana debolezza/impotenza come spazio che manifesta la potenza della grazia, come accade a Paolo.[3]

A quel punto, o a partire da questa esperienza personale, cambia anche il rapporto con la vulnerabilità dell’altro, anch’essa accolta e scoperta come luogo d’una presenza misteriosa del divino. Di fronte cui fermarsi e togliersi i sandali, come fosse terra sacra.[4] Specie quando l’altro non ne è cosciente.

Mistero della vulnerabilità divina

Ma c’è di più e d’ancor più sorprendente. La vulnerabilità non è solo cifra d’una carenza umana, condizione obbligata o predisposizione creaturale universale, ma addirittura condizione divina, almeno del Dio dei cristiani, che va esattamente all’opposto dell’immagine tradizionale-classica dell’onnipotenza divina, che forse ci viene più naturale,[5] ma che si presta all’interpretazione fuorviante da parte dell’abusatore.

Ma, se gli abusi sono letti dal punto di vista delle vittime, o alla luce del loro “magistero”, ci propongono tutt’altro volto dell’Eterno: un Dio vulnerabile! E non solo per quella singolare identificazione tra Dio e chi soffre, più volte segnalata da Gesù stesso,[6] ma perché…

Dio lo è. Per almeno tre motivi che qui solo segnalo:

  • Anzitutto, Dio è vulnerabile per amore, perché chi ama è debole o si pone in una posizione di debolezza; se ama davvero, infatti, lascia libero l’amato, non gli s’impone né gl’impone la sua stessa benevolenza come sottile ricatto, ma si espone semmai al suo possibile rifiuto.
  • Dio è vulnerabile, ancora, perché sempre per amore sceglie di caricarsi sulle spalle tutte le nostre vulnerabilità, portandole con sé sulla croce, in quella che è la più… potente e misteriosa teofania dell’onnidebolezza del Dio di Gesù Cristo.[7]
  • Infine, Dio è vulnerabile non solo perché s’espone alla risposta libera dell’uomo, ma perché da sempre e comunque è alla sua ricerca, quel Dio “inquieto” – parafrasando Agostino – finché non riposa nel cuore dell’uomo…

Le vittime sembrano evocare tutto questo, certo non in modo esplicito e immediato, ma suggerendoci comunque non solo una lettura teologica suggestiva, ma anche un atteggiamento terapeutico-riparativo strettamente a essa consequenziale e a partire da questo principio: nella vulnerabilità umana è sempre misteriosamente presente e attiva la grazia.

“Réparer l’irréparable”

È un’indicazione preziosa. Anzitutto in chiave preventiva. Gli abusi sono prima di tutto abuso relazionale o, nei nostri termini, dicono l’ignoranza del mistero del tu e il non rispetto della sua vulnerabilità.

Recuperare il senso del mistero è il più efficace antidoto d’ogni tipo di abuso, da mettere in atto con tutti e in ogni relazione, e non solo per evitare l’abuso qua talis, ma per favorire uno stile relazionale che colga e promuova la dignità radicale di ogni essere umano.

E se è dignità radicale, inscritta nelle radici, essa non potrà mai essere totalmente cancellata.

Al Colloque ci si è chiesti come Réparer l’irréparable, prendendo atto con realismo di quel qualcosa che s’è rotto nella vittima forse per sempre. In realtà, la prospettiva della vulnerabilità all’interno della logica del mistero ha pure una valenza terapeutica e formativa. Non ce l’ha però in automatico, ma solo quando il rapporto con la vittima si ispira in concreto a questa logica ed è segnato da alcuni atteggiamenti. Accenno solo a qualcuno di questi:

  • Sofferenza per le vittime. Non compassione qualsiasi, ma vera e propria libertà di “soffrire per e con” la vittima stessa (cum-pati). Molti nella Chiesa hanno sofferto più per la brutta figura di fronte alla società che non per il dolore e la disperazione provocati in persone già deboli!
  • Rispetto e trasparenza motivazionale. La vittima ha un sesto senso per cogliere la verità interiore di chi la vuole aiutare. Distingue chi è sinceramente interessato a lei e alla sua libertà/dignità da chi non la rispetta nella sua fatica e nella sua memoria ferita, nei suoi segreti e nei suoi ritmi di apertura. Si sente nuovamente abusata da chi presume imporsi nella sua vita con “accanimento terapeutico”, o curiosità indisponente o ambizione del successo professionale.
  • Coscienza della gravità dell’offesa e del danno inferto. Tale criterio dice il livello della coscienza/sensibilità morale-penitenziale del presbitero. Ma, se è vero che la grande maggioranza dei preti abusatori non ha mai chiesto perdono a nessuno, questo criterio svela pure quanto sia povera in essi l’esperienza della loro vulnerabilità riconciliata![8]
  • Riconoscimento della propria responsabilità. Lo scandalo di pochi è conseguenza della mediocrità di molti, o di tutti. Così dice la lettura sistemica, per questo l’approccio al dramma degli abusi è ricostruttivo/riparativo solo se c’è un senso di responsabilità generale, in ogni membro della comunità presbiterale, e tutti in qualche modo intervengono. Per abbattere, ad es., la cultura della mediocrità (che è già scandalo e che conduce alla copertura degli scandali)!
  • Scoperta della grazia nascosta nella colpa. C’è “elaborazione del lutto” solo quando esso è vissuto come momento di formazione permanente, solo quando nella disgrazia del proprio peccato si intravvede la grazia che ci purifica e risana. Non ne verremo fuori da questa brutta storia senza il coraggio d’esser veri con noi stessi. Ma, se impareremo a vivere la nostra vulnerabilità e quella dell’altro riconoscendo in esse il mistero della vulnerabilità di Dio, anche questa brutta storia diverrà storia di salvezza!

[1] Specie nel 3°, La formazione in tempo di abusi, CEI/SNTM (a cura di A. Cencini e S. Lassi), Roma 2021, p. 85.

[2] Non s’intende qui mettere in discussione l’onnipotenza del Creatore, ovviamente, ma ricordarne più correttamente la finalità (non è fine a sé stessa, ma in funzione dell’amore) per segnalare, soprattutto, l’uso strumentale e distorto che ne fa l’abusatore.

[3] È infatti l’esperienza di Paolo alle prese con la spina nella carne (cf. 2Cor 12,7-10). O quella delle lacrime amarissime e dolcissime di Pietro, dopo il rinnegamento del Maestro (e lo sguardo di Gesù che lo fissa negli occhi: Lc 22,54-62).

[4] Come Mosè dinanzi al roveto ardente (cf. Es 3,1-6).

[5] In effetti, è tipica di quasi tutte le religioni, ma forse non dice la caratteristica centrale di quella cristiana.

[6] Cf. Mt 25,31-46, 18, 5.

[7] Gesù, infatti, dalla croce decide di non scendere, come pure è provocato a fare, con un atto di potenza che avrebbe in qualche modo “imposto” una fede nata dalla paura (del suo potere), non certo dall’amore!

[8] Detto diversamente, se il prete, specie in quanto ministro della Riconciliazione, è “guaritore ferito” (Nouwen) o “ladrone graziato” (De Chergé), come può esercitare quel ministero senza l’esperienza personale della sua ferita inondata dalla grazia?

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