La Chiesa “dopo”, tra rischi e opportunità

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La drammatica pandemia da Coronavirus, che ci ha investiti sin dai primi mesi dell’anno 2020, si è affacciata partendo dalla città cinese di Wuhan. Un giorno, il presidente degli Stati Uniti John Kennedy disse che la parola “crisi” in cinese è composta da due caratteri: uno rappresenta il pericolo e l’altro l’opportunità. Situandoci dentro uno “sguardo credente”, anche noi siamo chiamati ad affrontare le crisi della nostra vita vincendo la tentazione di restarcene semplicemente a subire il destino che ci capita. Siamo chiamati, invece, ad abbracciare coraggiosamente la crisi che ci è posta davanti, per chiederci cosa vuole comunicarci e quali opportunità di cambiamento essa porta con sé.

Attraversare la crisi

Infatti, nella nostra vita, le crisi semplicemente arrivano. Talvolta, arrivano per evitarci il peggio, cioè quando la vita galleggia in superficie senza mai andare a fondo e rischiamo di perderne la bellezza e il senso. E allora, attraverso situazioni concrete dell’esistenza quotidiana o eventi naturali e sociali, la vita ci mette davanti a sempre nuove sfide, ci pone interrogativi, ci chiede talvolta di fermarci e di svoltare, chiamandoci a vivere anche traumi e sofferenze.

Eppure, questi sono i luoghi di passaggio, i punti cruciali, gli spazi in cui la nostra esistenza può cambiare, crescere, trasformarsi. Senza crisi non può esserci nessuna crescita e nessuna trasformazione. Attraversare la crisi, anche quella generata dalla pandemia, significa evitare i meccanismi di rimozione che spesso utilizziamo dinanzi alle esperienze traumatiche.

Fin quando neghiamo la crisi, essa rimane per noi un macigno. Se accogliendola ci chiediamo quale messaggio di cambiamento essa ci rivolge e quale lezione di vita possiamo impararne, allora la crisi apparirà come una crepa che si apre dentro la nostra fragile storia, ma da cui entra una nuova luce. In quel momento, quando ci saremo dati il permesso di “perdere la nostra vita”, allora la ritroveremo oltre la staticità e le abitudini in cui spesso la costringiamo, rileggendola e ripensandola. Soprattutto, immaginandola nuovamente.

Un tempo provvidenziale

La crisi generata dalla pandemia ci ha sconvolti e lascerà uno strascico, di natura non solo economica, più grande di quanto ora possiamo percepire. Tuttavia, come ci ha ricordato papa Francesco, «la crisi della pandemia è un’occasione propizia per una breve riflessione sul significato della crisi, che può aiutare ciascuno». Anche dal punto di vista della vita spirituale ed ecclesiale siamo chiamati a interrogarci. Nel mio libro Quando finisce la notte. Credere dopo la crisi (Edizioni Dehoniane), anzitutto mi sono chiesto: può essere la crisi un tempo provvidenziale anche per il nostro modo di essere Chiesa e per la nostra azione pastorale?

La domanda si fa ancora più urgente se ci fermiamo a riflettere su quanto è accaduto specialmente durante il primo lock-down. La sospensione delle celebrazioni eucaristiche e dell’ordinaria attività pastorale, accanto a interessanti iniziative, ha anche rivelato una crisi di natura teologica, ecclesiale e liturgica su cui riflettere.

La fotografia più preoccupante è quella relativa alle iniziative pastorali e alla liturgia che spesso le ha messe in atto. La sofferenza per il digiuno eucaristico ha generato iniziative sfociate, talvolta, nella spettacolarizzazione liturgica e nel rischio di un clericalismo di ritorno, che mette al centro della scena ancora e solo il prete. Più in generale, è emersa la visione di fondo che soggiace a buona parte della nostra azione pastorale: la sacramentalizzazione della vita di fede e della pratica ecclesiale. Abbiamo coperto l’ansia del vuoto con una serie di messe in streaming nelle quali – come ha ricordato Andrea Grillo – il prete ha fatto Pasqua e gli altri hanno assistito dal divano di casa.

Come saremo dopo?

In tale cornice, il popolo di Dio viene ritenuto superfluo. E la messa torna a essere pericolosamente intesa come un atto di culto individuale e privato. La crisi può essere però un’occasione positiva. Essa ci chiama ad uscire da una concezione pastorale, liturgica e più in generale spirituale, fondata esclusivamente sulla celebrazione della messa, spesso ripetuta in modo meccanico, ostinatamente proposta come unica azione liturgica anche nei giorni feriali.

Ciò, infatti, rivela una seria mancanza di creatività pastorale e mostra quanto siano ancora marginali la centralità della parola di Dio con le diverse forme di annuncio ed evangelizzazioni connesse, le altre forme di preghiera liturgica, il confronto su temi esistenziali e culturali, le forme della carità vissuta dentro una trama di relazioni qualitativamente umane.

Papa Francesco in Evangelii gaudium afferma che c’è un predominio della sacramentalizzazione su altre forme di evangelizzazione. Allo stesso tempo, la pandemia ci ha fatto vedere una rinascita della Chiesa domestica. Sono nate interessanti esperienze di preghiera in famiglia, liturgie della Parola celebrate nelle case, celebrazioni domestiche preparate e vissute con semplicità e familiarità. Una Chiesa con al centro i battezzati, che vive laddove la gente vive, cioè nelle case.

Come saremo, dunque, dopo la pandemia? Quale Chiesa? Se riprenderemo semplicemente a “dir messa” e la nostra pastorale sarà di nuovo solo questo, allora avremo sprecato la crisi. Siamo chiamati, invece, a un’immaginazione pastorale, che abbia al centro il popolo di Dio e che cerchi vie e strumenti per rinvigorire le forme dell’annuncio e dell’evangelizzazione, per vivere e offrire momenti di preghiera e di confronto sulla parola di Dio, per creare occasioni di sostegno alla fede nelle case. La sfida, a quanto pare, è appena cominciata.

  • Vita pastorale, n. 7, luglio 2021. Francesco Cosentino è autore per EDB del saggio Quando finisce la notte. Credere dopo la crisi (Bologna 2021). 
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