Per vedere un Patriarca di Venezia in visita alla Biennale d’Arte, istituita nel 1895, bisogna aspettare Angelo Giuseppe Roncalli, che vi si reca per ben due volte, nel 1956 e nel 1958, per quanto ricavandone impressioni poco entusiastiche: «Un vero ospedale dell’Arte, e degli artisti», scrive sulle sue agende. Prima di allora, comunque, è solo una sequela di interdetti al clero, e dissuasione dei fedeli.
Quanto ai Papi, nemmeno Paolo VI vi avrebbe mai fatto visita, per quanto amico delle arti, e autore dell’ormai leggendario discorso agli artisti nella Cappella Sistina. Quella di Papa Francesco alla Biennale, avvenuta la scorsa domenica, è perciò una visita epocale, persino inaspettata se si considera il cliché anti intellettualistico che accompagna questo pontificato.
L’arte di “far pensare”
A favorire l’occasione ha certamente contribuito il padiglione con cui la Santa Sede riprende la partecipazione alla Biennale, dopo qualche anno di interruzione, e allestito negli spazi della Casa di reclusione femminile Venezia Giudecca, per la cura di Bruno Racine e Chiara Parisi, e intitolato Con i miei occhi.
Ma la visita del papa avviene anche in coerenza col discorso agli artisti pronunciato nella cappella Sistina il 23 giugno scorso, nel quale Francesco li aveva definiti «alleati» di molte delle sue preoccupazioni. Quella occasione ha mostrato come una visione del cristianesimo «in uscita», come quella messa in luce dal magistero di Francesco, permette di comprendere anche meglio i tratti specifici dell’«arte contemporanea», ostica frontiera culturale per un cristianesimo che in fondo non smette di dibattersi nel pesante velluto delle proprie nostalgie.
Rapporti occasionali a parte, tra ambienti di Chiesa e arte contemporanea si respira ancora una grande freddezza. L’inconscio cristiano, come se fossero essenze eterne e immutabili, chiede ancora all’arte i vecchi elisir della figura illustrativa e della forma bella, mentre l’arte da più di un secolo a questa parte è proprio diventata qualcosa di molto diverso, ricostituendo su altri registri la propria missione sociale.
Nell’ambito della cultura tardo moderna, che andava preparando il nuovo mondo della ragione, poi della scienza, della tecnica e dell’amministrazione – che è poi quello in cui abitiamo noi –, all’arte si voleva assegnare la funzione di compensazione spirituale nel contesto del nuovo pragmatismo raziocinante che andava trasformando il mondo in un condominio gestito da ingegneri.
L’arte però si è subito sottratta a questo destino di consolatrice degli afflitti e di arredatrice del mondo, di compensatrice cosmetica e di estetista della realtà disincantata, rifiutandosi di ridursi a semplice decoratrice del nuovo prefabbricato secolare; quanto più nella città-mercato della nostra civiltà turbo-capitalista la bellezza, nuovo oppio dei popoli, ha riempito il mondo, tirannica e ingiuntiva.
L’arte ha così deciso che anziché abbellire e rappresentare avrebbe dovuto «far pensare», tenere svegli, sottrarre il più possibile ai sedativi di una bellezza incantatoria, agli effetti edulcoranti di retoriche valoriali ormai inservibili, mostrare le contraddizioni della realtà; servendosi pure della provocazione e dell’ironia.
Gli artisti contemporanei, nel loro ormai tipico intento concettuale e nei loro ormai consueti tratti performativi, assomigliano così ai profeti dell’Antico Testamento, quando ricorrono a bizzarre performance per scalfire e provocare il conformismo di una falsa religione.
Le strade di una alleanza possibile
È su questo piano che papa Francesco ha potuto vedere come «alleati» gli artisti a cui si è rivolto, anche in occasione della sua visita alla Biennale di Venezia, come «coscienze critiche» della società, profondamente vicine alle passioni di un cristianesimo che non può accettare di essere disincarnato.
Naturalmente ogni scarto ha il suo prezzo. L’arte certo non accetta di essere la curatrice del dilettevole in questo mondo dell’utile, e sta lontana da quello che è troppo bello per essere anche vero. Accetta persino di scendere negli inferi dell’abiezione umana, se necessario, per ricordare al prometeismo di oggi che siamo polvere e polvere ritorneremo.
Ma a frequentare troppo gli inferi, si corre il rischio di pensare che essi siamo il solo luogo delle nostre verità, il capolinea della nostra destinazione. Mettere in luce la contraddizione, se non è anche illuminazione della giustizia che la riscatta, irradia solo le subliminali frequenze della rassegnazione, e quella malinconia sottocutanea che spesso resta depositata dopo certi estremi di disincanto artistico.
Per essere «vera» e non «cosmetica» l’arte ha anche accettato di essere «nichilista»? L’intenzione che la Santa Sede manifesta con la sua partecipazione alla Biennale, e che papa Francesco rafforza con la sua presenza e le sue parole, sembra scommettere diversamente, e immaginare che una coscienza cristiana fraterna e pensante – prima ancora che istituzioni religiose influenti – possa avere ancora nell’arte una fidata compagna di viaggio, alleata nel tenere vive le ragioni dello spirito, che sono sempre le ragioni di tutti.
Certo, bisogna deporre atteggiamenti anacronistici, bisogna stimare l’interlocutore, e camminare con lui, e se ti chiede «di fare un miglio, fanne con lui due».
Tra le opere più vistose del padiglione con cui la santa sede partecipa alla biennale c’è il murale di Maurizio Cattelan sulla facciata esterna dell’ex chiesa della Maddalena; due giganteschi piedi impolverati che hanno già avviato una gara di attribuzioni allegoriche (i piedi del devoto nel Caravaggio della Madonna dei pellegrini? I piedi di scorcio del Cristo morto di Mantegna?), e che quindi possono anche essere presi come logo di un’alleanza che, per quanto antica e tradizionale, non può mantenersi viva senza pazienza e senza fatica.
- L’articolo è stato pubblicato su L’Eco di Bergamo il 13 maggio 2024