«Due religioni oggi si contendono il dominio degli spiriti e del mondo: la nera e la rossa. Da due Vaticani partono oggi le encicliche: da quello di Roma e da quello di Mosca. Noi siamo gli eretici di queste due religioni. Noi, soli, immuni dal contagio».
Così scriveva Benito Mussolini sul «Popolo d’Italia» il 1° gennaio 1920. Nel Programma del movimento fascista pubblicato pochi mesi prima, del resto, erano previsti «il sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l’abolizione di tutte le mense vescovili che costituiscono una enorme passività per la nazione e un privilegio di pochi». Mussolini era allora ancora saldamente in prima fila sul fronte della lotta anticlericale e continuava a proclamarsi «anticristiano alla maniera di Nietzsche».
Mussolini e la politica filocattolica
La svolta filocattolica maturò per motivi politici e coincise con la virata a destra del movimento fascista, decisa dopo l’insuccesso nelle elezioni del novembre 1919, che spinse Mussolini a cercare una base più ampia e socialmente diversificata.
Nel secondo congresso del Movimento dei Fasci di combattimento, che ebbe luogo a Milano dal 24 al 25 maggio 1920, Mussolini liquidò la richiesta, venuta da Marinetti, di affermare un’intransigente avversione al papato: «Quanto al Papato – disse Mussolini – bisogna intendersi: il Vaticano rappresenta 400 milioni di uomini sparsi in tutto il mondo e una politica intelligente dovrebbe usare ai fini dell’espansionismo proprio questa forza colossale. Io sono, oggi, completamente al di fuori di ogni religione, ma i problemi politici sono problemi politici. Nessuno in Italia, se non vuole scatenare la guerra religiosa, può attentare a questa sovranità spirituale».
La posizione si precisò nei mesi successivi quando il fascismo iniziò ad affermarsi come movimento di massa sbaragliando, con la violenza squadrista, le organizzazioni rosse e presentandosi ai ceti medi, agli agrari, agli industriali, come difensore della civiltà italiana e della società borghese dalla minaccia della rivoluzione bolscevica.
L’intervento che meglio articola il ripudio, da parte di Mussolini, del passato anticlericale e anticattolico è il discorso pronunciato alla Camera del 21 giugno 1921, in occasione dell’esordio parlamentare di Mussolini, che le elezioni generali del 15 maggio avevano portato alla Camera con altri 35 deputati fascisti, dopo una campagna elettorale funestata da violenti scontri tra i fascisti e i loro avversari.
Alla questione religiosa Mussolini riservò passaggi significativi. In primo luogo, liquidò la militanza anticlericale degli anni passati come un errore di gioventù, ormai «alquanto anacronistico» per spiriti «eminentemente spregiudicati» quali erano i fascisti. Rispetto ai rapporti tra Italia e Vaticano, egli si propose quindi quale l’unico interlocutore in grado di risolvere la Questione romana. Sul piano simbolico incardinò, infine, l’incontro del fascismo con la Chiesa sulla romanitas che aveva introdotto nel cattolicesimo la tradizione latina e imperiale.
La legittimazione agli occhi dei vertici ecclesiastici implicò, da un lato, il ridimensionamento delle spinte anticlericali ancora presenti nel fascismo, dall’altro lato, la lotta a tutto campo contro il Partito popolare. Dal programma del Partito nazionale fascista (Pnf), pubblicato il 27 dicembre 1921, scomparve qualsiasi riferimento all’espropriazione dei beni delle congregazioni religiose, anche se venne ribadito il principio della sovranità dello Stato sulla Chiesa.
La sottovalutazione di Sturzo
Gli attacchi contro gli esponenti del partito cattolico si intensificarono invece nel corso del 1922, quando la crisi dello Stato liberale, incapace di far fronte al dilagare dello squadrismo per la debolezza di governi precari, raggiunse la fase più acuta. Nel frattempo, il Pnf (con oltre 300.000 iscritti, una milizia armata, associazioni giovanili e femminili, affiancato da sindacati che contavano circa un milione di aderenti) si era sviluppato come la più forte organizzazione del Paese e si accingeva a prendere la via del potere.
Il peso crescente che andava assumendo il fascismo nel Paese venne sottovalutato, in questa fase, da don Luigi Sturzo. Il Partito popolare aveva ottenuto, nelle elezioni politiche del novembre 1919, 100 deputati, collocandosi alla Camera alle spalle di quello socialista, che ne aveva 156. Nel già citato discorso parlamentare del 21 giugno 1921 Mussolini aveva liquidato gli episodi di violenza squadrista contro i popolari a «qualche legnata» e a «un incendio sacrosanto di un giornale, che aveva definito il fascismo un’associazione a delinquere».
Il Partito popolare – aveva concluso – doveva scegliere: «o amico nostro o nostro nemico o neutrale». Popolarismo e fascismo vennero inoltre a trovarsi impegnati in un medesimo terreno e nei confronti delle stesse classi sociali. L’uno per dare alla piccola e media borghesia rurale diritto di cittadinanza civile e democratica all’interno dello Stato; l’altro per utilizzare quelle medesime forze contro le leghe contadine, rosse o bianche che fossero, e ristabilire l’ordine nelle campagne.
Tuttavia, nell’estate del 1922, l’«uomo nuovo» della politica italiana non ispirava ancora sufficiente fiducia in Vaticano se, nel mese di agosto, «La Civiltà Cattolica» rinfacciò più volte al fascismo e al suo capo le violenze, le squadre armate, le azioni punitive, le intimidazioni. La conclusione, per la rivista della Compagnia di Gesù, andava espressa con chiarezza: «i cattolici – si leggeva nel numero del 19 agosto 1922 – non potevano approvare, nonché sostenere il fascismo», perché «opposto», almeno quanto il socialismo, «ai più elementari principii del cristianesimo». Nonostante le molte professioni fatte a favore della Chiesa «per addormentare le coscienze», il fascismo – si precisava nel numero successivo, il 2 settembre – era incompatibile con lo «spirito del cattolicesimo» e sarebbe venuto «fatalmente a cozzo» con esso.
Un partito che erige a sistema la violenza e la ribellione e la esalta e se ne pompeggia, è destinato a battere la strada della tirannia più esosa, così essendo in perfetto antagonismo con lo spirito del cattolicesimo: con esso verrà fatalmente a cozzo, nonostante le mille e una affermazione in contrario fatte dai corifei del fascismo per addormentare le coscienze.
Il 18 settembre, alla vigilia del Consiglio nazionale del Partito popolare, otto senatori dell’ala destra del partito indirizzarono a Sturzo una lunga lettera in cui segnalavano la loro opposizione alle prospettive di accordo con i socialisti e a una svolta a sinistra del partito. Tra gli otto figuravano i conti Carlo Santucci e Giovanni Grosoli, rispettivamente presidente e vicepresidente del Banco di Roma. Si trattava di due figure molto ben inserite nelle stanze vaticane e obbedientissime alle direttive romane, motivo per cui l’iniziativa apparve come un segnale per preparare la strada alla collaborazione della destra cattolica con i fascisti.
Legittimazione vaticana
Il quindicinale della Compagnia di Gesù dovette modificare a stretto giro il proprio giudizio su Mussolini per legittimare il fascismo agli occhi del mondo cattolico su indicazione del preposito generale della Compagnia, Wlodozmierz Ledóchowski, e del pontefice, Pio XI.
Achille Ratti era stato eletto papa il 6 febbraio 1922, pochi mesi prima della marcia su Roma. Aveva sessantacinque anni e si accingeva ad affrontare un periodo segnato da una drammatica centralità dei fatti di politica internazionale: quattro dittatori (Mussolini, Hitler, Stalin, Franco) a minare l’equilibrio europeo, la grande crisi finanziaria del 1929, un conflitto coloniale, i gravi contrasti tra Chiesa e governo in Messico, la guerra di Spagna, le leggi razziali in Germania e in Italia, la preparazione della Seconda guerra mondiale.
In continuità con la linea tracciata dal predecessore, papa Benedetto XV, Pio XI arroccava l’azione della Santa Sede in un orizzonte complessivo ierocratico: la pace si sarebbe potuta ritrovare solo all’interno di un ordine della vita collettiva che qualificava come “il regno sociale di Cristo”: l’organizzazione di un consorzio umano che riconoscesse la suprema sovranità del Salvatore e perciò del suo vicario in terra. Non a caso, al tema della regalità di Cristo Pio XI avrebbe dedicato la sua seconda enciclica, apparsa col titolo Quas primas l’11 dicembre 1925, alla chiusura dell’Anno Santo.
Essa si innestava – come non mancava di richiamare papa Ratti – sul culto del Sacro Cuore di Gesù, al quale nei decenni precedenti erano state consacrate famiglie, eserciti, nazioni di tutto l’orbe cattolico. Il cuore sanguinante di Gesù simboleggiava la divina afflizione per gli esiti scristianizzanti del mondo moderno, e il suo culto, rilanciato negli anni della Grande Guerra, si prestava a veicolare il progetto teocratico di ri-cristianizzazione della società.
Pio XI proponeva dunque una teologia politica modulata attorno a una visione monolitica e autoritaria della cattolicità. Era un impianto che si prestava a un abbraccio col fascismo per la comune radice autoritaria, antiliberale, antidemocratica, gerarchica. Ma era anche un impianto che, proprio in virtù del suo carattere onnicomprensivo, non poteva fare a meno di rivaleggiare con le pretese totalizzanti dello Stato che Mussolini si apprestava a costruire.
Oscillanti furono le reazioni ecclesiastiche alla pratica del bastone e della carota, che costituì il segno prevalente della politica ecclesiastica mussoliniana dopo la svolta del 1921. Le proteste per le azioni violente che non risparmiavano il clero, gli scout, le organizzazioni e i giornali cattolici, spesso riportate anche su «L’Osservatore Romano» e «La Civiltà Cattolica», si accompagnarono costantemente a precisazioni volte a distinguere la violenza dei rossi da quella dei fascisti e a negare che vi fossero responsabilità politiche da parte del capo del governo.
Il Vaticano dopo la marcia su Roma
Quale fu la reazione alla marcia su Roma? Alla prova di forza dello squadrismo fascista non seguì una presa di posizione netta da parte della Santa Sede. Il papa – scrisse «L’Osservatore Romano» nel numero del 30-31 ottobre 1922 – intendeva tenersi «sopra ad ogni competizione politica», senza con ciò rinunciare al suo ruolo guida che presiede «spiritualmente alle sorti di tutte le nazioni cattoliche».
Del resto, in Vaticano erano giunte rassicurazioni rispetto al sostegno che il fascismo avrebbe garantito alla religione cattolica e alla Chiesa. Pochi giorni dopo la formazione del nuovo governo, il cardinale Gasparri, in un’intervista rilasciata a un giornalista francese, definì il fascismo una necessità per l’Italia: il Paese – disse il porporato – andava incontro all’anarchia e bene aveva fatto re Vittorio Emanuele III ad affidare l’incarico di presidente del Consiglio a Mussolini anziché comandare ai soldati di sparare sulle camicie nere.
Nel discorso del bivacco, pronunciato alla Camera il 16 novembre 1922, il capo del governo assicurò un rispetto «particolare» al cattolicesimo e alla Chiesa. E, in chiusura del suo intervento, invocò su di sé la benedizione divina: «Così Iddio mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica». Nel giro di due anni il più giovane presidente del Consiglio nella storia dell’Italia unita prese provvedimenti in favore della Chiesa che appagavano richieste e rivendicazioni disattese e contrastate per sessant’anni dai governi liberali del Regno.
Mentre il governo affermava il suo impegno per l’indissolubilità del matrimonio e contro il divorzio, fu fatto obbligo di esporre il crocifisso nelle aule scolastiche e via via in tutti i locali pubblici. Il governo realizzò inoltre il salvataggio del Banco di Roma, che aveva un ruolo centrale nel controllo e nella direzione delle maggiori banche cattoliche, mentre il Gran Consiglio del Fascismo dichiarò incompatibile il fascismo con uno dei nemici storici della Chiesa: la massoneria. Altri provvedimenti andarono nella direzione della tutela della moralità: dalla repressione del gioco d’azzardo a quella della pornografia e dell’alcolismo.
La vera dimostrazione che Mussolini e i suoi ministri intendessero dare un colpo definitivo al “laicismo” venne dalla riforma Gentile della scuola, annunciata dal ministro già all’indomani della sua nomina, il 31 ottobre 1922, al dicastero della Pubblica istruzione, e culminata nei regi decreti della primavera-autunno 1923: l’insegnamento della religione cattolica diventava obbligatorio nelle scuole elementari statali, l’esame di Stato toccava a tutti gli studenti, di qualsiasi provenienza scolastica essi fossero e agli istituti privati era concessa piena libertà di insegnamento.
Il problema “Sturzo”
Nella costruzione di un rapporto di collaborazione sempre più stretto tra Mussolini e la Santa Sede restava una pietra d’intralcio: Luigi Sturzo. I fascisti scatenarono una campagna violenta contro il sacerdote siciliano e i popolari, giungendo a minacciare progetti di legge contro le congregazioni e le scuole cattoliche per indurre le gerarchie ecclesiastiche a piegare la resistenza del sacerdote.
Il 5 luglio 1923 il cardinale Gasparri chiese a Sturzo di dimettersi dal ruolo di segretario del Partito popolare, cosa che fu formalizzata nel giro di 5 giorni.
In quell’estate 1923 era ancora così difficile ipotizzare di essere alla vigilia dell’instaurazione di una dittatura? La Santa Sede sapeva bene che la violenza fascista dilagava nel paese con pestaggi, omicidi, olio di ricino. Spesso erano «L’Osservatore Romano» e la «Civiltà Cattolica» a darne notizia sulle proprie pagine. Nell’estate del 1923 vennero sciolte, di forza, le amministrazioni popolari, devastate sedi di partito e di giornali, aggrediti scout e giovani cattolici.
A Torino, il 1° agosto, alcuni giovani furono percossi da ufficiali della milizia fascista perché portavano il distintivo della Gioventù Cattolica. A Como i fascisti distrussero i locali del giornale cattolico «L’Ordine» senza risparmiare il quadro del Sacro Cuore. A Pisa venne devastato il circolo della Gioventù Cattolica. Il 23 agosto 1923 i fascisti uccisero a bastonate un arciprete sulla soglia della sua canonica. Era il parroco di Argenta, don Giovanni Minzoni, colpevole ai loro occhi di avere rifiutato i gradi di centurione cappellano della Milizia, ma soprattutto di essere l’assistente ecclesiastico di un gruppo scout di una settantina di ragazzi e di distoglierli dalle attività delle organizzazioni giovanili fasciste.
I vantaggi e la fiducia
La deriva autoritaria era evidente, ma al papa e ai suoi sembrò che Mussolini e il fascismo meritassero ancora fiducia, per ciò che avevano fatto a vantaggio della Chiesa e per ciò che restava da fare: la soluzione della Questione romana. Non era una complicità solo tattica, frutto di una reciproca strumentalizzazione, ma più intima e sostanziale.
Vi erano, tra cattolicesimo e fascismo, consonanze essenziali. Il culto dell’autorità, la critica corrosiva del pensiero liberaldemocratico nel suo fondamentale nucleo, cioè l’individualismo, il bisogno di disciplina, la diffidenza per ogni forma di discussione, costituivano i pilastri di una sintonia rafforzata dalla percezione dell’esistenza di nemici comuni come la massoneria, il liberalismo, il comunismo.
Neanche l’omicidio di Matteotti incrinò la linea di apertura della Santa Sede al governo. Alla vigilia dell’Aventino, il 25 giugno 1924, «L’Osservatore Romano» aveva ammonito sui pericoli di un «fatale salto nel buio». Il 2 agosto, sulle pagine della «Civiltà Cattolica», un editoriale di padre Enrico Rosa, i cui contenuti erano stati fissati col segretario di Stato, definiva Matteotti una «vittima della comune delinquenza politica», di cui erano responsabili i socialisti quanto i fascisti.
Quando, l’8 settembre, Pio XI negò la possibilità di qualsiasi accordo tra cattolici e socialisti, la scelta a favore di Mussolini era già definitiva, come avrebbe confermato di lì a poco la decisione di invitare Sturzo a lasciare l’Italia. L’Anno Santo del 1925 era alle porte. Il cammino verso la Conciliazione da compiere.
Per approfondire:
Lucia Ceci, L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini, Laterza, Roma-Bari 20192 .
Alberto Guasco, Cattolici e fascisti. La Santa Sede e la politica italiana all’alba del regime (1919-1925), Il Mulino, Bologna 2013.
- Lucia Ceci è professoressa ordinaria di storia contemporanea presso l’Università di Roma Tor Vergata.