Chiesa e teologia: pensare in frontiera

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I segni della storia e delle vicende umane, complessità da accogliere e decifrare, costituiscono lo spazio imprevedibile in cui l’intelligenza della fede può inoltrarsi soltanto in punta di piedi. Questa riserva dell’imprevisto sorge nelle frontiere, in quei confini labili tra il conosciuto e l’ignoto, dove i codici e le definizioni sperimentano una timida limitatezza. Le frontiere sono situazioni in cui affiora l’inatteso che provoca domande nuove penetrando il presente della carica innovativa del futuro.

Anticamente finis terrae rappresentava la fine del mondo noto e l’inizio dell’incognito: lì dove le frontiere generano il gusto dell’immaginazione. Ci sono le frontiere della Chiesa, ma anche frontiere – apparentemente – fuori dalla Chiesa che esprimono una profezia “laica” a tratti rivoluzionaria. La sintesi finale della prima sessione del Sinodo sulla sinodalità (ottobre 2023) ha ribadito l’urgenza di una teologia capace di discernimento condiviso sulle cosiddette questioni controverse in vista della sessione del prossimo ottobre. La teologia serve nella misura in cui non solo va in frontiera, ma sorge dalle frontiere.

Francesco, il papa venuto dalla fine del mondo, ricorda spesso che “insegnare e studiare teologia significa vivere su una frontiera, quella in cui il Vangelo incontra le necessità della gente a cui va annunciato in maniera comprensibile e significativa” (Lettera alla Pontificia Università Cattolica Argentina, 3 marzo del 2015).

La scelta di compiere il suo primo viaggio apostolico a Lampedusa costituisce un segno da decifrare: iniziare dalla periferie umane in cui gli scartati – in questo caso i migranti – diventano pietre fondamentali di un cristianesimo che assume lo sguardo degli oppressi. Le lacrime e il grido di chi abita la frontiera diventano cattedra di vita per coloro che – risiedendo nel centro – ritengono di dover insegnare senza imparare più nulla. Le frontiere sono segni che si incontrano nella realtà, per tale motivo papa Francesco ribadisce spesso che “la realtà è superiore all’idea”.

Qui è racchiusa la proposta di un cristianesimo che travalica il modello tradizionale in cui si applicano le idee alle storie delle persone. Lasciarsi sfidare dalle frontiere permette di cercare nei vissuti concreti le briciole possibili di autenticità maturate dopo sofferti percorsi colorati di ferite e liberazione.

Per tale motivo la teologia e la catechesi dovrebbero accogliere l’esperienza delle diverse frontiere umane e spirituali: evitando il rischio di annunciare il Vangelo da un laboratorio asettico in cui il contatto con l’umanità concreta diventa accessorio e i principi prevalgono sulla logica del mutamento.

I segni delle frontiere non si possono quindi addomesticare. L’approccio di Francesco ai cosiddetti “valori non negoziabili” si interpreta pienamente alla luce di questo retroterra teologico che non svilisce ma ampia gli orizzonti del deposito della fede. La sua tenacia intorno ai problemi sociali e politici esprime il desiderio di abitare le frontiere senza precludersi il dialogo con persone di altre religioni o correnti culturali.

Ogni frontiera nel momento in cui ferisce lascia anche un segno indelebile: ciò vale anche per i vissuti legati all’affettività. Per la prima volta in un documento magisteriale (Amoris laetitia) compare la parola “fragilità” (ben 18 volte), intesa non più come problema da arginare, ma come frontiera su cui il Vangelo non smette di elargire la sua luce: “lieto annuncio ai poveri, liberazione ai prigionieri, vista per i ciechi” (Lc 4,14-21).

  • Prima pubblicazione sull’Osservatore Romano del 20 giugno 2024.
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