Albert Gerhards è professore di liturgia presso la facoltà teologica della Rheinische Friedrich-Wilhelm-Universitàt di Bonn. In questo articolo risponde alle domande di katholisch.de che ha effettuato un vasto sondaggio lo scorso autunno, in tutte le diocesi della Germania, sulla sorte delle chiese che sempre più rimangono vuote e che spesso vengono demolite, vendute o abbandonate. Il problema non è solo della Germania, ma riguarda diversi altri Paesi, soprattutto dell’Europa del Nord. Così Tobias Glenz ha sintetizzato le risposte del prof. Albert Gerhards.
Una forte deflagrazione – e il campanile della chiesa che un tempo si ergeva così orgoglioso, crolla su se stesso con grande frastuono. E, ciò che la dinamite ha risparmiato, viene spianato dai bulldozer. Dopo pochi giorni non rimane nient’altro che uno grande spazio vuoto – lì dove per decenni e oltre sorgeva l’edifico di culto di molta gente.
La perdita della propria chiesa per i fedeli è uno scenario horror. Ma in Germania, ormai da anni, le demolizioni delle chiese per mancanza di preti, di fedeli e anche di denaro, sono una realtà. Se un edificio sacro non può più essere conservato come luogo di culto, la demolizione dev’essere comunque l’ultima ratio – l’ultima soluzione possibile: così si esprimeva la Conferenza episcopale tedesca in un sussidio del 2003.
Uno sguardo alla situazione
Dall’inizio del millennio, in Germania, oltre 500 chiese cattoliche sono state abbandonate come luoghi di culto. Il dato risulta da un’indagine effettuata da katholisch.de in tutte le diocesi tedesche; due diocesi non hanno potuto fornire alcuna indicazione concreta.
In parte, gli edifici sacri sono rimasti in mano alla chiesa e sono stati adibiti a nuovi usi, un’altra parte è stata venduta e una terza parte è stata demolita: circa 140 edifici dal 2000, stando ai dati delle diocesi.
Le cifre sono distribuite in maniera molto disuguale. Nella diocesi di Magonza, durante questo periodo, nessuna chiesa è stata chiusa o demolita; lo stesso vale per alcune diocesi del sud del Paese. Altrove, invece, si sono avute numerose chiusure e demolizioni: così nella diocesi di Essen sono state chiuse 105 chiese, 52 sconsacrate e 31 demolite. Nella diocesi di Münster sono state 55 le chiese sconsacrate e 24 quelle demolite.
Il totale di 140 demolizioni, su oltre 24.000 chiese cattoliche e cappelle, in Germania, può non sembrare particolarmente alto. «Ma questa tendenza è solo agli inizi», sottolinea lo studioso di liturgia di Bonn, Albert Gerhards. Se non ci sarà un ripensamento, è da prevedere che, nei prossimi anni, il numero delle demolizioni sarà in forte aumento.
Gerhards che, a partire dagli anni ’90, si occupa del problema della chiusura delle chiese, critica il fatto che già oggi in molti luoghi ci siano delle chiese che vengono frettolosamente abbandonate e sconsacrate. «Spesso – afferma – senza aver verificato fino in fondo tutte le possibilità».
L’errore della fretta
La Conferenza episcopale tedesca raccomanda, nel suo sussidio, un processo decisionale graduale per la riconversione delle chiese.
Come primo passo, bisogna verificare se la chiesa può ancora essere utilizzata per qualche forma di uso liturgico. L’opzione successiva è il riutilizzo di un piccola parte della chiesa come spazio sacro – il cosiddetto «riutilizzo parziale». Il terzo passo consiste in una completa riconversione, che può significare una vendita e quindi comporta una sconsacrazione. Come ultima opzione, rimane la demolizione parziale o totale.
Nel decidere – afferma Gerhards – spesso si ragiona in maniera unilaterale: «Una delle idee sbagliate più comuni è di calcolare il rapporto tra il numero delle chiese e quello dei preti». Secondo la legge canonica, un prete può celebrare una messa prefestiva il sabato sera e due la domenica. «Secondo questo modo di ragionare, ciò vuol dire: per ogni prete tre chiese, e il resto si può lasciar perdere». Ma c’è una vasta gamma di servizi liturgici e di forme similari che potrebbero essere guidati anche da laici. «E, perché questo possa avvenire, c’è bisogno di un luogo altrettanto adatto; quindi, il calcolo prete-chiesa non regge», sostiene Gerhards.
A suo parere, gli sbagli di valutazione spesso continuano quando viene calcolato il «valore» di una chiesa. Vengono interpellati dei consulenti finanziari che valutano le chiese come qualsiasi altro edificio: «valore del terreno meno i costi di demolizione» – ed è fatta.
In un calcolo del genere sarebbe più facile lasciar perdere le chiese. Ma è un calcolo troppo limitato; è importante infatti riconoscere anche «il valore immateriale». Da un lato, c’è la chiesa in quanto opera d’arte, «ma c’è anche soprattutto il considerevole valore che essa rappresenta per la gente del luogo», sottolinea Gerhards. «Le chiese danno un’impronta alla città, danno un marchio di identità allo spazio». «Per questa ragione, non soltanto i credenti, ma anche i lontani, apprezzano la presenza della chiesa nel loro quartiere».
Troppo spesso, tuttavia, si pronuncia il verdetto della «sconsacrazione». Canonicamente una chiesa viene sconsacrata con un decreto del vescovo. Questo viene letto nella «celebrazione liturgica di transizione» dell’ultima messa nella vecchia chiesa. L’intento è quello di passare da una vecchia chiesa ad una nuova, ma queste celebrazioni hanno piuttosto qualcosa che sa di «rito funebre», afferma Gerhards.
I sentimenti delle persone spesso non vengono sufficientemente presi in considerazione. Per i fedeli, la perdita della chiesa è un avvenimento estremamente doloroso: «Bisognerebbe prepararli diverso tempo prima e accompagnarli nel passaggio a una nuova sede che sia loro familiare». Ma ciò «non può avvenire solo mediante un semplice rito». «Il fatto di trovarsi in una chiesa ad essi familiare spesso non viene preso in considerazione per mancanza di creatività pastorale». «In pratica, succede questo: quando una chiesa viene abbandonata, molti fedeli che la frequentavano non vengono in quella nuova. E, con ogni probabilità, anche le persone impegnate sono perdute».
Molta gente rimane sconcertata
Se la chiesa viene sconsacrata, nell’ultima messa che vi si celebra, il Santissimo viene portato in quella nuova. Ma le reliquie non possono più rimanere nell’edificio. Ciò vale anche per quelle che sono integrate nell’altare.
L’inventario della chiesa viene collocato in depositi, ceduto ad altre chiese o venduto. Secondo Gerhards gli oggetti dell’inventario vengono a volte esportati in altri Paesi: per gli organi delle chiese si è sviluppato un fiorente commercio e ci sono società che si sono specializzate in questo affare.
Nella località di Immerath, nella Nord Renania-Vestfalia, diverse centinaia di persone si sono congedate recentemente dalla chiesa di San Lamberto. Come tutto il villaggio, anche la chiesa sarà demolita per far spazio alla lavorazione della lignite.
Ma la disposizione secondo cui l’insieme degli oggetti sacri della ex chiesa devono essere recuperati è ben lungi dall’essere ovunque osservata. «Nella Renania, ad esempio, una chiesa è stata abbandonata, e tutto è rimasto ancora lì. Il venditore ne ha fatto un caso clamoroso di marketing con lo slogan: “La chiesa come hotel, dormire in un contesto sacro”». Il fatto è stato ripreso dalla stampa e ha suscitato sconcerto in molta gente. Anche per questa ragione, Gerhards sostiene che la chiesa come luogo sacro non deve essere mai venduta a cuor leggero. «Nel caso di una rivendita, non si sa mai poi che cosa sarà di quella casa di Dio».
Ci sono tuttavia anche degli esempi del tutto positivi, in cui la riconversione è avvenuta correttamente, riconosce Gerhards. «Sant’Elena a Bonn, per esempio, è diventata un centro culturale: un luogo di incontro fra chiesa e arte. La casa di Dio non è mai stata profanata, una cappella nel seminterrato continua ad essere utilizzata come tale». Questa chiesa ha conservato tutta la sua dignità, tutta la sua atmosfera sacrale.
Secondo Gerhards, ci sono molte opportunità significative di riconversione: nell’ambito della cultura e dell’arte oppure nella cooperazione con organizzazioni caritative. «Queste cooperazioni possono contribuire per lungo tempo anche al finanziamento dell’edificio». In questi casi – secondo Gerhards – è sempre preferibile una riconversione parziale. «Sarebbe ideale che ogni chiesa rimanesse anche luogo dell’incontro con Dio».
Anch’egli è d’accordo nel riconoscere che non sempre la conservazione delle case di Dio può funzionare. C’è sempre un problema di costi-benefici. «Quando, per esempio, la diocesi di Essen afferma di non avere denaro – ed è realmente il caso –, non rimane che demolire una chiesa degli anni ’60, molto bisognosa di restauri».
In altre diocesi finanziariamente forti, Gehrards dice di essersi trovato di fronte a decisioni difficilmente comprensibili. «Ho visto – ha dichiarato – degli edifici in parte pregevoli che sono stati abbandonati, nonostante non ci fosse mancanza di denaro». «Purtroppo spesso senza alcun coinvolgimento dei fedeli».
Decidere contro la volontà della gente del luogo, Gerhards afferma di averlo verificato anche in parrocchie che stanno diventando sempre più estese. «Capita che a capo di una comunità con una chiesa pericolante ci sia una sola persona e ciò è determinante quando si tratta del futuro dell’edificio in questione».
In tutti i casi, le dimensioni sempre più grandi delle unità pastorali costituiscono un problema. Un’effettiva integrazione delle singole comunità si presenta spesso difficile, per non dire impossibile. «Pensate – ha affermato Gerhards – alle grandi parrocchie della campagna: a volte ci sono da secoli, tra i singoli villaggi, delle grandi differenze e rivalità di carattere sociologico e storico». In queste situazioni non ci possono essere né integrazione né possibilità di incontro. «Il cammino delle parrocchie sempre più grandi non è facilmente percorribile quando vengono abbandonate le strutture esistenti». Piuttosto le comunità del luogo dovrebbero essere salvaguardate finché è possibile – e la chiesa in certo qual modo deve rimanere nel villaggio».
Bisogna smettere di agire a cuor leggero
Oltre a tener presente il legame affettivo della gente, secondo Gehrards è importante in futuro anche un’attenzione agli aspetti architettonici e storico-artistici. «Oggi capita troppo facilmente di abbandonare o demolire chiese del dopoguerra». Nel 1958, la diocesi di Essen, per esempio, dopo la seconda guerra mondiale, ha costruito effettivamente troppi edifici. «Tuttavia bisogna fare attenzione alle caratteristiche e qualità di ogni singola epoca». Ognuna di queste, anche le più recenti, ha prodotto edifici eccellenti. Vecchi o nuovi che siano – afferma Gerhards –, la tutela dei monumenti non garantisce la conservazione di una chiesa del luogo. «Certo, costituisce un freno. Ma, se si arriva a dimostrare in maniera credibile che non è più possibile alcun utilizzo concreto di una chiesa, allora anche la tutela dei monumenti non può fare nulla».
La demolizione delle chiese non è un tema nuovo. Fa pensare il fatto – sostiene Gehrards – che «nell’epoca della secolarizzazione siano state demolite tante chiese». Le riconversioni ci sono sempre state, ma il fatto nuovo è la quantità di chiusure effettuate. Queste decisioni, prese a cuor leggero, devono cessare, perché il potenziale per conservare molte di queste chiese esiste. «E – conclude Gerhards – non è troppo tardi per ripensarci».
Si, d’accordo con tutte ste visioni del mondo e della Chiesa, ma i cumquibus chi li tira fuori per metterle a posto se non diocesi e Vaticano?
Saluti
dmx
interessante, non conoscevo questo “SITO”