Un nuovo vescovo, il ricordo della persecuzione agli uiguri da parte di Francesco e nuove norme restrittive sulle «attività religiose straniere nella Repubblica popolare cinese»: sono le ultime informazioni sulla situazione delle minoranze religiose nel Regno di mezzo.
Il 24 novembre è stato ordinato il terzo vescovo a partire dall’accordo Cina-Santa Sede sulla nomina dei vescovi (2018). Dopo quella di Antonio Yao Shun e di Stefano Xu Hongwei tocca ora a Tommaso Chen Tianhao. Sarà vescovo a Qingdao (Shandong). È nato nel 1962, ha studiato nel seminario di Shandong, è stato ordinato prete nel 1989. È stata notata la presenza in forze dei rappresentanti dell’Associazione patriottica e dei vertici ecclesiali più sintonici con essa. Il discernimento romano è stato laborioso, viste le scarse comunicazioni del passato recente.
Assodata la dimensione morale personale e il non coinvolgimento in affari economici, è stata apprezzata la sua disponibilità pastorale, nella consapevolezza dei condizionamenti locali che scandalizzano alcuni, ma che non sono rari anche in altre aree del mondo. Trovare personalità di spicco non è facile in un contesto iper-controllato come quello cinese, ma resta il fatto di una «provvista di Chiesa», di un pastore che ha il consenso del papa e una (relativa) libertà di azione.
La non coincidenza fra le diocesi registrate in Vaticano e quelle riconosciute in Cina (le prime sono una novantina, mentre lo stato ne riconosce di meno) crea ulteriori difficoltà di intesa. Sono comunque attese altre due nomine, come anche qualche riconoscimento ulteriore per i vescovi “sotterranei”.
Pompeo: ringraziamenti e smentita
Nel libro-intervista Ritorniamo a sognare (col giornalista Austen Iverigh, edito in Italia da Piemme), papa Francesco ha fatto un breve cenno alle difficoltà della popolazione uigura in Cina: «Penso spesso ai popoli perseguitati: i rohingya, i poveri uiguri, gli yazidi – ciò che il Daesh ha fatto loro è stato indicibilmente crudele – o i cristiani in Egitto e in Pakistan, uccisi dalle bombe mentre pregavano in chiesa». Poco più di un inciso, ma sufficiente – è la prima volta di una denuncia simile – a stabilire una posizione critica subito notata dai media internazionali.
E anche dal governo cinese. Il portavoce del ministero degli esteri cinese, Zhao Lijian, ha affermato: «Quello che il papa ha detto sugli uiguri è totalmente infondato», aggiungendo: «Ci sono 56 gruppi etnici in Cina, e l’etnia uigura è un membro alla pari della grande famiglia della nazione cinese», e «tutti i gruppi etnici del paese contribuiscono in pieno diritto alla vita, allo sviluppo e alla libertà religiosa».
Pare che il commento sia presto scomparso dal sito ufficiale. In ogni caso, non sufficiente a invalidare le indicazioni di molti istituti di ricerca che parlano di oltre un milione di persone di quell’etnia racchiusi in «centri di formazione e acquisizione di competenze» della regione dello Xinjiang, più simili a campi di concentramento che a scuole professionali.
La popolazione uigura, di ceppo turco e di religione islamica, raggiunge i 10 milioni complessivi della regione, il 45% dell’insieme, spesso in contrasto con l’altro ceppo, il più diffuso e privilegiato nel paese, quello degli Han. Accusati di aver alimentato gli atti terroristici avvenuti fra il 2012 e il 2014 (un centinaio le vittime), gli uiguri vengono sottoposti a uno stretto controllo poliziesco e alle normative di de-radicalizzazione dal fondamentalismo, oltre che dalla pressione demografica Han (cf. SettimanaNews: Cina-Uiguri-USA: libertà religiosa e diritti).
Sorprendente l’apprezzamento alle parole del papa del segretario di stato americano, Mike Pompeo, che, per impedire il rinnovo dell’accordo sino-vaticano sulla nomina dei vescovi, chiedeva a gran voce la censura ai cinesi sul tema degli uiguri, prefigurando la perdita dell’autorità morale del papato. Il contestuale rinnovo dell’accordo e la libertà di denuncia sulla popolazione uigura rendono evidente la strumentalità della pretesa di Pompeo (cf. SettimaNews: L’elefante nella cristalleria). A lato, va registrata l’autonomia degli interventi papali anche rispetto alle strutture curiali interne. Come qualche settimana fa ha “saltato” l’accenno alle difficoltà dei diritti umani a Hong Kong, così ora ha colto l’occasione del riferimento agli uiguri in un contesto extra-diplomatico.
Nuove norme restrittive
L’amministrazione statale per gli affari religiosi (Sara) ha reso pubblica la bozza delle nuove norme restrittive sulle «attività religiose straniere nella Repubblica popolare cinese». Un testo di 40 articoli che, pur affermando il rispetto della libertà religiosa degli stranieri, la disciplina in forma rigorosa sia nell’indipendenza-autonomia rispetto a interventi da fuori del paese, sia nella partecipazione riservata agli stranieri (contro il proselitismo), sia nella registrazione di ciascuna comunità. Fino a limitare le copie dei libri di riferimento e a supervisionare gli inviti a personalità straniere.
Le indicazioni non riguardano immediatamente le comunità ufficialmente riconosciute (buddismo, taoismo, islam, cattolicesimo, protestantesimo) ma quelle non riconosciute, come mormoni, quaccheri, ebrei e testimoni di Geova ecc.
È tuttavia è difficile pensare che non abbiano un effetto restrittivo per tutti. In particolare per le comunità evangelicali non interne all’associazione patriottica protestante, come alle comunità cattoliche “illegali” non coperte dall’associazione patriottica cattolica.
Ma il vero oggetto delle norme in questione sembrano essere le comunità islamiche. C’è infatti un secondo gruppo etnico di appartenenza islamica, gli Hui (10,5 milioni) presenti in una regione a sud di Pechino, da tempo assimilato e mescolato con la etnia Han. Portato ad esempio di integrazione, ha potuto sviluppare molti rapporti con istituzioni accademiche islamiche in vari paesi musulmani.
I nuovi attacchi terroristici del fondamentalismo islamico in Europa avrebbero convinto le autorità cinesi ad una opera di de-arabizzazione e de-saudificazione. Vi è il timore della crescente popolarità dell’ideologia wahhabita con gli stretti legami rispetto all’Arabia Saudita. Un’operazione di prevenzione che si innesta sui processi di “sinizzazione” delle fedi voluti dal governo. A testimonianza di una ulteriore stretta rispetto alla libertà religiosa e della preziosità dell’accordo sino-vaticano che è l’unico elemento che va in senso contrario.