Conservatori? Progressisti? No! Moderni

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frecce

Da più parti, a fronte dell’attuale situazione di profonda crisi che la fede cristiana attraversa nelle nostre società occidentali, ci si richiama all’origine del cristianesimo. Ciò avviene sia in ambienti conservatori (se non addirittura reazionari) sia in ambienti progressisti. Entrambi, infatti, intendono accreditare i loro discorsi facendo riferimento all’epoca degli inizi. Il tema dell’origine diventa così il dispositivo di «vidimazione» delle proprie posizioni.

Continuità e/o discontinuità

Il conservatore, volendo giustificare alcune posizioni tradizionaliste tipiche della modernità ma anche del magistero postconciliare, dichiara che il cammino della Chiesa è in sostanziale continuità nel corso dei secoli. In altre parole, egli non ammette volentieri le discontinuità.

Le strategie teoriche per una tale operazione sono molteplici e sono oggi attentamente studiate dalla teologia e dalla storia del dogma: il fissare la chiusura della rivelazione con la morte dell’ultimo apostolo per garantire così una normatività essenziale (rispetto a chi e cosa?) della Chiesa; l’instaurare una distinzione tra ispirazione dello Spirito Santo (una sorta di creazione/fondazione, nello Spirito, di elementi portanti nella Chiesa dei primi tempi) a fronte di una successiva assistenza del medesimo Spirito alla Chiesa (ma in un quadro comune ormai normato dalla precedente ispirazione); l’invocare una traditio constitutiva; l’ancorarsi a una successione apostolica che si vorrebbe, anche nelle sue forme concrete, non affatto dissimile dalle figure ministeriali degli inizi.

Il progressista, al contrario, vede le origini come momento puro, sorgivo, non ancora contaminato dalle istituzioni e dai poteri. Rispetto a questi momenti ideali, sorretti da un evangelismo che faceva dei credenti «un cuor solo e un’anima sola» (cf. At 4,32-34), i secoli successivi rappresenterebbero, salvo alcuni guizzi, epoche di decadimento, se non addirittura di deragliamento dal vero e proprio Vangelo.

Al fondo: una lettura genealogica

Sono consapevole di essere stato alquanto generico nel descrivere le due posizioni, ma era solo per rilevare come questi due approcci – infin dei conti – si assomigliano, tanto in merito ai desideri, quanto agli scopi sottostanti.

Riguardo ai desideri, entrambe le posizioni intendono raggiungere una base solida dal punto di vista storico (oggettività dei fatti) e teologico (questi fatti sono avvenuti nella Chiesa primitiva/apostolica, ovvero ancora nel tempo della rivelazione e, dunque, sono normativi).

Quanto agli scopi, entrambe le posizioni rispondono ad alcuni bisogni del presente. Più in particolare sono collocabili entro una situazione di crisi del cristianesimo e, dunque, sono mossi dall’esigenza di stabilire un modo attuale di stare nel mondo (riconquista cristiana o complicità con il presente, poco importa).

Su questo secondo aspetto si basa quello che indicherei come approccio «genealogico» alla tradizione della Chiesa e in primis alla questione delle origini. L’approccio genealogico dice non solo (a) studio e ricostruzione delle sedimentazioni storiche nel corso del tempo, con le inevitabili cesure e discontinuità che in tale analisi è possibile riscontrare (una sorta di archeologia), ma anche (b) riflessione sugli imprescindibili riferimenti al presente che muovono (il più delle volte senza essere messi a tema) i lavori degli storici, dei teologi o, più in generale, le convinzioni dei credenti.

Ovviamente, in merito a questo approccio potrei riprendere gli sforzi di tutta una serie di filosofi, storici, esegeti e teologi contemporanei, cosa che però per brevità non sto qui a fare[1]. Quello che invece mi preme indicare è che su questo punto (una sorta di inconscio collettivo?) andrebbero collocati i dibattiti tra conservatori e progressisti.

Insomma, per dirla in breve, entrambi sono contemporanei − o forse, più correttamente, «moderni» −, perché entrambi partono da un vissuto socio-culturale di cui sono costituiti e a cui prendono parte. Inoltre, entrambi intendono rispondere alle preoccupazioni suscitate da questo vissuto, sebbene poi assumano, elaborino e rispondano a tali preoccupazioni, partendo da opzioni valoriali differenti.

Il contributo della teologia

Ed è proprio in merito a questo ultimo aspetto che ritengo si stagli l’apporto (non è l’unico) della teologia. La ricerca teologica (ecclesiologia) potrebbe, ad esempio, prendere le mosse da questo interrogativo di fondo: quale «modo di abitare il mondo» anima i nostri vissuti ecclesiali?

Da questo interrogativo potrebbe così dipanarsi un’attenta riflessione sulla sinodalità, sui segni dei tempi, sul discernimento. Questi temi, infatti, assumono davvero carne e ossa se collocati entro prospettive dichiarate e portate avanti con rigore e serietà (dalla teologia come anche da altri apporti culturali).

Naturalmente è sempre possibile un’altra opzione, a cui le stesse teologhe e teologi non sono affatto immuni: quella cioè di limitarsi a declamare alcuni concetti a mo’ di slogan, o a commentare alcuni passaggi del recente magistero pontificio. Detto altrimenti: è possibile anche l’opzione per una teologia fatta da scrivani sicuri e teologi di corte, intenti ad assecondare le sensibilità del momento, magari con un occhio sempre rivolto a eventuali cambi di guardia e dunque con la sagacia di cambiare rotte da un momento all’altro.


[1] L’ambito della ricerca è vastissimo. Per restare nel campo dei teologi attualmente viventi, segnalo qui soltanto i lavori di Ch. Theobald, G. Ruggieri, P. Gisel, M. Seewald. Naturalmente la lista sarebbe ancora più lunga qualora si dovessero aggiungere gli apporti recentissimi di diversi storici, patrologi ed esegeti (a titolo esemplificativo mi limito qui a citare solo i contributi di A. Di Berardino, E. Norelli, R. Penna, Michael Theobald).

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