Mentre in Italia attendiamo ancora il promesso studio dei casi di abuso sessuale verso minori che sono approdati al Dicastero per la dottrina della fede negli ultimi vent’anni, la Commissione indipendente incaricata dalla Chiesa portoghese ha presentato il suo rapporto. Come ha fatto notare Lorenzo Prezzi su SettimanaNews (qui), è stata fatta una scelta diversa rispetto alla Commissione CIASE francese. Diversa sì, ma non senza avere appreso da quest’ultima qualcosa di importante.
La decisione portoghese di partire dalle vittime e dalle loro narrazioni, per muovere da qui verso gli archivi diocesani e altre documentazioni e testimonianze, è infatti il frutto di quanto la Commissione francese ha appreso in corso d’opera nella stesura del suo Rapporto.
È questa disponibilità all’apprendimento, al fare tesoro di percorsi delle altre Chiese, che sembra mancare nell’atteggiamento tenuto fino a questo momento dalla CEI e da molti vescovi italiani. Il tentativo sembra quello di ridurre al massimo la «quantità» delle vittime, tenerlo sotto controllo istituzionale, in modo da uscirne indenni davanti all’opinione pubblica e inerti davanti alla comunità ecclesiale italiana.
Anche solo guardando all’Europa, abbiamo oramai a disposizione una serie di studi e di Rapporti affidati dalle Chiese a Commissioni realmente indipendenti che è davvero considerevole. Sono un patrimonio da cui molto si può imparare, per scoprire e comprendere le molteplici pieghe di una diffusa cultura abusiva che continua a serpeggiare nella Chiesa cattolica e nelle sue strutture.
Quanti di questi rapporti sono stati presi in considerazione e quanto di essi è stato effettivamente letto e studiato dai nostri vescovi nel loro processo decisionale e di gestione della questione degli abusi nella Chiesa italiana? Perché, se si possono sollevare dei dubbi sulla sezione della proiezione statistica dei dati contenuti nel rapporto CIASE, che comunque è avvenuta con criteri scientifici, sembra davvero difficile cassare come dannosa e irrilevante quella che raccoglie le narrazioni delle vittime – solo per fare un esempio.
Anche solo leggendo spezzoni di questo prezioso materiale di cui disponiamo, ci si rende conto che non si tratta solo dei “casi” di abuso; ma che ognuno di questi è circondato da una costellazione di questioni davanti alle quali non si può semplicemente decidere di non fare nulla. La patologia e il crimine che diventano evidenti nel «caso» rimandano a uno sfondo, ancora sfuocato e messo poco a tema, che avvolge la devianza, la violenza, la loro giustificazione, da un lato, e la loro non presa in carico istituzionale, dall’altro.
Questo sfondo nebuloso dovrebbe interessare massimamente alla Chiesa come istituzione e alla teologia in essa. Il potere insito nel ministero ordinato, occultato facendo violenza al Vangelo dietro il paravento del servizio, e il potere che non di meno attraversa il carisma che giungono, nella situazione della pastorale odierna, a una congiunzione potenzialmente esplosiva e incontrollabile.
1) La rischiosa clericalizzazione di ogni ministero interno alle pratiche pastorali della Chiesa, degrada la comunità della fede e del discepolato al ruolo di comprimario, sentendola come raggruppamento parassitario di coloro che non «vogliono fare».
2) Una visione distorta dei sacramenti e della loro celebrazione, che fa delle vittime complici di un peccato che toccherebbe solo Dio – senza nessun bisogno di riparazione che porti a guardare in faccia la ferita indelebile del corpo e dell’animo violentati.
3) Una carente cultura di custodia della memoria del vissuto di una Chiesa locale, con archivi inaccessibili o che perdono documentazioni scabrose e scomode per quella Chiesa. Eppure, conoscere la storia che siamo stati è un necessario percorso di apprendimento per poter entrare nell’inedito del tempo che sta davanti a noi.
4) La mancanza di una verifica comunitaria, e non solo verticistica (in pratica poi inesistente), delle prassi ministeriali e pastorali di una Chiesa locale, appaiata a un mancante discernimento condiviso sui ruoli, le persone, le pratiche, che strutturano una comunità cristiana.
Una seria presa in carico del molto che possono offrire i rapporti e gli studi sugli abusi sessuali nella Chiesa cattolica permetterebbe non solo di gestire «casi» più adeguatamente, secondo giustizia, ma consentirebbe anche di mettere mano a quella riconfigurazione di fondo dell’auto-comprensione dell’essere Chiesa auspicata dal processo sinodale in atto.
Quello che facciamo fatica a comprendere è che o lo facciamo adesso oppure verremo travolti dalla nostra inerzia.