L’analisi è lucida e chiara: la frequenza alle celebrazioni va calando in maniera esponenziale (cf. qui con le relative interlocuzioni). Nessuno, tuttavia, propone alternative non tanto alla ripresa della partecipazione, ma alla «rinascita» della fede durante e post pandemia.
Affascinante e stimolante la tesi del vescovo di Pinerolo che invita al riflettere sul fatto che forse non siamo più cristiani, ma soprattutto che non lo siamo ancora. Magari fosse vera! Avremmo la possibilità di trovare dei punti di aggancio, come l’altare al dio ignoto che Paolo aveva intercettato ad Atene e su cui poggia l’annuncio del kerygma. Purtroppo, resto del parere che l’Occidente non è più cristiano per una serie di motivazioni e circostanze che sarebbe troppo lungo esporre.
Nel nostro non essere più cristiani siamo chiamati piuttosto a custodire e rinvenire quanto è rimasto e a spigolare tra gli anfratti della nostra cultura onde poter raccogliere ciò che dobbiamo di nuovo seminare. Allora, invece che stigmatizzare e criticare la creatività della e nella liturgia, come in un recente convegno, bisognerebbe interrogarsi su quali binari camminare nel futuro anche nel culto, perché il Figlio dell’uomo ritrovi la fede sulla terra.
Sulla sacramentalità della Parola
Fin dall’inizio della pandemia e assistendo al boom dello zoomworship, ho cercato, con tutte le energie a mia disposizione, di far comprendere la necessità, in campo cattolico, di centrare la pastorale sulla sacramentalità della Parola.
Tale opzione fondamentale è stata lasciata alle decisioni delle singole comunità, alcune delle quali l’hanno accolta, mentre la maggior parte si sono concentrate sul diffondere celebrazioni on line e devozioni particolari, con un certo cedimento alla spettacolarizzazione del culto, se non all’idolatria.
Assistiamo ancora una volta a quello che André Neher chiamava l’«esilio della parola» e questo forse perché «abbiamo perso il linguaggio in terra straniera» (Martin Heidegger). In questo orizzonte il culto della Parola può diventare tramite verso il ritorno della stessa nella comunità credente, che celebra in presenza i divini misteri. Il futuro dipende dal linguaggio, «casa dell’essere»: occorre una rivoluzione linguistica nella pastorale e nei dettati di chi la governa. E chi potrà aiutare a pensare il linguaggio della fede se non i teologi ai quali i pastori dovrebbero rivolgersi non solo prescegliendo quanti risultino omologati alle loro grigie posizioni?
Sulla gestione del processo sinodale
Accanto alla necessità della riscoperta della Parola, ci interpella la sinodalità. Era ora o siamo in ritardo? Qualcosa è meglio di nulla, ma la questione decisiva a riguardo concerne la gestione del processo sinodale.
A questo riguardo mi sembra di dover proporre una centralità delle conferenze regionali, che non si lascino irretire dai divieti circa ciò di cui il sinodo non dovrebbe occuparsi (perché i problemi sarebbero altri), ma si pongano in ascolto del territorio e delle sue istanze, interloquendo in un momento successivo con le altre «regioni» del Paese in modo che si possano individuare tematiche fondamentali comuni e problematiche settoriali e circostanziate.
Una sorta di «federalismo sinodale», che potrebbe risultare molto più fecondo di una dispersione/frammentazione e di una centralizzazione/burocratica. Si tratterebbe di attivare una struttura articolata e vivace, il cui coordinamento sia affidato non a una sede centrale, ma, di volta in volta, a coloro che le comunità designino ad esempio con riferimento al Nord, al Centro, al Sud e alle Isole, anche e, perché no?, laici e laiche.
Una riforma «cattolica» della prassi?
Tenere insieme Parola e sinodalità significa accogliere e includere l’istanza della Riforma occidentale e quella dell’Oriente cristiano, in una via media, propriamente «cattolica» alla quale dovremmo orientare la nostra prassi ecclesiale.
Purtroppo, ho la sensazione che in entrambe le direzioni la battaglia sia persa, in primo luogo perché non riesco ad intercettare parole di senso nella situazione della Chiesa italiana e tanto meno un interesse alla centralità della Parola, e, in secondo luogo, perché constato la mancanza di un’audace strategia, che possa risultare efficace e significativa da parte di chi sta gestendo la situazione.
Ragionare così, come GianPiero, è pensare che il concilio di Trento sia il futuro: non è la modalità del celebrare che rinnova la vita credente, ma viceversa: il problema è che la vita è restata fuori da Parrocchie e culto e che i giovani cercano sicurezze ovunque siano anche in gruppi -oasi e non incontrano traghettatori e ponti che trasformino la storia tutta in storia di salvezza! Frequentare liturgie e non cambiare stile di vita, desideri, interessi , sguardo sul mondo è inutile….spesso neppure ci si saluta o si salutano sempre gli stessi ignorando gli altri….. mi fermo, ma indietro non si torna!!! (e il latino non lo sapiù nessuno, quindi, arcano per arcano, ….sarebbe meglio dire la messa in qualche dialetto africano).
Forse bisognerebbe interrogarsi anche se il cammino “modernista” intrapreso abbia un futuro. Bisognerebbe interrogarsi sul perche’ le comunita’ tradizionaliste abbiano una espansione e anche molte vocazioni. . Bisognerebbe interrogarsi sul perche’ la Messa Tradizionale in latino attragga molti giovani.
Bisognerebbe interrogarsi se la ricetta , lal rivoluzione modernista ,che ci e’ stata prescritta dagli anni 70 in poi abbia funzionato o no.
Se non ha funzionato per nulla, anzi ha allontanato masse d’aria cattolici, forse e’ assurdo e autolesionista perseverare sulla stessa linea.
Forse bisognerebbe interrogarsi se i cascami tradizionalisti che hanno imperversato nell’ultimo quarto di secolo e dato una rappresentazone pubblica di una chiesa tutta giochi di potere e ricchezza, macchinario di pizzi merletti, maledizioni, foreste di candelabri sugli altari, formule magiche, ipocrisie di un passato vergognoso, non abbiano impedito la percezione di una Chiesa aperta, gioiosa, accogliente, pronta a condividere e a mettersi in discussione che il Concilio aveva voluto.
Non farsi domande è così piacevolmente facile. Ripetere all’infinito le stesse prassi senza porci domande sulla loro reale utilità diventa un mantra magico che ci rassicura. Io conosco molta gente allontanata dall’inerzia tradizionalista.
Quindi non è vero che la tradizione è a priori un antidoto. Il tradizionalismo è un male radicato che ha allontanato migliaia di credenti, ha esacerbato l’animo di chi sperava in un cambiamento e continua il sua nefasta azione impedendo, rallentando e vanificando ogni tentativo di crescita. GPII era tutt’altro che modernista. Il problemi di oggi stanno proprio in quei trentanni di blocco del Vaticano II. Ora ne paghiamo le conseguenze. Siamo esausti anche di chi ci propina il ritorno alla tradizione (ma a quale?) come cura di tutti i mali. Perchè abbiamo capito molto bene che tanti mali di oggi sono venuti proprio da lì.
I tradizionalisti nella Chiesa cattolica forse aumentano in percentuale ma non sicuramente in valore assoluto e rimagono una esigua minoranza. E comunque basti vedere che i lefebvreviani, che non accettano il Vaticano II, sono rimasti una ristretta minoranza. Io però non farei una questione di numeri ma se le comunità cristiane cercano o meno di incarnare il Vangelo.