Circa un milione di cattolici per oltre 900.000 kmq: questo è il territorio dove opera il vescovo Paul Hinder, cappuccino svizzero. Dal 2003, svolge la sua attività nella penisola arabica e cerca di promuovere, nella misura del possibile, la vita della Chiesa, in un ambiente completamente impregnato di islamismo. Di frequente visita i fedeli, sia nelle comunità sia negli incontri straordinari come nella Conferenza giovanile cattolica dell’Arabia che si è tenuta recentemente. Come vive la comunità cristiana in questo territorio e in quali condizioni politiche? Come esercita il suo ministero pastorale? Lo descrive in questa intervista che ha rilasciato ad Abu Dahbi a Matthias Altmann, pubblicata in katholisch.de il 2 novembre scorso.
– Mons. Hinder com’è andato l’incontro con i giovani alla Conferenza giovanile?
È stata una circostanza vivace che ha mostrato giovani molto entusiasti. Vi hanno partecipato 1.500 giovani di diversi paesi della penisola arabica. Sono rimasto stupito dell’allegria che hanno irradiato. Le due giornate si sono svolte all’insegna della parola dell’angelo a Maria: «Non temere, perché hai trovato grazia presso Dio». Uno degli scopi dell’incontro era di rafforzare la fede dei giovani che vivono in una terra estranea ai cristiani e promuovere la solidarietà tra di loro. Devono sentire di non essere soli, ma tutti insieme testimoni del Signore.
– Contemporaneamente alla Conferenza, si è concluso a Roma il sinodo dei giovani. Che cosa preoccupa i giovani cattolici dell’Arabia Saudita?
Anzitutto le preoccupazioni quotidiane hanno un grande ruolo. Per alcuni, a seconda dell’età, al primo posto è la carriera: per esempio, come proseguire gli studi o quale università frequentare. Per altri, uno dei principali problemi è il lavoro: riusciremo a trovare un’occupazione? Potremo conservarla? Nella penisola arabica, infatti, la fluttuazione delle forze di lavoro è molto alta.
– E a prescindere dal lavoro di tutti i giorni?
Lo scandalo degli abusi nella Chiesa nel mondo interessa i nostri giovani come i cattolici di altri Paesi, anche se qui da noi finora non è stato evidenziato nessun caso pubblico. Ma naturalmente essi leggono sui social network cosa sta succedendo. Durante la Conferenza, con alcuni giovani abbiamo dedicato a questo argomento una sessione di domande e risposte. I dubbi a questo riguardo sono avvertibili. Per quanto mi riguarda, io cerco di parlare apertamente e di spiegare di che cosa realmente si tratta. Bisogna ammettere che questi scandali offuscano notevolmente l’immagine della Chiesa.
– Gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e lo Yemen – stati che appartengono al suo Vicariato apostolico – non sono proprio dei paesi in cui si presume una presenza cristiana cattolica. Da dove vengono queste persone?
Sono tutti migranti che, per un certo tempo, si sono stabiliti qui. Solitamente torneranno in patria oppure proseguiranno qui la loro vita. Ma sono presenti anche quelli che fanno già parte della seconda generazione. Provengono in gran parte dall’area asiatica, per esempio dall’India o dalle Filippine. Alcuni vengono dal Medio Oriente, come i cristiani di lingua araba della Siria, del Libano o della Giordania. Abbiamo anche un numero crescente di africani e anche di nord e sudamericani. In gran parte si tratta di persone della classe media o degli strati più bassi della società: operai o persone occupate in lavori domestici.
– Tra i cattolici ci sono anche grandi differenze sociali?
Rispetto ad altri paesi, penso che ci sia un relativo equilibrio. Ma in genere non si guarda alla povertà della gente. Negli Emirati Arabi Uniti non esiste una miseria visibile. A volte, abbiamo a che fare con persone che hanno grandi problemi finanziari. Nella misura delle nostre possibilità cerchiamo di aiutarle. Talovota, l’aiuto consiste semplicemente nel dire loro che la cosa migliore è tornare in patria. È sempre meglio che rimanere qui e continuare a indebitarsi con l’eventualità di finire in carcere.
– Il territorio di cui lei è responsabile è enorme. Oltre agli incontri come quelli della Conferenza dei giovani, come fa a rendersi presente tra i fedeli?
Visito molto spesso le comunità. Oltre alla visita pastorale annuale, in cui rimango almeno tre/quattro giorni nelle parrocchie – in quelle più grandi anche una settimana –, mi rendo presente in alcune circostanze particolari. Celebro personalmente le messe delle cresime. Inoltre mi tengo in contatto con i gruppi cattolici. Soprattutto nella situazione di minoranza per i fedeli del luogo è essenziale che il loro vescovo sia presente, li ascolti e non abbia paura di contattarli.
– Com’è la vita delle comunità in questa totale situazione di diaspora?
Abbiamo dei centri parrocchiali. Negli Emirati Arabi Uniti abbiamo attualmente otto parrocchie e la nona sarà presto eretta nella regione occidentale di Abu Dhabi. Si tratta, in parte, di grandi parrocchie; quella della cattedrale di Abu Dhabi è una comunità enorme. Più grande ancora è St. Mary’s, a Dubai, che comprende 300.000 cattolici. Naturalmente, è una grande sfida organizzare in questi luoghi le messe. Inoltre, ci sono centinaia di volontari che ogni settimana tengono la catechesi a circa 10.000 bambini. I volontari compiono davvero un lavoro logistico meraviglioso. Noi li sosteniamo il più possibile.
– Come vive qui la gente la propria fede, rapportandola agli stati tradizionalmente cristiani?
Il fatto di essere a contatto con un’altra cultura – con un’altra religione di maggioranza – esercita certamente un effetto stimolante. Alcuni preti di sostegno dell’India o delle Filippine mi hanno detto che i loro compatrioti vivono qui la fede più intensamente che non nei loro paesi di origine. La situazione minoritaria costituisce per molti una provocazione che li induce ad approfondirla. La gente è anche motivata a collaborare. Le nostre chiese sono normalmente piene, a volte persino strapiene. Quando si vede l’entusiasmo della gente, è una gioia celebrare con loro la messa. Anche nelle conversazioni si avverte in loro un impegno a voler vivere una relazione con Cristo.
– Gli Stati del Medio Oriente non sono certo dei pionieri in fatto di libertà religiosa. Quanto è pericoloso qui essere cristiani?
Dipende dal paese. Negli Emirati Arabi Uniti non c’è alcun problema. Io come cristiano posso muovermi ed esprimermi liberamente, soltanto non posso svolgere attività missionaria tra i musulmani. Ciò è strettamente proibito. I segni religiosi, nella misura in cui non sono provocatori, possono essere esibiti. Molti cristiani hanno appeso nello specchietto retrovisore della loro auto un rosario. Io posso senza alcun problema andare per le strade col mio abito. In altri paesi del Medio Oriente è diverso come – per quanto ne so – in Arabia Saudita.
– I fedeli hanno paura di attacchi musulmani?
Qui negli Emirati Arabi Uniti siamo per ora in una condizione fortunata, nel senso che la situazione, in fatto di sicurezza, è molto buona. Qui mi sento sicuro come in Svizzera, forse anche di più. Ma ciò non vuol dire che in altri Paesi sia la stessa cosa.
– Per gli USA e l’Europa gli stati arabi sono dei partner economici e commerciali importanti. Tuttavia sono governati in gran parte in maniera autocratica, cosa che contraddice in particolare i valori occidentali. Il mondo occidentale come dovrebbe trattare con gli Stati arabi?
Non posso dare a questo riguardo nessun consiglio. A volte, sono un po’ sorpreso notando come questi Stati cedano rapidamente quando si tratta di soppesare gli interessi economici con i valori fondamentali. Mi chiedo se non ci vorrebbe un po’ più di coraggio e di coerenza.
– Lo Yemen è da anni teatro di guerra. Una coalizione di diversi Stati arabi combatte laggiù contro i ribelli houthi. Anche gli Emirati Arabi Uniti partecipano all’alleanza militare. Quanto è grande la sua speranza di un rapido armistizio?
Non credo che la guerra giunga presto a una rapida conclusione, perché i fronti sono irrigiditi e nessuna parte può permettersi o vuol perdere la faccia. Se fosse messo a punto un compromesso in cui ciascuna parte possa sentirsi vittoriosa, si potrebbe giungere a un rapido armistizio e, in seguito, a un trattato di pace definitivo. La gente dello Yemen ha bisogno di pace in modo da poter ricostruire lentamente un paese distrutto.
– Lo scorso anno lei ha compiuto 75 anni. Ha raggiunto il limite di età per i vescovi. Quanto rimarrà ancora in Medio Oriente?
In occasione del mio 75° compleanno ho presentato a Roma le mie dimissioni. Ma non so ancora come andrà. Sono sicuro che si sta già cercando un successore. Ma ci vorrà ancora del tempo. Il Vaticano è chiaramente del parere che non ci sia alcuna fretta. Ma quando sarà l’ora, mi ritirerò in Svizzera per vivere nella mia provincia cappuccina.