Il dandy[1], valorizzando al massimo i vestiti, l’aspetto esteriore e il portamento, combinava l’uso di un linguaggio sofisticato con la ricerca di un modo di vivere piacevole. Questa fusione avveniva con un atteggiamento disinvolto e un amore per sé stessi, rappresentando una forma estrema di esaltazione dell’individualismo.
Recentemente, sembra che un numero affatto insignificante di ecclesiastici abbia abbracciato questo stile, concentrandosi eccessivamente sull’attenzione per il proprio corpo, sull’abbigliamento di classe, sull’uso di tecnologie all’avanguardia e su altri aspetti simili.
La pubblicità ci bombarda quotidianamente, instillandoci la convinzione che dedicare un’attenzione costante e quotidiana a noi stessi costituisca l’elemento più cruciale della vita. Concetti come immagine, look, trucco e stile individuale, che un tempo rappresentavano l’espressione della nostra personalità, oggi riflettono piuttosto una cultura uniformata, determinando il nostro status sociale, l’identità personale e l’autostima.
Il corpo e la cura di sé
L’apparentemente innocuo invito a “prendersi cura di sé” nasconde un altro obiettivo: suggerire che dobbiamo continuare a perfezionarci, che abbiamo la possibilità e il dovere di cambiare, che non abbiamo ancora fatto tutto il possibile per raggiungere l’eccellenza, che ci manca ancora qualcosa. Si tratta di contrastare gli assurdi dogmi dell’adorazione universale del corpo.
Attualmente, sembra che mantenere un corpo sano e in forma sia per gli individui una sorta di tentativo di assicurarsi una specie di immortalità. Il corpo diventa il simbolo della rappresentazione di sé stessi in una società sempre più narcisistica. Questo comportamento riflette un egoismo chiuso in sé stesso o una rappresentazione narcisistica di sé. Neanche il presbitero di questa generazione sembra immune da tale incurvatio in seipsum, da una concentrazione eccessiva su sé stessi, in contrasto con la vera natura dell’uomo.
Da sempre, il corpo costituisce un substrato biologico su cui si radica la cultura di provenienza con le sue abitudini e le sue tendenze. Esso funge da rappresentazione e interpretazione tangibile della realtà culturale di cui è un’espressione concreta.
Per lungo tempo, il corpo è stato soggetto a variazioni e interventi culturalmente influenzati. Il corpo, infatti, potrebbe essere interpretato come una risorsa storica capace di narrare lo sviluppo delle società nel corso del tempo. Pratiche come circoncisione, infibulazione, decorazioni corporee, mutilazioni, piercing, tatuaggi, e altre, rappresentano solo alcune delle manifestazioni culturali che hanno coinvolto il corpo in epoche e contesti differenti, portando con sé significati diversificati.
L’accumulo di grasso e la magrezza hanno sempre riflessi culturali mediati attraverso il corpo. A seconda della cultura di appartenenza, il corpo grasso e il corpo magro hanno rappresentato rispettivamente la norma o l’anti-norma, l’adesione o la negazione ai modelli di riferimento. Attualmente, il corpo è più che mai il terreno su cui si manifestano e si giocano i miti contemporanei di bellezza, magrezza, giovinezza e prestazione che caratterizzano la società dell’immagine.
All’interno della società centrata sull’immagine, il corpo rappresenta sempre di più il criterio principale per definire sé stessi e per essere giudicati dagli altri, creando una crescente dipendenza.
L’allenamento fisico, le restrizioni alimentari e la chirurgia estetica rappresentano solo alcune delle metodologie impiegate per plasmare e alterare il corpo, o forse per sottoporlo a sofferenze allo scopo di riflettere i segni della nostra cultura. Al cuore di tutto ciò persiste costantemente il desiderio di essere accettati, apprezzati, approvati, notati e considerati.
Il limite sottile
Non è sempre semplice individuare il confine oltre il quale l’attenzione per il proprio benessere può trasformarsi in un eccessivo focalizzarsi su sé stessi, dando luogo a diverse distorsioni comportamentali. Queste possono spaziare dal culto della salute all’eccessiva preoccupazione per l’aspetto fisico, dal narcisismo giovanilistico alla paura eccessiva di mostrare segni di invecchiamento, dalla pretesa di controllare completamente il proprio tempo alla rigidità nel perseguire i propri interessi e molto altro ancora.
I sintomi di un’eccessiva preoccupazione per il corpo includono:
- Un’ossessiva e spesso infondata preoccupazione riguardo al fatto che il proprio corpo non sia sufficientemente magro, muscoloso o atletico.
- Un’attenzione eccessiva e maniacale verso l’alimentazione, con una preferenza esclusiva per cibi ritenuti “sani”, a basso contenuto calorico e ricchi di proteine.
- La priorità accordata all’allenamento sportivo e alla cura del corpo a discapito degli aspetti familiari, sociali e lavorativi della vita.
- L’investimento significativo di tempo e di risorse economiche in palestre, centri fitness, centri estetici e nell’acquisto di riviste.
- L’abitudine di osservarsi frequentemente allo specchio, alla ricerca di eventuali imperfezioni muscolari, come il mitologico Narciso nell’accezione “classica” anziché in quella psicopatologica attuale.
“La mia impressione è che oggi molti non credano più in Dio ma nella salute e tutto quanto una volta si faceva per il Dio – pellegrinaggi, digiuni e opere buone – oggi lo si faccia per la salute. Ci sono persone che non affrontano più la vita in modo lineare, ma vivono in modo “preventivo” e, alla fine, muoiono sane. Però anche chi muore sano, purtroppo è morto. Così anche le manifestazioni tipiche dell’esperienza religiosa sono entrate nel campo della salute. Si può osservare il passaggio dalle tradizionali processioni alle visite in processione dal medico, ai pellegrinaggi dallo specialista. Nelle palestre si possono incontrare persone che vivono una vita di rinunce e di mortificazioni in confronto alle quali la regola degli ordini religiosi di più stretta osservanza sembra una passeggiata. E la morte è il nemico mortale di questa religione della salute. Per evitare la morte, si corre per strada, nei boschi, si mangiano granaglie e peggio… per arrivare a morire lo stesso, purtroppo”[2].
La salute e il peccato
Tra i tratti “religiosi” del salutismo possiamo annoverare anche il fatto che la bruttezza (avere difetti fisici, essere grassi ecc.) è spesso squalificante e fonte di imbarazzo. «Certamente, il peccato è un concetto presente oggi quasi solamente nell’ambito della religione della salute. Perfino in chiesa i parroci sono diventati prudenti a usare l’espressione “peccato”. È una parola che non si pronuncia più volentieri, perché suona dura, sgradevole, molto meglio dire “essersi allontanati dalla via”.
Se, in Germania, uno osserva in quale contesto la parola peccato risuona ancora, si può accorgere che è appunto quello della salute, dove c’è un dio che punisce subito anche i più piccoli peccati… Tutto ciò ha delle conseguenze rilevanti. Se l’uomo autentico è quello sano, allora l’uomo malato, soprattutto malato cronico, diventa un uomo di seconda o terza classe. Il che porta alla discriminazione dei non sani, dei non giovani, dei non belli è dietro l’angolo. E la pressione sociale su queste categorie cresce sensibilmente»[3].
I sette peccati capitali sono stati sostituiti dai quattro pilastri della tirannia della salute: astenersi dal fumo, limitare il consumo di alcol, seguire una dieta sana e praticare regolarmente l’esercizio fisico[4]. Questo rappresenta il mito della società terapeutica, in cui gli individui non sono più interdipendenti solidalmente, ma tutti dipendono da autorità superiori e da professionisti quali medici, nutrizionisti, istruttori di fitness, psicologi e psicanalisti, dando un carattere sempre più medicalizzato al controllo.
La tirannia della salute ha preso piede nelle nostre società, con effetti che suggeriscono una rivoluzione non solo sociale, ma anche antropologica. Questa tirannia ha permeato le famiglie, le relazioni sociali, gli spazi pubblici e praticamente tutte le sfere della vita privata, inclusa la vita dei presbiteri. In questo contesto, perseguire uno stile di vita sano ha soppiantato il concetto di vivere bene delle antiche filosofie, mentre la dicotomia tra salute e malattia ha preso il posto di quella tra bene e male.
In un affascinante romanzo del 1872, l’autore Samuel Butler dipinge un mondo in cui tutti i valori sono invertiti, chiamandolo Erewhon, un anagramma di “Nowhere” (nessun luogo). Nell’immaginaria Erewhon, i malati vengono trattati come criminali, sottoposti a processi e imprigionati. Addirittura, avere un raffreddore è considerato una disgrazia da nascondere, con la possibilità che chiunque, tra i concittadini, possa denunciare la malattia. Al contrario, i veri crimini ricevono un trattamento completamente diverso e vengono curati come se fossero semplici indisposizioni. Ladri e assassini sono assistiti in ospedali dove vige il rispetto e le buone maniere. Con affettuosa premura, i parenti si informano sullo stato della cura e chiedono come si senta il criminale[5].
L’esteta
A mio avviso, la società e i media ci trasmettono un eccessivo attaccamento alla cura di sé, particolarmente concentrato sull’aspetto esteriore. Questo non solo non è salutare, ma è anche poco utile, specialmente per un presbitero che rischia di precipitare in un vuoto spirituale tipico dell’edonista esteta. L’adorazione della bellezza, della raffinatezza e la ricerca del piacere sono elementi costanti nell’animo di chi segue la via dell’esteta. Quest’ultimo, infatti, mostra disinteresse per la vita quotidiana e si rifugia in un mondo ideale fatto di arte e bellezza, a cui è disposto a sacrificare la propria esistenza.
L’esteta ha la propensione ad associarsi al concetto di bellezza e cerca il piacere sensuale come via per raggiungere una completa realizzazione personale. Non si accontenta facilmente della felicità che ha già raggiunto, ma è costantemente alla ricerca di nuove sensazioni e nuove esperienze. Vive nell’attimo, innamorandosi di ciò che è transitorio e fugace, poiché è solo in questo modo che riesce a percepirsi realmente libero.
L’esteta si ritiene nobile e aristocratico non a causa delle sue origini, ma piuttosto a causa dell’ideale di vita e perfezione che ha sviluppato. Presenta costantemente un atteggiamento elegante ed eccentrico, adotta una postura provocatoria e disprezza coloro che seguono un pensiero convenzionale e moralista.
La focalizzazione esclusiva sull’aspetto esteriore e sulla forma indica, comunque, una profonda frattura interiore e una grande sensazione di vuoto. L’isolamento, l’estetizzazione della vita e l’adesione al dandismo emergono quindi come le sole soluzioni disponibili, gli unici percorsi che l’esteta può cercare di intraprendere per superare l’impasse esistenziale in cui si trova.
L’esteta comprende che, dietro il suo vivace apparente e la sua inclinazione a godere di ogni piacere, si cela una sconfitta esistenziale che potrebbe condurlo verso forme di nevrosi profonde. Consapevole di ciò, comprende che il suo malessere non può essere né mitigato né superato.
Ma questa prospettiva estetizzante e limitata ha qualche affinità con la bellezza di cui hanno parlato i Padri della Chiesa, i Dottori della Chiesa, il Magistero della Chiesa e i pontefici? Esiste una connessione tra questa concezione estetizzante, elitaria e dandistica e la Bellezza che si è incarnata per tutti gli uomini? Il rischio di adottare una visione estetizzante del ministero presbiterale non sta al servizio dell’uomo e della Chiesa, bensì solo di un’élite o di una casta.
Il prete iconico
Attualmente, è frequente incontrare presbiteri che si presentano come icone di fisici ben allenati, considerati ricercati sia per l’abbigliamento di lusso che indossano che per l’uso generoso di profumo, frequentano locali raffinati e alla moda, investono somme considerevoli in abiti liturgici, mostrando una tendenza a confondere le celebrazioni dei sacri Misteri con esibizioni di alta moda ecclesiastica.
Alcuni preti sembrano prepararsi come attori, applicando trucco prima di presentarsi in pubblico. Sono preti dall’aspetto ben curato, abili nel parlare e nell’adempiere ai loro doveri, poiché consapevoli che devono proiettare un’immagine di devozione e nobiltà nella loro vita esteriore.
Il presbitero senza artifici è colui che gestisce i ritmi della sua vita ministeriale bilanciando l’intimità dei sentimenti autentici con le esigenze di ogni persona che incontra. Sì, proprio incontra. Vivere il sacerdozio come una sequenza di incontri significa rendere la vita bella e libera, permettendo di sentirsi non solo presenti ma indispensabili. Per essere autentici, per essere preti senza artifici, è essenziale praticare l’autenticità.
“La sfida è vincere la tentazione della comodità mondana, di una vita comoda in cui sistemare più o meno tutte le cose e andare avanti per inerzia, ricercando il nostro confort e trascinandoci senza entusiasmo. Ma, in questo modo, si perde il cuore della missione, che è uscire dai territori dell’io per andare verso i fratelli e le sorelle esercitando, in nome di Dio, l’arte della vicinanza. C’è un grande rischio legato alla mondanità, specialmente in un contesto di povertà e di sofferenze: quello di approfittare del ruolo che abbiamo per soddisfare i nostri bisogni e le nostre comodità. È triste, molto triste quando ci si ripiega su sé stessi diventando freddi burocrati dello spirito. Allora, anziché di servire il Vangelo, ci preoccupiamo di gestire le finanze e di portare avanti qualche affare vantaggioso per noi. Fratelli e sorelle, è scandaloso quando ciò avviene nella vita di un prete o di un religioso, che invece dovrebbero essere modelli di sobrietà e di libertà interiore. Che bello, invece, mantenersi limpidi nelle intenzioni e affrancati da compromessi col denaro, abbracciando con gioia la povertà evangelica e lavorando accanto ai poveri! E che bello essere luminosi nel vivere il celibato come segno di disponibilità completa al Regno di Dio! Non accada invece che in noi si trovino, ben piantati, quei vizi che vorremmo sradicare negli altri e nella società. Per favore, vigiliamo sulla comodità mondana”[6].
Dobbiamo allontanarci dalle tentazioni della mediocrità spirituale, della comodità mondana e della superficialità. Come presbiteri, siamo chiamati ad abbracciare l’eleganza di una povertà dignitosa, indossando abiti sobri e essenziali. Questi preti ricordano che la vita è un miracolo straordinario e che è nobile sacrificarla per ideali elevati. Fanno questo con modestia e semplicità, riflettendo su ciò che è veramente importante per loro e rendendo così la vita più virtuosa e umana, in risposta al Vangelo.
In realtà, ogni aspetto può essere considerato un sintomo che evidenzia un malessere presente nella borghesizzazione del clero, caratterizzata da una conformità apparentemente tranquilla e dalla perdita o marginalizzazione del ruolo profetico. Questo si traduce in una mancanza di adattamento alle esigenze pastorali, una riduzione delle parrocchie a quasi “centri ricreativi post-lavoro”, un accumulo di privilegi e una perdita dell’amore per “sorella povertà”.
La responsabilità pastorale a cui il presbitero è chiamato si basa su un’autentica attenzione per sé stesso, evitando sia il pericolo di autoannullamento sia eventuali tendenze narcisistiche, fenomeni sempre più comuni ai giorni nostri.
Partendo dalle idee di Heidegger riguardo all'”esserci come cura”[7], emerge la necessità, soprattutto per il presbitero, di rivedere il proprio approccio interiore in modo da sviluppare un’autentica preoccupazione per sé stesso, da cui scaturisce la capacità di prendersi cura degli altri[8].
La cura diventa l’elemento esistenziale più significativo, la struttura ontologica di base che riflette l’originaria apertura dell’essere. La cura costituisce la stessa essenza del mio essere. Da qui, il passaggio da un’autentica cura di sé a una generosa cura delle anime non solo diventa naturale, ma conferisce significato anche alla cura di sé.
[1] Lord George Bryan Brummel fu considerato il creatore del dandyismo inglese. Non si può però trascurare di menzionare il predecessore Beau Nash (1674-1762),
[2] M. Lutz, Il piacere della vita. Contro le diete sadiche, i salutisti a tutti i costi e il culto del fitness, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2008, p. 120.
[3] Ivi.
[4] [4] Cf. M. Fitzpatrick, Tiranny of Health. Doctors and the Regulation of Lifestyle, Routledge. 2001.
[5] Cf. S. Butler, Erewhon, e Ritorno a Erewhon, Adelphi, Milano 1975.
[6] Francesco, Discorso nell’incontro di preghiera con i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, durante il viaggio in nella repubblica democratica del Congo e in Sud Sudan, 2 febbraio 2023.
[7] Il tema della “Cura” viene affrontato da Heidegger nelle pagine di Essere e tempo in cui l’autore fa riferimento al saggio di K. Burdach, “Faust und die Sorge”, saggio che permette ad Heidegger di ricavare un’interpretazione ontologico-esistenziale dell’Esserci in quanto Cura. Ed è in una favola antica di IGINIO che troviamo le radici della seguente auto-interpretazione dell’Esserci come Cura: “La Cura, mentre stava attraversando il fiume scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa avesse fatto interviene Giove. La ‘Cura’ lo prega di infondere lo spirito a quello che aveva formato, Giove glielo proibì e pretendeva che fosse imposto il proprio. Mentre la ‘Cura’ e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato formato fosse imposto il proprio nome, perché gli aveva dato una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò loro la seguente equa decisione: Tu, Giove, poiché hai dato lo spirito, alla morte riceverai lo spirito; tu, Terra, poiché hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fintanto che esso vivrà, lo possieda la Cura. Poiché la controversia riguarda il suo nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra)”.
[8] Cf. R. Massaro, Prete, cura anche te stesso, in “Presbyteri” 8/2021, pp. 574.583.
Articolo indovinato: la tendenza è realmente presente nel clero italiano. In un recente passato era prerogativa dei Vescovi diocesani e degli ecclesiastici di Curia, oggi è sintomo di carenza di idealita’ ed è una forma per apparire migliori dei confratelli, nonché maggiormente ligi alla disciplina canonica in generale.
Sono pugliese anche io, come l’autore dell’articolo, e dalla realtà che vedo siamo passati in pochi anni da sacerdoti vestiti in maniera veramente sciatta, addirittura con scarsa attenzione all’igiene, a seminaristi pugliesi e giovani sacerdoti molto (troppo) attenti alle Griffes, alle auto, ai cagnolini di razza e poi li vedi con le berrette, le mantelle alle processioni, ecc. Capisco che siamo certamente influenzati dal tempo in cui viviamo, ma io dico, senza fare troppa filosofia, un po’ di regole dovrebbero darle dall’alto, senza troppe storie: si indossa un semplice e decoroso abito ecclesiastico uguale per tutti e adatto ai nostri tempi. Invece ora nella Chiesa vige la regola che ognuno fa un po’ come gli pare e i risultati spesso sfiorano il ridicolo.
Forse si potrebbe imporre in blocco a tutti i chierici il clergyman con collare rigido, da acquistare presso rivenditori autorizzati
Comunque è un sintomo del fatto che il clero italiano sta tentando di recuperare il suo ruolo come “mediatore del sacro” che negli anni si era affievolito in favore di un ruolo più terapeutico e di accompagnamento. Vedremo quale sarà la risposta popolare
@Adelmo li Cauzi… Adelmo li Cauzi 3 marzo 2024
E allora una bella tuta blu e scarpe antinfortunistiche dovrebbero andare bene.
Spero che questo commento venga pubblicato visto che sono stato definito sciocco credo di aver diritto a dire sciocchezze.
Infatti ne ha detta un’altra, insultando chi per forza o per necessità indossa una tuta blu e la infradicia di sudore ogni giorno per portare a casa 1.200€ rischiando di cadere da un ponteggio o di rimanere schiacciato in una pressa. La smetta di fare il maestrino.
Purtroppo non mi pare così diffusa questa cura del corpo, anzi, spesso noto che i preti hanno delle panze enormi, vestono sciattamente. Almeno, questa è la mia esperienza nel nord Italia (preferisco non citare la diocesi).
Siete veramente dei boomers se credete che il “dandy” oggi sia vestito come il dandy di cinquanta anni fa. Il dandy oggi è tatuato, con orecchino, jeans stracciati ,piumino rosa. Guardate Lapo Elkann. Alche il prete dandy oggi è stracciato con scarpe da tennis e quando meno non porta né croce né collarino. Il prete dandy oggi è quello che non so fa riconoscere come prete. Chi porta talare è considerato uno sfigato, non certo un dandy. E l’umile Ratzinger per le scarpette rosse era preso in giro mentre gli arroganti preti modernisti vengono invitati alla televisione. Aggiornatevi!
Il prete dandy oggi ha il clargymen azzimato, scarpe lussuose perché deve segnalare il suo status di uomo di potere. La talare oggi la usano i preti conservatori (ed in effetti sa un po’ di sfigato) poi ci sono i preti in canottiere che devono mostrare i muscoli costruiti con fatica in palestra. Credo che questa sia vanità più che desiderio di potere. La cosa migliore sarebbe vietare l’uso dei social ai preti.
Io trovo azzeccata la foto delle scarpette rosse. Rappresentano bene l’idea del prete iconico, ricercato e dandy. Vanitas vanitatum et omnia vanitas.
Io metterei piuttosto la foto di certi giovani preti con una talare immacolata, il mantello e il saturno, che sembrano più cosplayer che sacerdoti. Non la foto delle scarpe rosse del Papa (che tra l’altro erano ortopediche)
Erano Prada. E non è stato un bell’esempio per i giovani preti vanesi che vediamo oggi.
le scarpe erano di un artigiano italiano, Adriano Stefanelli, che gliele aggiustava quando si rompevano
http://www.adriano-stefanelli.it/about.php
altre gliele ha fatte Antonio Arellano, un calzolaio peruviano di cui Benedetto era cliente ancora da cardinale
https://www.famigliacristiana.it/articolo/l-uomo-che-ha-fatto-le-scarpe-ai-pontefici.aspx
non ripetiamo certe bufale messe in giro per puro astio contro il papa
In effetti le avrà per certo comprate all’ortopedia sotto casa, magari in sconto e detraendo il 19% per raggranellare qualche euro che consentisse di arrivare più facilmente a fine mese. Calzature sopra misura, purtroppo, non ce le possiamo permettere tutti. Al di là delle scarpe mi pare fosse nella persona abbastanza visibile una cura particolare all’estetica che, a parere del tutto personale, talvolta ha valicato il buon gusto per il ruolo ricoperto.
È proprio il ruolo che impone una certa cura per gli aspetti simbolici.
Mi perdoni, che sciocchezza. Il ruolo impone di esser prima che tutto morigerati, emulando nostro Signore sul soglio di Pietro. L’aspetto simbolico sta proprio nel presentarsi come il figlio del falegname, non del faraone.
E allora una bella tuta blu e scarpe antinfortunistiche dovrebbero andare bene.
Spero che questo commento venga pubblicato visto che sono stato definito sciocco credo di aver diritto a dire sciocchezze.
Faccio una doverosa premessa: uso i social. Una cosa che noto quando un prete usa i social – non tutti ovviamente fanno così – è il farsi vedere ad ogni costo che sei prete. Si vede il prete che devotamente fa adorazione eucaristica o il prete che prega o il prete che celebra Messa o il prete che legge/studia la Bibbia. Ovviamente tutte queste foto che estremizzano la sacralità del sacerdote hanno tanti like e commenti sotto estremamente favorevoli. Mi domando tuttavia se non sia anche questo un sintomo del prete dandy… Comunque non mi dispiacerebbe degli articoletti su “il prete e i social”…è una proposta per SettimanaNews.
Perché non lo scrive lei che è una persona equilibrata un bel libro a riguardo che possa stimolare la riflessione?
Ringrazio per la proposta interessante, ma in parte ho scritto sul mio blog (se lo spulcia potrà vedere). Chi lo sa in futuro…
Articolo condivisibile.
Certo vedere dei preti vestiti come dei cicisbei è veramente brutto.
Altrettanto, mi è capitato proprio ieri, vedere le scarpe da ginnastica sbucare con i jeans dal camice del celebrante sull’altare.
Ci vorrebbe un po’ di buon senso.
Purtroppo la foto dei piedi di papa Benedetto XVI rende il tutto piuttosto triste.
Insinuare che fosse un mezzo imbecille che teneva soltanto alla forma denota un certo malanimo.
In ogni caso, per chi volesse fare uno sforzo di comprensione, copio incollo da Wikipedia che, una volta tanto, sembra aver capito qualcosa:
“Nel corso della storia della Chiesa, il colore è stato deliberatamente scelto come richiamo al sangue versato dai martiri cattolici nei secoli seguendo, letteralmente, i passi di Cristo. Come vicario di Cristo in terra, il pontefice era dunque il primo a dover dare l’esempio di seguire i passi del Salvatore e per questo indossare queste scarpe quotidianamente e di questo colore era un simbolo del voler ripercorrere idealmente e quotidianamente la Via Dolorosa dell’umanità con Cristo.”
Può anche essere un simbolo derivato dall’uso del color porpora da parte dell’imperatore romano, di cui il Papa si riteneva successore in quanto governante della Città Eterna.
A prescindere dal significato fa specie vedere ancora oggi usate le scarpe rosse di Benedetto come simbolo negativo. Manco gli anticlericali lo tirano fuori oggi
Chi non ha mai avuto neanche una pietra su cui appoggiare il capo? E lei parla di scarpette rosse? il sabato per l’uomo è non l’uomo per il sabato
Nere vanno bene?
Dico lo scandalo della povertà ha una sua codifica cromatica?
E le uniformi degli svizzeri allora?
E i marmi di San Pietro?
Mi sa che dovremo cambiare colore a tutto.
Eccessi di altri tempi. Oggi quelle scarpe andavano evitate. Sono ridicole e incomprensibili.
Insomma, potevano scegliere un’immagine diversa per l’articolo, senza doverne scegliere una con Benedetto XVI