Dandy, ovvero il prete esteta

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Il dandy[1], valorizzando al massimo i vestiti, l’aspetto esteriore e il portamento, combinava l’uso di un linguaggio sofisticato con la ricerca di un modo di vivere piacevole. Questa fusione avveniva con un atteggiamento disinvolto e un amore per sé stessi, rappresentando una forma estrema di esaltazione dell’individualismo.

Recentemente, sembra che un numero affatto insignificante di ecclesiastici abbia abbracciato questo stile, concentrandosi eccessivamente sull’attenzione per il proprio corpo, sull’abbigliamento di classe, sull’uso di tecnologie all’avanguardia e su altri aspetti simili.

La pubblicità ci bombarda quotidianamente, instillandoci la convinzione che dedicare un’attenzione costante e quotidiana a noi stessi costituisca l’elemento più cruciale della vita. Concetti come immagine, look, trucco e stile individuale, che un tempo rappresentavano l’espressione della nostra personalità, oggi riflettono piuttosto una cultura uniformata, determinando il nostro status sociale, l’identità personale e l’autostima.

Il corpo e la cura di sé

L’apparentemente innocuo invito a “prendersi cura di sé” nasconde un altro obiettivo: suggerire che dobbiamo continuare a perfezionarci, che abbiamo la possibilità e il dovere di cambiare, che non abbiamo ancora fatto tutto il possibile per raggiungere l’eccellenza, che ci manca ancora qualcosa. Si tratta di contrastare gli assurdi dogmi dell’adorazione universale del corpo.

Attualmente, sembra che mantenere un corpo sano e in forma sia per gli individui una sorta di tentativo di assicurarsi una specie di immortalità. Il corpo diventa il simbolo della rappresentazione di sé stessi in una società sempre più narcisistica. Questo comportamento riflette un egoismo chiuso in sé stesso o una rappresentazione narcisistica di sé. Neanche il presbitero di questa generazione sembra immune da tale incurvatio in seipsum, da una concentrazione eccessiva su sé stessi, in contrasto con la vera natura dell’uomo.

Da sempre, il corpo costituisce un substrato biologico su cui si radica la cultura di provenienza con le sue abitudini e le sue tendenze. Esso funge da rappresentazione e interpretazione tangibile della realtà culturale di cui è un’espressione concreta.

Per lungo tempo, il corpo è stato soggetto a variazioni e interventi culturalmente influenzati. Il corpo, infatti, potrebbe essere interpretato come una risorsa storica capace di narrare lo sviluppo delle società nel corso del tempo. Pratiche come circoncisione, infibulazione, decorazioni corporee, mutilazioni, piercing, tatuaggi, e altre, rappresentano solo alcune delle manifestazioni culturali che hanno coinvolto il corpo in epoche e contesti differenti, portando con sé significati diversificati.

L’accumulo di grasso e la magrezza hanno sempre riflessi culturali mediati attraverso il corpo. A seconda della cultura di appartenenza, il corpo grasso e il corpo magro hanno rappresentato rispettivamente la norma o l’anti-norma, l’adesione o la negazione ai modelli di riferimento. Attualmente, il corpo è più che mai il terreno su cui si manifestano e si giocano i miti contemporanei di bellezza, magrezza, giovinezza e prestazione che caratterizzano la società dell’immagine.

All’interno della società centrata sull’immagine, il corpo rappresenta sempre di più il criterio principale per definire sé stessi e per essere giudicati dagli altri, creando una crescente dipendenza.

L’allenamento fisico, le restrizioni alimentari e la chirurgia estetica rappresentano solo alcune delle metodologie impiegate per plasmare e alterare il corpo, o forse per sottoporlo a sofferenze allo scopo di riflettere i segni della nostra cultura. Al cuore di tutto ciò persiste costantemente il desiderio di essere accettati, apprezzati, approvati, notati e considerati.

Il limite sottile

Non è sempre semplice individuare il confine oltre il quale l’attenzione per il proprio benessere può trasformarsi in un eccessivo focalizzarsi su sé stessi, dando luogo a diverse distorsioni comportamentali. Queste possono spaziare dal culto della salute all’eccessiva preoccupazione per l’aspetto fisico, dal narcisismo giovanilistico alla paura eccessiva di mostrare segni di invecchiamento, dalla pretesa di controllare completamente il proprio tempo alla rigidità nel perseguire i propri interessi e molto altro ancora.

I sintomi di un’eccessiva preoccupazione per il corpo includono:

  • Un’ossessiva e spesso infondata preoccupazione riguardo al fatto che il proprio corpo non sia sufficientemente magro, muscoloso o atletico.
  • Un’attenzione eccessiva e maniacale verso l’alimentazione, con una preferenza esclusiva per cibi ritenuti “sani”, a basso contenuto calorico e ricchi di proteine.
  • La priorità accordata all’allenamento sportivo e alla cura del corpo a discapito degli aspetti familiari, sociali e lavorativi della vita.
  • L’investimento significativo di tempo e di risorse economiche in palestre, centri fitness, centri estetici e nell’acquisto di riviste.
  • L’abitudine di osservarsi frequentemente allo specchio, alla ricerca di eventuali imperfezioni muscolari, come il mitologico Narciso nell’accezione “classica” anziché in quella psicopatologica attuale.

“La mia impressione è che oggi molti non credano più in Dio ma nella salute e tutto quanto una volta si faceva per il Dio – pellegrinaggi, digiuni e opere buone – oggi lo si faccia per la salute. Ci sono persone che non affrontano più la vita in modo lineare, ma vivono in modo “preventivo” e, alla fine, muoiono sane. Però anche chi muore sano, purtroppo è morto. Così anche le manifestazioni tipiche dell’esperienza religiosa sono entrate nel campo della salute. Si può osservare il passaggio dalle tradizionali processioni alle visite in processione dal medico, ai pellegrinaggi dallo specialista. Nelle palestre si possono incontrare persone che vivono una vita di rinunce e di mortificazioni in confronto alle quali la regola degli ordini religiosi di più stretta osservanza sembra una passeggiata. E la morte è il nemico mortale di questa religione della salute. Per evitare la morte, si corre per strada, nei boschi, si mangiano granaglie e peggio… per arrivare a morire lo stesso, purtroppo”[2].

La salute e il peccato

Tra i tratti “religiosi” del salutismo possiamo annoverare anche il fatto che la bruttezza (avere difetti fisici, essere grassi ecc.) è spesso squalificante e fonte di imbarazzo. «Certamente, il peccato è un concetto presente oggi quasi solamente nell’ambito della religione della salute. Perfino in chiesa i parroci sono diventati prudenti a usare l’espressione “peccato”. È una parola che non si pronuncia più volentieri, perché suona dura, sgradevole, molto meglio dire “essersi allontanati dalla via”.

Se, in Germania, uno osserva in quale contesto la parola peccato risuona ancora, si può accorgere che è appunto quello della salute, dove c’è un dio che punisce subito anche i più piccoli peccati… Tutto ciò ha delle conseguenze rilevanti. Se l’uomo autentico è quello sano, allora l’uomo malato, soprattutto malato cronico, diventa un uomo di seconda o terza classe. Il che porta alla discriminazione dei non sani, dei non giovani, dei non belli è dietro l’angolo. E la pressione sociale su queste categorie cresce sensibilmente»[3].

I sette peccati capitali sono stati sostituiti dai quattro pilastri della tirannia della salute: astenersi dal fumo, limitare il consumo di alcol, seguire una dieta sana e praticare regolarmente l’esercizio fisico[4]. Questo rappresenta il mito della società terapeutica, in cui gli individui non sono più interdipendenti solidalmente, ma tutti dipendono da autorità superiori e da professionisti quali medici, nutrizionisti, istruttori di fitness, psicologi e psicanalisti, dando un carattere sempre più medicalizzato al controllo.

La tirannia della salute ha preso piede nelle nostre società, con effetti che suggeriscono una rivoluzione non solo sociale, ma anche antropologica. Questa tirannia ha permeato le famiglie, le relazioni sociali, gli spazi pubblici e praticamente tutte le sfere della vita privata, inclusa la vita dei presbiteri. In questo contesto, perseguire uno stile di vita sano ha soppiantato il concetto di vivere bene delle antiche filosofie, mentre la dicotomia tra salute e malattia ha preso il posto di quella tra bene e male.

In un affascinante romanzo del 1872, l’autore Samuel Butler dipinge un mondo in cui tutti i valori sono invertiti, chiamandolo Erewhon, un anagramma di “Nowhere” (nessun luogo). Nell’immaginaria Erewhon, i malati vengono trattati come criminali, sottoposti a processi e imprigionati. Addirittura, avere un raffreddore è considerato una disgrazia da nascondere, con la possibilità che chiunque, tra i concittadini, possa denunciare la malattia. Al contrario, i veri crimini ricevono un trattamento completamente diverso e vengono curati come se fossero semplici indisposizioni. Ladri e assassini sono assistiti in ospedali dove vige il rispetto e le buone maniere. Con affettuosa premura, i parenti si informano sullo stato della cura e chiedono come si senta il criminale[5].

L’esteta

A mio avviso, la società e i media ci trasmettono un eccessivo attaccamento alla cura di sé, particolarmente concentrato sull’aspetto esteriore. Questo non solo non è salutare, ma è anche poco utile, specialmente per un presbitero che rischia di precipitare in un vuoto spirituale tipico dell’edonista esteta. L’adorazione della bellezza, della raffinatezza e la ricerca del piacere sono elementi costanti nell’animo di chi segue la via dell’esteta. Quest’ultimo, infatti, mostra disinteresse per la vita quotidiana e si rifugia in un mondo ideale fatto di arte e bellezza, a cui è disposto a sacrificare la propria esistenza.

L’esteta ha la propensione ad associarsi al concetto di bellezza e cerca il piacere sensuale come via per raggiungere una completa realizzazione personale. Non si accontenta facilmente della felicità che ha già raggiunto, ma è costantemente alla ricerca di nuove sensazioni e nuove esperienze. Vive nell’attimo, innamorandosi di ciò che è transitorio e fugace, poiché è solo in questo modo che riesce a percepirsi realmente libero.

L’esteta si ritiene nobile e aristocratico non a causa delle sue origini, ma piuttosto a causa dell’ideale di vita e perfezione che ha sviluppato. Presenta costantemente un atteggiamento elegante ed eccentrico, adotta una postura provocatoria e disprezza coloro che seguono un pensiero convenzionale e moralista.

La focalizzazione esclusiva sull’aspetto esteriore e sulla forma indica, comunque, una profonda frattura interiore e una grande sensazione di vuoto. L’isolamento, l’estetizzazione della vita e l’adesione al dandismo emergono quindi come le sole soluzioni disponibili, gli unici percorsi che l’esteta può cercare di intraprendere per superare l’impasse esistenziale in cui si trova.

L’esteta comprende che, dietro il suo vivace apparente e la sua inclinazione a godere di ogni piacere, si cela una sconfitta esistenziale che potrebbe condurlo verso forme di nevrosi profonde. Consapevole di ciò, comprende che il suo malessere non può essere né mitigato né superato.

Ma questa prospettiva estetizzante e limitata ha qualche affinità con la bellezza di cui hanno parlato i Padri della Chiesa, i Dottori della Chiesa, il Magistero della Chiesa e i pontefici? Esiste una connessione tra questa concezione estetizzante, elitaria e dandistica e la Bellezza che si è incarnata per tutti gli uomini? Il rischio di adottare una visione estetizzante del ministero presbiterale non sta al servizio dell’uomo e della Chiesa, bensì solo di un’élite o di una casta.

Il prete iconico

Attualmente, è frequente incontrare presbiteri che si presentano come icone di fisici ben allenati, considerati ricercati sia per l’abbigliamento di lusso che indossano che per l’uso generoso di profumo, frequentano locali raffinati e alla moda, investono somme considerevoli in abiti liturgici, mostrando una tendenza a confondere le celebrazioni dei sacri Misteri con esibizioni di alta moda ecclesiastica.

Alcuni preti sembrano prepararsi come attori, applicando trucco prima di presentarsi in pubblico. Sono preti dall’aspetto ben curato, abili nel parlare e nell’adempiere ai loro doveri, poiché consapevoli che devono proiettare un’immagine di devozione e nobiltà nella loro vita esteriore.

Il presbitero senza artifici è colui che gestisce i ritmi della sua vita ministeriale bilanciando l’intimità dei sentimenti autentici con le esigenze di ogni persona che incontra. Sì, proprio incontra. Vivere il sacerdozio come una sequenza di incontri significa rendere la vita bella e libera, permettendo di sentirsi non solo presenti ma indispensabili. Per essere autentici, per essere preti senza artifici, è essenziale praticare l’autenticità.

“La sfida è vincere la tentazione della comodità mondana, di una vita comoda in cui sistemare più o meno tutte le cose e andare avanti per inerzia, ricercando il nostro confort e trascinandoci senza entusiasmo. Ma, in questo modo, si perde il cuore della missione, che è uscire dai territori dell’io per andare verso i fratelli e le sorelle esercitando, in nome di Dio, l’arte della vicinanza. C’è un grande rischio legato alla mondanità, specialmente in un contesto di povertà e di sofferenze: quello di approfittare del ruolo che abbiamo per soddisfare i nostri bisogni e le nostre comodità. È triste, molto triste quando ci si ripiega su sé stessi diventando freddi burocrati dello spirito. Allora, anziché di servire il Vangelo, ci preoccupiamo di gestire le finanze e di portare avanti qualche affare vantaggioso per noi. Fratelli e sorelle, è scandaloso quando ciò avviene nella vita di un prete o di un religioso, che invece dovrebbero essere modelli di sobrietà e di libertà interiore. Che bello, invece, mantenersi limpidi nelle intenzioni e affrancati da compromessi col denaro, abbracciando con gioia la povertà evangelica e lavorando accanto ai poveri! E che bello essere luminosi nel vivere il celibato come segno di disponibilità completa al Regno di Dio! Non accada invece che in noi si trovino, ben piantati, quei vizi che vorremmo sradicare negli altri e nella società. Per favore, vigiliamo sulla comodità mondana”[6].

Dobbiamo allontanarci dalle tentazioni della mediocrità spirituale, della comodità mondana e della superficialità. Come presbiteri, siamo chiamati ad abbracciare l’eleganza di una povertà dignitosa, indossando abiti sobri e essenziali. Questi preti ricordano che la vita è un miracolo straordinario e che è nobile sacrificarla per ideali elevati. Fanno questo con modestia e semplicità, riflettendo su ciò che è veramente importante per loro e rendendo così la vita più virtuosa e umana, in risposta al Vangelo.

In realtà, ogni aspetto può essere considerato un sintomo che evidenzia un malessere presente nella borghesizzazione del clero, caratterizzata da una conformità apparentemente tranquilla e dalla perdita o marginalizzazione del ruolo profetico. Questo si traduce in una mancanza di adattamento alle esigenze pastorali, una riduzione delle parrocchie a quasi “centri ricreativi post-lavoro”, un accumulo di privilegi e una perdita dell’amore per “sorella povertà”.

La responsabilità pastorale a cui il presbitero è chiamato si basa su un’autentica attenzione per sé stesso, evitando sia il pericolo di autoannullamento sia eventuali tendenze narcisistiche, fenomeni sempre più comuni ai giorni nostri.

Partendo dalle idee di Heidegger riguardo all'”esserci come cura”[7], emerge la necessità, soprattutto per il presbitero, di rivedere il proprio approccio interiore in modo da sviluppare un’autentica preoccupazione per sé stesso, da cui scaturisce la capacità di prendersi cura degli altri[8].

La cura diventa l’elemento esistenziale più significativo, la struttura ontologica di base che riflette l’originaria apertura dell’essere. La cura costituisce la stessa essenza del mio essere. Da qui, il passaggio da un’autentica cura di sé a una generosa cura delle anime non solo diventa naturale, ma conferisce significato anche alla cura di sé.


[1] Lord George Bryan Brummel fu considerato il creatore del dandyismo inglese. Non si può però trascurare di menzionare il predecessore Beau Nash (1674-1762),

[2] M. Lutz, Il piacere della vita. Contro le diete sadiche, i salutisti a tutti i costi e il culto del fitness, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2008, p. 120.

[3] Ivi.

[4] [4] Cf. M. Fitzpatrick, Tiranny of Health. Doctors and the Regulation of Lifestyle, Routledge.  2001.

[5] Cf. S. Butler, Erewhon, e Ritorno a Erewhon, Adelphi, Milano 1975.

[6] Francesco, Discorso nell’incontro di preghiera con i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, durante il viaggio in nella repubblica democratica del Congo e in Sud Sudan, 2 febbraio 2023.

[7] Il tema della “Cura” viene affrontato da Heidegger nelle pagine di Essere e tempo in cui l’autore fa riferimento al saggio di K. Burdach, “Faust und die Sorge”, saggio che permette ad Heidegger di ricavare un’interpretazione ontologico-esistenziale dell’Esserci in quanto Cura. Ed è in una favola antica di IGINIO che troviamo le radici della seguente auto-interpretazione dell’Esserci come Cura: “La Cura, mentre stava attraversando il fiume scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa avesse fatto interviene Giove. La ‘Cura’ lo prega di infondere lo spirito a quello che aveva formato, Giove glielo proibì e pretendeva che fosse imposto il proprio. Mentre la ‘Cura’ e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato formato fosse imposto il proprio nome, perché gli aveva dato una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò loro la seguente equa decisione: Tu, Giove, poiché hai dato lo spirito, alla morte riceverai lo spirito; tu, Terra, poiché hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fintanto che esso vivrà, lo possieda la Cura. Poiché la controversia riguarda il suo nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra)”.

[8] Cf. R. Massaro, Prete, cura anche te stesso, in “Presbyteri” 8/2021, pp. 574.583.

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24 Commenti

  1. Giuseppe 27 marzo 2024
  2. Cosimo 26 marzo 2024
    • Anima errante 28 marzo 2024
  3. Alessio Balestri 4 marzo 2024
  4. Marco Gildi 29 febbraio 2024
  5. Gian Piero 25 febbraio 2024
    • Pietro 25 febbraio 2024
  6. Pietro 25 febbraio 2024
    • Anima errante 25 febbraio 2024
      • Pietro 25 febbraio 2024
      • Saverio Mazza 26 febbraio 2024
        • Adelmo li Cauzi 1 marzo 2024
          • Alessio Balestri 1 marzo 2024
          • Adelmo li Cauzi 3 marzo 2024
  7. Fabio Cittadini 24 febbraio 2024
    • Fabio 25 febbraio 2024
      • Fabio Cittadini 25 febbraio 2024
  8. Adelmo li Cauzi 23 febbraio 2024
    • Anima errante 24 febbraio 2024
    • Giovanni 24 febbraio 2024
      • Adelmo li Cauzi 24 febbraio 2024
        • Pietro 25 febbraio 2024
      • Anima errante 25 febbraio 2024

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