Si sta parlando, riflettendo e qualche volta sproloquiando, intorno al celibato/castità dei preti. Dal momento che la cosa mi riguarda anche personalmente, metto per scritto alcune cose che ho pensato in questi giorni.
La castità è uno dei consigli evangelici, che di solito si riassumono nella triade castità/povertà/obbedienza. I religiosi (frati, suore, monaci…) emettono i tre voti, impegnandosi formalmente su tre livelli. Non solo non si sposano, ma non possono possedere (mi ricordo un francescano che diceva: «questo orologio non è mio, è di mio uso») e sono tenuti all’obbedienza, che per esempio vuol dire spostamenti periodici – in qualche misura inappellabili – della sede e dei destinatari del servizio, su decisione del superiore.
Il prete diocesano, fin dal diaconato, assume l’impegno del celibato e, con l’ordinazione presbiterale, promette al vescovo della diocesi di appartenenza e ai suoi successori «filiale rispetto e obbedienza». Della povertà non si dice nulla. Sta di fatto che ci sono moltissimi preti sobri, essenziali, distaccati dai beni materiali e generosi di soldi e di disponibilità, ma ogni tanto succede che qualcuno, morendo, lasci eredità milionarie.
Mi è venuta in mente una riflessione di Arturo Paoli in proposito, e sono andato a ricercarla nei suoi libri; ecco la citazione: la verginità «non è una decisione presa dal di fuori, non è una scelta per appartenere a un club di perfetti, non è un calcolo di furbizia per avere l’omaggio delle genti: è l’entrata violenta e assoluta del Signore nella persona» (Dialogo della liberazione, ed. Morcelliana 1969). Sulle pagine di questo indimenticabile prete lucchese meditavo negli anni di seminario e le rileggo con emozione oggi che divento vecchio compiendo 70 anni.
Non ho letto il libro del card. Sarah (e non ho gran voglia di leggerlo) ma mi suona strano che a tutto il dibattito avviato intorno all’affermazione del celibato dei preti non faccia riscontro una contemporanea riflessione sull’obbedienza (vescovi e preti che mettono pesantemente in discussione l’insegnamento e tutto l’operato di papa Francesco!) né tanto meno sulla povertà, sul bisogno di una Chiesa che si alleggerisca di ricchezze, onore, prestigio, potere, appartamenti principeschi…
Senza povertà e con poca obbedienza, la castità rischia davvero di apparire la condizione (starei per dire la tassa da pagare) per appartenere a un club di privilegiati. Mi pare intenda questo papa Francesco quando prende posizione contro il clericalismo, che è «proprio l’opposto di quello che ha fatto Gesù. Il clericalismo condanna, separa, frusta, disprezza il popolo di Dio. Il clericalismo confonde il “servizio” presbiterale con la “potenza” presbiterale» (da un recente discorso del papa in Mozambico).
A proposito della difesa a oltranza del celibato per tutti i preti cattolici (ignorando peraltro quello che succede nelle Chiese cattoliche di rito orientale e per gli anglicani accolti nella Chiesa cattolica), una delle tesi sostenute è la necessità di conformarsi a Gesù sacerdote, all’offerta che egli fa della propria vita e che il presbitero rinnova sull’altare.
Per quello che ricordo di aver imparato a suo tempo dal corso di ecclesiologia tenuto da un grande maestro (don Severino Dianich), il cuore della missione è l’annuncio del Vangelo, e la Chiesa nasce quando, intorno alla Buona Notizia accolta, si forma una comunità. Che poi si riunisce per uno dei momenti più radicali dell’annuncio, quando lo stesso presbitero che svolge il ministero della Parola assume le veci di Gesù e dice le stesse cose dette da lui nell’ultima cena; quelle parole sono così vere che il pane e il vino diventano corpo e sangue del Signore.
Concentrare l’essenza della missione presbiterale nel momento celebrativo sacramentale, quasi isolando e assolutizzando questo aspetto, potrebbe essere una delle ragioni che porta a fare del prete (che alla luce della lettera agli Ebrei non andrebbe chiamato sacerdote!) un separato, un intoccabile e, quindi, uno che non si deve sposare perché il matrimonio ne profanerebbe la sacralità.
Alcuni degli apostoli erano sposati (la suocera di Pietro servì a tavola Gesù), Paolo raccomandava che i vescovi fossero sposati una sola volta… Che i preti non si sposino, nelle attuali condizioni pastorali delle nostre Chiese, è quasi una necessità alla luce del sovraccarico pastorale: mancherebbe il tempo di essere mariti e padri in modo adeguato. Al di là della necessità, si tratta di un dono, di un modo – non assolutizzabile, ma certamente forte – di mettere la propria vita nelle mani del Signore, di consegnarsi a lui, di farlo entrare «in modo violento e assoluto». Ma, in situazioni geografiche e culturali diverse, essere sposati potrebbe non essere più condizione ostativa a diventare preti: può essere il caso dell’Amazzonia.
Proprio pensando al continente latino-americano, alle sue condizioni sociali, culturali ed economiche molto diverse dalle nostre, forse il linguaggio della povertà, e quindi della condivisione con gli ultimi, è quello da enfatizzare per dare credibilità all’annuncio. E magari un po’ più di sobrietà e di essenzialità da parte di noi preti non farebbe male neanche qui da noi.