Dibattito sul comunicato CEI / 2

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Cristiani in diaspora – Duilio Albarello

Ormai da molti anni si parla, almeno nel contesto europeo, di un «cristianesimo della diaspora». Si intende dire con ciò che la secolarizzazione ha sgretolato pezzo dopo pezzo la “cristianità”, ovvero la massificazione della fede basata sull’equazione tra appartenenza alla comunità ecclesiale e appartenenza alla società civile. Di conseguenza, il contrassegno dell’identità cristiana non è più l’occupazione integrale – in fondo integralistica – degli spazi, bensì la dispersione all’interno del corpo sociale, per essere sale e lievito dentro la rete delle relazioni interpersonali e collettive.

L’ossessione per la visibilità egemonica lascia così il posto alla sollecitudine per un’invisibilità feconda, che segue una dinamica dal basso, più a misura di casa che di basilica. In fondo, è lecito supporre che Gesù di Nazareth immaginasse qualcosa di molto simile a questo, per il suo «piccolo gregge».

cristianesimo diasporaOra, ciò che non ha potuto la secolarizzazione culturale, lo ha ottenuto in poche settimane la pandemia virale: più nolenti che volenti, ci ha costretti ad ammettere che quella dell’organizzazione totale è “una” forma che il cattolicesimo ha assunto nel corso della sua storia, ma non è affatto “la” forma unica e ancor meno quella insostituibile. Soprattutto in Italia, abbiamo spesso resistito a prenderne coscienza, illudendoci di rimanere l’oasi felice all’interno del deserto europeo. Tale illusione, però, ha soltanto ritardato l’indispensabile riconoscimento e la conseguente riconfigurazione inevitabile dello stile di Chiesa.

Una controprova di ciò che sto dicendo la possiamo riscontrare nell’ambito significativo della liturgia. È sotto gli occhi di tutti la tendenziale riduzione della pratica liturgica alla celebrazione dei sacramenti, in particolare la messa. Da molto tempo il sola Eucharistia funziona come una sorta di equivalente cattolico del sola Scriptura protestante. La messa è diventata il sacramento pronto all’uso per tutte le occasioni: dalla sagra di paese alle solennità del calendario.

Tanto che, quando l’emergenza pandemica ne ha di fatto reso impossibile la celebrazione nella sua modalità pubblica, è cascato giù l’intero impianto: è sembrato che non rimanesse in piedi più nulla.

La soluzione ovvia è parsa quella di continuare a riproporre l’eucaristia, concentrandone però l’azione nel solo ministro ordinato, rendendo la presenza dell’assemblea una variabile indifferente, magari rimpiazzabile senza troppo imbarazzo dal suo simulacro virtuale (è stato addirittura teorizzato nero su bianco in documenti ufficiali, spazzando via in un istante decenni di post-concilio).

Nei tempi forti che stiamo attraversando, ritengo sarebbe stato preferibile rimarcare che, nella prospettiva del Vangelo di Gesù, «fonte e culmine» non è il rito, bensì la vita. Se il rito – per cause di forza maggiore – può essere sospeso, tuttavia la vita deve continuare.

Il «culto adatto» alla vita del cristiano, per richiamare l’espressione di Paolo (Romani 12,1), è quello che assume la forma concreta del «corpo donato» nei gesti della cura, della tenerezza, della solidarietà, della misericordia, della riconciliazione. Non c’è pandemia che abbia la capacità di interdire questo tipo di culto: anzi, ne sottolinea con ancora più vigore l’essenzialità, in vista di quell’invisibilità feconda evocata all’inizio.

Ricordiamocelo nella fase due o tre, quando è assai probabile che proprio la “diaspora” sia destinata a diventare la nuova normalità dell’esperienza cristiana.

  • Duilio Albarello è presbitero diocesi di Mondovì, docente di Teologia Fondamentale all’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Fossano (Cuneo) e alla Facoltà di Teologia di Torino.

Cristiani “fuori dal tempio” – Aldo Antonelli

I vescovi avrebbero dovuto ricordare ai cristiani che il loro compito non è di riempire le chiese, ma di ridare un’anima al mondo.

Cari vescovi,

più che ai “vescovi Italiani” in massa, tra i quali vi sono persone di tutto rispetto, mi rivolgo a chi, in loro rappresentanza e a nome della Cei, ha reagito agli ultimi provvedimenti del Governo, paventando addirittura la negazione della “libertà di culto”. Ciò in un Paese in cui, pandemia imperante, viene vietato ogni tipo di assembramento e non si capisce per quale motivo le assemblee liturgiche avrebbero dovuto fare eccezione.

Sia chiaro: il mio disappunto e la mia critica non riguardano l’aspetto politico del gesto. Parlo e scrivo come credente e come prete, rivolgendomi a vescovi che non dovrebbero mai dimenticare la loro vocazione di “pastori” e, quindi, anche di “educatori”!

Voi, purtroppo, gelosi difensori di usanze e costumi scambiati per fede, invece che solerti evocatori di fedeltà più autentiche e meno sospette.

La crisi imposta dalla diffusione del Covid-19, con la chiusura delle chiese, sarebbe potuta essere l’occasione per una riflessione, da parte nostra, sulla deriva “religionistica” e “ritualistica” della fede che, messo in secondo piano il dovere della testimonianza, ha enfatizzato l’aspetto pratico della frequentazione liturgica: un’occasione preziosa per la riscoperta del Vangelo come vera “Buona Novella”, come messaggio di vita, da vivere laicamente, “fuori dal tempio”, così come inizialmente è stato presentato da Gesù e vissuto dai primi cristiani.

Scusatemi se oso affacciare l’impressione che il vangelo che leggete nelle chiese sia diverso da quello che praticate nei rapporti coi fedeli in generale e con i politici in particolare.

In questo tempo di chiese vuote avreste potuto ricordare ai cristiani che il loro compito non è quello di riempire le chiese, ma di ridare un’anima al mondo. Era la raccomandazione che spesso facevo ai miei parrocchiani: si va in chiesa per poter essere lievito nel mondo; non si sta nel mondo per andare in chiesa!

E ciò non per seguire gusti personali e la mia propria sensibilità, ma per quella radicalità di sequela che vuole che «i veri adoratori adorino il Padre in Spirito e verità», perché «Dio è Spirito. E coloro che lo adorano, in Spirito e verità devono adorarlo» (Gv 4,23-24), così come Gesù ricordava alla samaritana che gli poneva il problema se Dio andava adorato nel tempio di Gerusalemme o in quello di Samaria.

Voi avreste potuto e dovuto ricordare al popolo cristiano che la Chiesa non è quella evidenziata dai riti e dalle processioni, ma quella significata da testimoni che in un mondo ove tutti accumulano, loro condividono; in un mondo ove gli individualismi in conflitto lottano per prevalere, c’è una Chiesa che nella quotidianità sa farsi servizio, nella logica del dono di sé, della preoccupazione e della cura per l’altro.

E invece no! Voi volete riportarci al passato. A imprigionare nella sacralità del rito ciò che il Maestro ci ha invitato a testimoniare nella vita.

Anche in questo tempo di Pasqua avreste potuto ricordare l’evento con l’unica figura consegnataci dai Vangeli: l’Angelo che davanti al sepolcro vuoto esclama: «Chi cercate? Non è qui! Andate in città. Là lo troverete!».

E invece no! Avete, ancora una volta, perso l’occasione di trasformare il semplice dato temporale, “cronos”, nel più pregnante ed evangelico momento propizio, “kairos”.

 Avezzano 27 aprile 2020

  • Aldo Antonelli è un parroco in pensione.
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