Dibattito sui comunicati CEI / 3

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Sulla posizione della CEI – Associazione Viandanti

Una Rete di associazioni legge criticamente il comunicato della CEI riguardo alla ripresa della celebrazione delle messe domenicali.

Parma, 29 aprile 2020

In questi giorni l’attenzione e la preoccupazione di tutti sono rivolte all’avvio della cosiddetta Fase 2, alla quale stanno guardando, con toni e sensibilità diverse, anche i rappresentanti delle varie comunità religiose.

I vescovi italiani sono intervenuti, la sera stessa delle comunicazioni del Presidente del Consiglio, con la dichiarazione DPCM, la posizione della CEI (26 aprile 2020). Un testo breve e ruvido che suscita non pochi interrogativi. Come battezzati/e e come cittadini/e sentiamo di dovere condividere con i Pastori e con la più ampia comunità ecclesiale le nostre forti perplessità, che partecipiamo con altri che già hanno preso la parola.

Il documento ha un tono perentorio e ultimativo che, da un lato, sarebbe più adeguato ad altre autorità che non ai vescovi, dall’altro, lascia trasparire una contrapposizione tra due poteri. In un momento così difficile, per non dire drammatico, nel quale si sta cercando il massimo della coesione sociale non crediamo che sia questo il giusto registro della comunicazione tra la Chiesa e lo Stato.

Le questioni che il comunicato ha posto riguardano sia la Chiesa cattolica, sia tutte le confessioni cristiane, sia le altre religioni (i musulmani celebrano in questi giorni il Ramadan). Non poteva questa essere un’occasione di condivisione ecumenica e interreligiosa per un’elaborazione comune e per dare anche una forte valenza antropologica alle richieste? In questo modo abbiamo invece affermato che la nostra Chiesa vuole un’interlocuzione diretta ed esclusiva col potere politico.

La «ripresa dell’azione pastorale» risulta essere stata una ragione presentata insistentemente nel dialogo con il Governo. L’affermazione presuppone che vi sia stata un’interruzione e che l’unica attività pastorale sia la celebrazione eucaristica. Come si deve valutare, perciò, l’attività di tanti presbiteri e di comunità che hanno preparato sussidi per le celebrazioni in famiglia? Le diverse attività di vicinanza telefonica ad anziani e malati? L’attività caritativa?

Il comunicato taccia di arbitrio la decisione di escludere in questa fase la possibilità di celebrare messe con il popolo. Riteniamo che questa limitazione sia dettata dal “principio di precauzione” (v. n. 469 Compendio dottrina sociale della Chiesa) che deve guidare l’autorità costituita nell’affrontare, in questo caso, i rischi sanitari tuttora presenti.

La CEI rivendica la «pienezza della propria autonomia» nell’«organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte». In proposito ci domandiamo, da un lato, quando e come questa autonomia sia stata lesa da parte dello Stato, dall’altro, se realmente le nostre parrocchie, una volta concessa la possibilità di celebrare con il popolo, siano in grado di far rispettare (e da parte di chi) le «misure disposte» che, per salvaguardare la salute pubblica, riguardano tutti.

Per avere un’idea delle precauzioni da mettere in atto basta consultare la Proposta per una cauta ripresa in sicurezza delle celebrazioni religiose elaborata dal gruppo di ricerca “Diresom” (https://diresom.net/ ) costituito in seno all’Associazione dei docenti universitari della disciplina giuridica del fenomeno religioso.

Già altri sono scesi nel dettaglio di questa organizzazione, noi riprendiamo solo due domande: a che tipo di messa parteciperemmo? Non si rischia di snaturare gesti e segni, o di scadere nel ridicolo (distanza, numero chiuso, mascherine…), all’interno di un universo (la celebrazione) che si nutre di simbologia?

Il documento sostiene sia «compromesso l’esercizio della libertà di culto». Riteniamo che non sia affatto in discussione questa libertà o l’importanza della celebrazione eucaristica quanto l’opportunità di permettere una riunione religiosa, che in quanto tale è un assembramento come gli altri, e, quindi, va trattata di conseguenza.

Infine, non si può sottacere il fatto che la chiusa del comunicato lascia la bocca amara per quel suo vago sapore di minaccia. Ci sembra difficile poter accettare che il servizio ai poveri si alimenti solo alla vita sacramentale in un contesto che mette a rischio la salute di tutti. Vogliamo sostenere che senza la partecipazione alla messa non siamo più in grado di servire i poveri? Ma non è anche nei poveri e nella Parola di Dio che incontriamo Cristo?

Per camminare in questo ultimo tratto di esodo crediamo che ci sarebbe molto più utile riflettere come Chiesa sulle esperienze fatte in questi due mesi per individuare nuovi percorsi di vita sacramentale ed ecclesiale. Per evitare che tutto resti come prima.

Associazioni firmatarie


Lettera di “parresia”

Un folto gruppo di cristiani bergamaschi ha firmato questa lettera nella quale esprimono il loro motivato dissenso sul merito e sul metodo del comunicato della Conferenza episcopale italiana con il quale si “esigeva” di tornare a celebrare nelle chiese.

Bergamo, 1 maggio 2020

Siamo un gruppo di donne e uomini, laici e preti, semplici cristiani che amano la Chiesa, immersi come tutti negli eventi pandemici che hanno toccato in modo particolarmente grave la nostra terra, in un clima che a lungo è stato di stringente apprensione e di permanente lutto, e che tuttora resta di una certa emergenza.

Scriviamo perché ci siamo sentiti da credenti profondamente a disagio per le dichiarazioni che, attraverso un comunicato stampa, la Conferenza episcopale italiana ha indirizzato al Governo del paese appena dopo le comunicazioni ufficiali inerenti le disposizioni per la cosiddetta Fase 2.

Molte voci si sono accavallate in questi mesi in un turbine di opinioni, esternazioni, commenti, segnalazioni, punti di vista che ognuno ha potuto esprimere liberamente e, nello stesso tempo, decidere come accogliere.

Una dichiarazione ufficiale come quella della Conferenza dei vescovi italiani assume invece un tono e una qualifica che si sottrae alla libera circolazione delle opinabilità ma porta pubblicamente con sé l’insieme di tutti i cattolici del paese, accomunati ipso facto alle posizioni espresse dai loro pastori. Per questa ragione sentiamo di dover manifestare altrettanto pubblicamente, nella nostra inscindibile condizione di cittadini e di cristiani, la nostra difficoltà a mantenerci solidali con quelle dichiarazioni, sia sotto il profilo del merito, sia soprattutto sotto quello del metodo.

Teniamo anzitutto a premettere che nemmeno noi sottovalutiamo il significato di questo prolungato digiuno eucaristico che fa mancare qualcosa di essenziale alla vita credente. Siamo coscienti di quel bisogno che molti avvertono con crescente intensità come un sentimento che ci appartiene. Molti di noi, del resto, sono impegnati in un lavoro di tutela della qualità e della dignità liturgica che dura da anni e che non ha avuto bisogno di questa sospensione forzata per decidere di esprimersi. Non ci deve quindi essere insegnato che senza eucaristia non esiste la Chiesa e che la liturgia manifesta nel modo più alto e necessario la nostra condizione di discepoli/e del Signore.

Siamo oltretutto perfettamente coscienti del fatto che nessun vuoto eucaristico può essere puramente surrogato con il ricorso alla Parola o con l’esercizio della carità. Non siamo quindi certamente noi a sottostimare la portata di una mancanza che resta tale.

Teniamo anche a confessare la nostra ammirazione per quello che la nostra Chiesa, a partire dal nostro vescovo e in tutte le sue componenti, ha fatto nei giorni più difficili e continua a fare in questi che non sono meno impegnativi. Soprattutto per quel servizio di retrovia che ha assicurato assistenza non meno che presenza a molti bisogni invisibili e disertati, oltre che un sostegno umile e attivo a quanti sono impegnati professionalmente nel compito della cura. Non meno per quelle iniziative annunciate a sostegno dei disagi futuri, in cui anche la nostra Chiesa ha già deciso di mettere concretamente sul tavolo significative risorse economiche.

Proprio perché ammirati e partecipi del servizio umile e assiduo che la presenza della Chiesa sa tenere in momenti come questi, siamo stati feriti dal contenuto e dal tono della dichiarazione diramata dalla CEI la sera di domenica 26 aprile. Non ci sembra in questione la giusta aspettativa di poter concordare con il Governo, nelle sedi opportune e con tempi debiti, il paziente ristabilimento di quelle condizioni in cui può essere possibile per tutti – e senza rischi per i più deboli – tornare alle celebrazioni liturgiche. Ma ci ha molto sorpreso la scelta di un atto così immediato, frontale e perentorio, incapace di leggere e comprendere le oggettive ragioni di rischio che hanno frenato le pubbliche autorità dal consentire disposizioni meno severe.

Ancora di più ci è parso improprio, ingiustificato e particolarmente inopportuno aver evocato la violazione della libertà di culto, muovendo un’accusa che troviamo non solo di una gravità estrema, ma anche di palese inconsistenza. Anzitutto essa rimuove, per impulsività rivendicativa, il vero significato di tali situazioni, portando offesa a quanti nel mondo, cristiani e no, sono veramente impediti di esercitare liberamente il proprio credo religioso. Si mostra indisponibile a riconoscere la natura temporanea di disposizioni che si rendono necessarie, non per fantomatici disegni di controllo sociale della Chiesa, ma per garantire una protezione, ancora indispensabile, a livello collettivo dal contagio, specie per anziani e immunodepressi che in qualsiasi forma di raduno verrebbero esposti a rischi non meno gravi delle scorse settimane, senza ignorare la possibilità di essere tutti potenzialmente vettore di contagio.

Si dimentica, inoltre, di riconoscere il grande spazio offerto alla Chiesa sui mezzi della comunicazione pubblica, che hanno garantito per via televisiva servizi religiosi francamente non disponibile per altre confessioni cristiane e per altri gruppi religiosi. Grazie a una tale possibilità, la Chiesa italiana ha potuto rivolgersi costantemente non solo ai suoi fedeli ma a tutti i cittadini italiani e la presenza del papa ha potuto esercitare quel magistero simbolicamente essenziale che tutti gli hanno riconosciuto.

Ma, persino andando oltre un’evocazione così categorica della libertà di culto, ci ha mortificato l’acidità di fondo di una simile rimostranza, che in un colpo solo trasforma pubblicamente la Chiesa in una corporazione che, tra le tante e come tante altre, non fa altro che rivendicare degli interessi propri indipendentemente dal bene comune e dagli interessi generali.

Ci chiediamo quale impressione abbia potuto lasciare – e quale frutto pastorale abbia potuto portare – un atteggiamento simile presso quella folla di cittadini comuni cui la Chiesa non è meno destinata che a quanti le sono ufficialmente appartenenti.

Ci ha lasciato, infine, particolarmente delusi quel riferimento finale all’intensa attività sociale e caritativa effettivamente promossa dalla Chiesa italiana in favore di tutti, che ci sembra però speso in una chiave rivendicativa e con un vago implicito ricattatorio che sono indegni della vera charitas evangelica, la quale sa bene dove trovare il solo criterio che la rende vero segno del Signore che soccorre l’uomo e trasfigura il mondo: non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra. Quel riferimento finale, che sentiamo come il momento più infelice di tutta la lettera, assegna subliminalmente al servizio della Chiesa un valore di scambio che sconfessa in ogni punto i valori di fondo dell’agire cristiano.

Non ci è sembrato felice nemmeno il modo con cui si è dichiarato di “esigere” la ripresa dell’azione pastorale, non solo per le vaghe tonalità di arroganza contenute nel termine, ma soprattutto perché una tale ingiunzione viene formulata come se la vita della Chiesa in questi mesi fosse rimasta nella più totale sospensione, come se il volume di preghiera cresciuto nelle piccole chiese che sono le nostre case non avesse sufficiente dignità pastorale, come se la prodigiosa inventiva di cui hanno dato prova molti preti e tutte le comunità non avesse quel valore di edificazione che si richiede ad una autentica prassi di Chiesa.

In questo senso ci pare di percepire tra le righe una difficoltà a comprendere questo momento anche come grande occasione pastorale. Ma anche una mancanza di prontezza a una logica dell’esodo e del deserto, di cui questi mesi sono stati un timido anticipo e un remoto addestramento.

La nostra delusione è anche quella di molti credenti che, in silenzio e in solitudine, sono rimasti feriti da parole che hanno trovato dure, improprie e non necessarie. Ma anche quella di molta gente che, senza appartenerle, si aspetta ancora molto dalla Chiesa e continua a guardarla con fiducia. Difficile dire chi sia stato “scandalizzato” di più.

I pastori non si scelgono, si rispettano. Perciò non smetteremo di offrire il nostro servizio nella Chiesa nei modi che saranno loro a stabilire. Tuttavia ci sembrava doveroso, anche accanto a un necessario senso di obbedienza, esprimere il nostro dissenso nei confronti di una prova di forza che in realtà si rivela solo essere un segno di debolezza. Per alcuni aspetti ci sembra anche un sintomo di regressione verso concezioni ecclesiali che pensavamo superate. Ma anche una involontaria manifestazione di noncuranza per gli sforzi di quanti in queste settimane complicate hanno lavorato sodo per contenere gli effetti dell’epidemia, quasi un’offesa per quei medici, infermieri e operatori sanitari di cui si è tanto osannato il sacrificio e di cui si è pronti a compromettere la provvidenziale azione.

Nondimeno ci sembra che pronunciamenti di questo tipo, non a caso prontamente attenuati dalle parole di papa Francesco, primate d’Italia, non giovino a mantenere pacato il dibattito pubblico e serene le singole coscienze, ma piuttosto rischino di aprire ampie praterie per le scorribande di quelli che sono sempre capaci di approfittare della divisione.

Ci chiediamo se questa vicenda non abbia offerto una causa a quanti hanno imparato a usare la religione, specie la nostra, per obiettivi che sono del tutto estranei al desiderio di edificare una vera società civile.

Per tutte queste ragioni, col rispetto dovuto ma anche con la “parresia” che viene raccomandata a ogni battezzato che vive nello Spirito, vogliamo esprimere il nostro dissenso dalla lettera indirizzata al Governo dalla Conferenza episcopale italiana, senza alcun obiettivo particolare, se non quello di dichiarare pubblicamente che, da cristiani e cittadini, non possiamo in coscienza accettare quei toni e quegli argomenti come pronunciati anche a nome nostro.

Firmatari


Libertà di culto e la messa – Andrea Grillo

Voglio spiegare anzitutto perché sento l’urgenza di scrivere qualcosa di chiaro su questo punto delicatissimo e decisivo della nostra identità cristiana, di cristiani della Chiesa cattolica e romana. E cerco di comprendere, anzitutto davanti a me stesso, perché mi ha colpito tanto, stamattina, nella preghiera, riascoltare il grande testo di Gv 6: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”.

Queste espressioni, ascoltate nella liturgia della parola di questa mattina, 1 maggio 2020, sono risuonate con accenti nuovi, singolari e forti. Il contesto che stiamo vivendo, con le sue caratteristiche particolari, le rilegge e le risignifica in una maniera potente. Vorrei provare a ricostruire questo contesto, con altri due testi, che in qualche modo “discendono” da questo. Il primo testo è la frase conclusiva della “Dichiarazione di dissenso” con cui un Ufficio della CEI ha criticato le decisioni comunicate dal Presidente del Consiglio domenica scorsa. Il testo si conclude con questa frase: “l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale.”

Senza considerare le questioni di merito e di opportunità, qui viene illustrata una sorta di “gerarchia delle fonti”: il servizio deriva dalla fede, e la fede è nutrita dai sacramenti. Dunque i sacramenti nutrono la fede e la fede genera il servizio. Come vedremo, si tratta di una lettura legittima, fondata, ma unilaterale della tradizione. Ma su questo torneremo dopo.

Aggiungo un terzo testo, che traggo da un intervento apparso in questi giorni, con riferimento critico al medesimo Comunicato CEI dove i due autori evangelici fotografano la posizione espressa dai Vescovi in questo modo: “il dovere di celebrare e partecipare alla Messa è essenzialmente dovuto al bisogno di attingere alla sorgente sacramentale necessaria al credente cattolico. In questo testo viene dunque ribadita la concezione sacramentale della funzione ecclesiale, tipica del Cattolicesimo romano”.

E poi cercano di chiarirla ulteriormente così: “un buon credente cattolico per poter garantirsi la salvezza (secondo la terminologia biblica), deve durante la sua vita assolvere a tutti i sacramenti”

È evidente che, se consideriamo il testo di Giovanni, la ermeneutica dei Vescovi cattolici e la reazione degli autori evangelici, comprendiamo che il problema non sta, come potrebbe sembrare, in una differenza confessionale, ma nel modo con cui intendiamo “riempire” la  categoria inevitabilmente astratta di “libertà di culto”. Ed è su questo che vorrei fermare la mia attenzione.

La contrapposizione “formale”

Tutta la vicenda che abbiamo percorso in questi ultimi giorni, ed anche in questi due mesi, si può spiegare da qui: da questa “differenza”. Davvero i cattolici “partono” dalla eucaristia, mentre gli evangelici partono dalla fede? Io non credo che sia così. E cerco, in queste righe, di dimostrare che questa differenza nasconde una profonda unità, che entrambe le “parti”, per buone ragioni, non riescono a riconoscere. Forse perché, su entrambi i lati del “fronte” siamo stati costretti a rappresentare l’altro (e anche noi stessi) in modo esasperato, forzato, quasi caricaturale.

Così è capitato che gli evangelici contestano i cattolici perché mettono “prima di Dio” le loro liturgie, mentre i cattolici rispondono contestando agli evangelici di mettere prima la loro fede in Dio, piuttosto che Dio stesso. In fondo entrambi i fronti sono preoccupati della medesima istanza: che Dio stia prima, e vedono nella liturgia degli uni e nella fede degli altri un “ostacolo”, una “perdita”, una “corruzione”, addirittura una “idolatria”. Dio sostituito dalle liturgie della Chiesa o dalla fede dei soggetti.

Io però, in questo caso, non voglio riflettere su questo piano ecumenico, che pure sarebbe interessante. Mi sta a cuore, invece, mostrare, nei termini più classici del cattolicesimo, che la visione di eucaristia che indirettamente traspare dalla conclusione della Nota CEI non può essere considerata una espressione “classica” del cattolicesimo. Forse lo sarebbe di quello del Concilio di Trento – ma anche su questo avrei qualche dubbio – ma sicuramente non lo è rispetto alla teologia successiva al Concilio Vaticano II.

Due modelli di sacramento

Che cosa è cambiato, con il Concilio Vaticano II, nella liturgia? Direi soprattutto due cose: il ruolo del popolo di Dio e la relazione con la fede. A partire dal medioevo si era affermata – e ancora resiste – una lettura estrinseca del sacramento – quasi una forma magico-strumentale di esso – che lo affidava – come una res – alle cure del “sacerdote”, il quale “rendeva presente” il corpo e sangue di Cristo, comunicando al quale il singolo fedele guadagnava la vita eterna.

Questa rappresentazione, in cui sia la azione rituale sia la fede sono spostate quasi totalmente sul sacerdote, e che pone il soggetto all’esterno della azione, come semplice recettore del sacramento, costituisce la visione che il cattolicesimo ha superato da almeno 60. Anche se viene ripetuta da singoli cattolici, da emittenti radio, da qualche giornalista, da qualche politico interessato, e qualche volta persino da vescovi distratti, questa visione è del tutto inadeguata a spiegare l’esperienza sacramentale cattolica.

Il nuovo modello

In che cosa consiste, dunque, la novità? Consiste in un modo di pensare la presenza di Cristo, la funzione della assemblea, il ruolo del ministro e la natura della azione. La celebrazione eucaristica ha due soggetti principali: il Signore che convoca e la assemblea convocata. Il sacerdozio di Cristo corrisponde al sacerdozio comune, proprio di ogni battezzato e quindi di quella assemblea che il Concilio chiama “comunità sacerdotale” (LG 11). La assemblea è presieduta dal ministro ordinato, il cui sacerdozio è ministeriale perché serve Cristo e serve la chiesa.

Sta al servizio dei due veri soggetti. Non è l’unico ministro, perché l’assemblea è servita da una molteplicità di servizi, anche se è presieduta soltanto dal ministro ordinato. Tutta questa “compagine bene ordinata”, edificio di pietre vive intorno alla pietra scartata che è testata d’angolo, condivide l’azione di rendimento di grazie, nell’ascolto della parola e nella condivisione orante dell’unico pane e dell’unico calice. Questa liturgia è giustamente detta culmen e fons di tutta l’azione della Chiesa.

Gli equivoci e le opportunità

Se si chiarisce questa dinamica, e si scopre che cosa è in gioco quando si parla di “vita sacramentale”, si comprende la delicatezza del tema e la sua facile deformazione. Nelle cose più importanti della vita di fede la differenza tra verità ed errore resta sempre sottile come un capello (Barth). Dunque sarebbe molto grave se ci lasciassimo convincere dai nostri fratelli evangelici che la posizione cattolica si lascia ridurre ad “assolvere tutti i sacramenti”.  Ma la forza con cui possiamo “convincere” i nostri fratelli di diversa confessione passa inevitabilmente attraverso una accurata “conversione” da parte nostra. Per questo una serie di precisazioni possono essere qui aggiunte:

La liturgia non è solo fons, ma anche culmen. Come ho detto, la frase conclusiva del testo CEI ricorre ad una immagine del tutto legittima, assolutamente preziosa, ma di per sé unilaterale, perché dice una verità irrinunciabile, che però è e resta solo “mezza verità”: è giusto ricordare che il servizio nasce dalla fede, e che la fede è nutrita dalla vita sacramentale. Ma, per la Chiesa, è cosa vera e preziosa dire anche il contrario: ossia che la eucaristia presuppone la fede e che la fede nasce nell’incontro con Cristo, che si presenta nel prossimo sofferente.

Perciò la liturgia e l’eucaristia non è solo “fons”, ma anche “culmen” (SC 10). E, a conferma di ciò, quando SC introduce ai sacramenti afferma che “non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono” (SC 59).

Che cosa significa, alla luce di queste considerazioni, “libertà di culto”? Il culto cristiano è certamente “azione comune”. Non è “distribuzione di cose sacre”, non è “azione di uno cui altri assistono”, ma “azione comune”. Per questo le perplessità sulle “messe in pandemia” non derivano semplicemente da “decreti esterni” – che possono essere anche percepiti come lesivi della libertà ecclesiale – ma da “esigenze interne”, direi intrinseche al culto cristiano. Abitare con una “azione comune” una Chiesa non è la stessa cosa che “comprare sigarette in una tabaccheria”, “correre sul lungomare” o “fare la spesa al supermercato”. Nessuno di questi luoghi suppone una “azione comune”.

Non vi è soltanto un “impedimento esterno alla libertà di culto”, ma una difficoltà intrinseca a porre la “azione comune” di ascolto della parola e di condivisione del pane e del calice”. Sono azioni consentite solo “in famiglia”. Nella diffidenza non si dà azione comune. Parola e condivisione, per ora, passeranno solo dai luoghi della confidenza. Per godere a tutti i costi del “diritto al culto” rischiamo di contrarre il culto ad “atto individuale”. E rischiamo di farlo anche solo adottando, persino in Chiesa, questo linguaggio formale della “libertà di culto”, che è termine sacrosanto, ma vuoto.

“Chi mangia la mia carne e chi beve il mio sangue”: sono le parole che sono risuonate nel vangelo proclamato oggi. Questo atto non ha a che fare con una “cosa”. Entriamo nella dinamica sacramentale quando, facendo corpo nel raduno, lasciando la Parola al Signore, ripetendo con Lui la preghiera di benedizione e riconoscendolo nello spezzare il pane, diventiamo suo corpo e suo sangue.

È evidente che anche nella “vita sacramentale” il servizio e la fede non sono semplicemente “conseguenze”, ma sempre anche “cause”. Mangiare la sua carne e bere il suo sangue significa entrare, con la fede, nel suo santo servizio: lavare i piedi, curare i malati, ospitare gli stranieri, perdonare i peccati, alimentare la speranza, dire bene piuttosto che male, poter lodare, saper rendere grazie.

Proprio questo “mangiare” la carne e “bere” il sangue non è “accedere individualmente alla salvezza contenuta in una cosa sacra”, ma “compiere un gesto comune, spudoratamente familiare, che trasforma la identità in rapporto diretto con il Signore”. È interessante che la “manducatio”, il mangiare, sia rimasto sempre, nella tradizione, come atto inaggirabile. Anche la “comunione spirituale” non era affatto “rinuncia al mangiare”, ma passaggio al “mangiare in modo spirituale”. Cosa che, in certi casi, era ritenuta superiore al mangiare sacramentale.

Ascoltare insieme la parola e condividere insieme pane spezzato e calice condiviso, nella fede, realizza la Chiesa come discepolato di Cristo e servizio al Vangelo nei poveri e ai poveri nel Vangelo.

Una Chiesa può soffrire molto per la interruzione forzata della celebrazione della messa. Ma sa che il Signore si offre nel rito comune – per ora impossibile alla comunità – per essere nel cuore di ogni uomo e nella vita del mondo. Con la messa divenuta impossibile non ci è sottratto il Signore che alimenta la nostra fede e il nostro servizio, ma è sospeso il linguaggio più elementare e più potente per dirne l’azione nel mondo e nei cuori.

Quello più simile alla brezza leggera con cui Dio fa il suo ingresso nel mondo e nella storia, raddrizzando ciò che è storto e scaldando ciò che è gelido. La libertà di culto, la libertà di esercizio del culto cristiano, può trovare, in questo “vai e vieni” tra il servizio e la liturgia, attraverso la fede, i suoi ritmi, di volta in volta. E non sarà impossibile ritornare a celebrare senza troppi vincoli sanitari, se nel frattempo avremo alimentato la fede bagnando ciò che è arido e piegando ciò che è rigido. Perché la liturgia non solo nutre, ma anche è nutrita. Non solo genera, ma anche è generata. Perché il Signore sta alla porta e bussa non solo “sotto le specie”, ma anche al di qua delle specie e aldilà delle specie.


Eucaristia eccesso d’amore – Giordano Remondi

L’intervento di Andrea Grillo (cf. sopra), mi offre lo spunto per agganciarmi ad un aspetto della quasi ormai vexata quaestio di celebrare la Messa festiva riuscendo ad applicare anche solo qualcuna delle numerose restrizioni nei movimenti che viviamo dai primi di marzo in tutta Italia, seppur con regole diverse regione per regione.

Lasciando da parte il metodo del Comunicato Cei di domenica sera 26 aprile, che appena letto non capivo se ero stato svegliato da un incubo, entriamo invece nel merito di una questione aperta da due mesi e sulla quale nessuno può permettersi di dire una parola perentoria e conclusiva. E non occorre, per ora, convocare un Sinodo straordinario sulla celebrazione della Messa nel “giorno del Signore” – il leopardiano dì di festa nel cammino verso la piena comunione del Regno – per rispondere a domande nuove in una situazione apocalittica, che, dovremmo tutti saperlo, significa rivelare la speranza di ripartire dalle ceneri. Avremo tempo per pensarci!

Nel frattempo, mi ha consolato quest’ultimo blog dell’amico Andrea, il cui apporto in scienze liturgiche nel recente manuale di 445 pagine, pubblicato dalla Queriniana, è già significativo nel titolo e sottotitolo: Eucaristia. Azione rituale, forme storiche, essenza sistematica. Mi è possibile contribuire collegandomi alla parte del suo intervento dove medita sul vangelo del giorno (Gv 6,51-58). Mi permetto l’aggancio rifacendomi ad alcuni miei studi molto datati, ma che mi sono apparsi ancora validi dopo aver finito, prima della pandemia, di leggere il suddetto manuale.

Guardiamo allo svolgimento di ogni nostra Messa: dapprima c’è la chiamata ad entrare in relazione con il Signore che – secondo Giovanni, mandiamolo a memoria! – è già pane nutriente nell’ascolto del vangelo. Tale relazione è il requisito indispensabile per essere coinvolti dentro il dono totale del Signore, che riceviamo facendo nostra la Sua comunione, in modo da aver la forza di testimoniarlo nel cammino fino alla morte. Il suo “eccesso” di amore da non “sprecare”!

A prima vista non comprendiamo il motivo della differenza tra relazione-comunione e quella che noi siamo abituati a chiamare Rito della comunione. E allora qui si profila il peculiare apporto che ci viene offerto proprio dal brano di ieri, venerdì della Terza settimana di Pasqua (Gv 6,51-58). L’evangelista precisa che esiste un secondo modo voluto dal Signore per sostenerci: ci “invita” a fare comunione con Lui dentro un banchetto delle nozze dell’Agnello (sono ancora parole di Giovanni in Ap 19, ). Tradotto in pratica, ci dice che non è sufficiente essere in comunione ascoltando il vangelo e partecipando in piedi alla Preghiera eucaristica. Bisogna sedersi per festeggiare le nozze!

Le cose dovrebbero essere arcinote, ma, quando si leggono i brani così lunghi del Quarto Vangelo, ci sono sorprese. Cosa spinge Giovanni ad approfondire? C’è una domanda posta da interlocutori refrattari: «Come può darci costui la sua carne da mangiare?». Finora il testo in effetti aveva parlato soltanto di un pane dal cielo dato da mangiare (v. 31). Mancava il sangue. Il pane è Gesù in cui credere come dono venuto dal Padre per metterci in contatto con la vita eterna. Mentre nel brano di oggi Gesù dà vita al mondo nuovo donando se stesso: Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Ecco il passaggio dall’essere pane disceso dal cielo al dare la vita. Resta un po’ tra le righe il modo in cui Gesù dona se stesso per la vita del mondo. Questo modo è la morte di croce liberamente accettata, che diventa sorgente di eternità.

Allora, dall’approfondimento del vangelo di Giovanni, cambia qualcosa per noi nell’intendere la celebrazione eucaristica, tra l’altro convergendo sul vangelo di Emmaus di domenica scorsa dove, senza il riscaldamento del “muscolo del cuore” tramite l’ascolto, gli occhi non si aprono per fare comunione col crocifisso-risorto? L’invito del Signore si completa, per noi convocati ad un unico altare-mensa, ad assimilare il suo dono di sé. Così ogni credente che lo accoglie insieme con altri entra in una comunione più profonda, ogni volta che riceve il corpo e il sangue. Un corpo e sangue indissociabili non solo come rito istituito dal Signore, ma come verità di un ingresso nella sfera del dono di sé, al punto da venire consumati, dissanguati. A questo punto sarebbe meglio dire secondo il testo: più che essere noi a desiderare di fare la comunione, è la comunione divina che già dimora in noi a volerci coinvolgere.

Ma come attuarlo secondo verità nell’amore, se il rito festivo diventa impacciato nei movimenti da studiare come se fossimo a teatro, nel pieno rispetto di norme igieniche a cui saremmo obbligati? Meglio digiunare, tanto il Signore del Quarto vangelo ci assicura che ci nutre lo stesso. E allora se pensassimo ad una Liturgia della Parola, tanto per essere ecumenici sul suolo europeo «di dolore ostello»?


Appello: Celebrare in sicurezza

Lettera aperta alla cortese attenzione della Presidenza della Conferenza episcopale italiana, della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dopo la comunicazione del card. Bassetti.

2 maggio 2020

Da cittadine e cittadini di confessione cristiano-cattolica, confortati dalle parole del papa e dall’intervento del vescovo di Pinerolo (in data 28 aprile 2020), sopravvissuto a una gravissima forma di covid-19, desideriamo qui dare voce a quei credenti, laici e ministri ordinati, la cui prima preoccupazione è che la ripresa delle celebrazioni avvenga per tutti i culti solo quando possa essere garantito il rispetto di tutte le cautele necessarie a impedire il diffondersi della epidemia.

Considerando, nello specifico del culto cattolico, la natura della celebrazione eucaristica, i momenti di ingresso e uscita dalle chiese, la consacrazione del pane e la distribuzione della comunione, ci sembra che il rito della messa presenti delle criticità evidenti e non facilmente superabili, se non a prezzo di uno stravolgimento della simbolicità dei suoi gesti, che non sarebbe accettabile sotto il profilo liturgico e teologico e difficilmente sufficiente sotto il profilo sanitario, come affermato ripetutamente da vari esperti in campo medico.

Pertanto ci sembra opportuno raccomandare la massima prudenza e un rinvio della ripresa per quanto cautelata delle celebrazioni pubbliche, finché non sarà possibile ovunque una celebrazione libera da modalità snaturanti e rischi seri per la salute, come fanno presente parroci che, da persone impegnate in concreto nella cura pastorale, sanno quali siano i gravi rischi ai quali si esporrebbe la salute sia dei ministri sia dei fedeli, non pochi tra loro di età avanzata.

In fede,

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