L’impegno per la pace accomuna gran parte delle Chiese cristiane, fatta eccezione della Chiesa ortodossa russa e delle Chiese filo-russe. L’attività diplomatica più nota e discussa è quella della Santa Sede. Ma non meno attive si sono mostrate altre associazioni di Chiese come la KEK e il CEC.
La prima (Conferenza europea delle Chiese) è un’associazione ecumenica tra Chiese cristiane d’Europa fondata nel 1959 per promuovere la riconciliazione, il dialogo e l’amicizia tra le varie confessioni. Ne fanno parte la maggior parte delle principali Chiese europee protestanti, ortodosse, anglicane e vetero-cattoliche. Le Chiese rappresentate sono 113. Si troveranno in assemblea generale a Tallin (Estonia) il prossimo giugno.
Il Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC) è la più importante e vasta delle associazioni ecumeniche di Chiese a livello mondiale. Vi partecipano 352 Chiese (non quella cattolica) in rappresentanza di 500 milioni di fedeli. L’ultima assemblea generale è stata celebrata a Karlsruhe (Germania) nel settembre scorso.
KEK: percorsi di pace
L’aggressione russa all’Ucraina ha rappresentato per la grande maggioranza delle Chiese un vero e proprio shock spirituale e teologico. Per esse rimane incomprensibile che la Chiesa russa sia diventata strumento di guerra, abusando del suo patrimonio spirituale per sostenere gli interessi politici di Putin.
In una lettera a Cirillo il presidente della KEK, Christian Krieger, aveva scritto nei primi giorni di guerra, quando il patriarca non si era ancora esposto: «Sono scoraggiato dal suo silenzio sulla guerra che il suo paese ha dichiarato contro un altro paese, dove vivono milioni di cristiani, compresi cristiani ortodossi che appartengono al suo gregge».
Il 22 marzo, in un incontro a Vilnius (Lituania) di un gruppo di lavoro, il segretario generale, Jorgen Sorensen ha presentato il progetto “sentieri di pace” incentrato sull’Ucraina per promuovere la giustizia, la riconciliazione e la pace. È una proposta a tutte le Chiese per intessere legami con le comunità locali e con i responsabili istituzionali per promuovere la convivenza. L’iniziativa è rivolta in particolare ai giovani. Le priorità sono il cessate il fuoco immediato, una soluzione diplomatica attraverso il diritto internazionale, il rispetto dei confini, l’autodeterminazione dei popoli e il primato del dialogo sulla violenza.
In una successiva dichiarazione del consiglio direttivo si conferma l’indirizzo della KEK sulla guerra: «la religione non può essere usata come mezzo per giustificare questa guerra. Tutte le religioni, e noi come cristiani, siamo uniti nel condannare l’aggressione russa, i crimini che vengono commessi contro il popolo ucraino e la blasfemia che è l’uso improprio della religione».
CEC: dialogo fra Chiese divise
Assai più impegnativa la proposta del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC). Si prevede di organizzare, per il prossimo ottobre, una riunione a Ginevra di tutte le Chiese ortodosse interessate. Dapprima con le due Chiese ucraine (autocefala e non) e, in secondo luogo, con esse e la Chiesa ortodossa russa.
La proposta ha un precedente prezioso. In preparazione all’assemblea generale, le Chiese ortodosse avevano fatto una pre-assemblea a Cipro (maggio 2022) in cui tutte erano presenti (da Costantinopoli a Mosca, dall’Ucraina e dai vari patriarcati) e tutte hanno firmato una dichiarazione che si pronunciava contro la guerra. Compresa la Chiesa russa, allora rappresentata da Hilarion, presidente del dipartimento per i rapporti esteri del patriarcato. Quella firma e l’evidente titubanza del gerarca sull’“azione militare speciale” gli è costata il posto ed è stato collocato nella diocesi periferica di Budapest. Però la firma non è stata smentita.
La successiva partecipazione dei russi all’assemblea generale del CEC (Karlsruhe, Germania, settembre 2022) è stata messa alla prova dalla dura denuncia del presidente della Repubblica federale, Steinmeier: «I capi della Chiesa ortodossa stanno attualmente guidando i loro fedeli e la loro Chiesa in un cammino pericoloso e sostanzialmente blasfemo che va contro tutto ciò in cui credono».
I rappresentanti del patriarcato di Mosca non hanno abbandonato la riunione e si sono astenuti davanti a una mozione assembleare che denunciava la guerra come «illegale e ingiustificabile… incompatibile con la natura e la volontà di Dio per l’umanità e (contraria) ai nostri principi cristiani ed ecumenici fondamentali».
L’auspicato incontro fra le rappresentanze delle Chiese ucraine e della Chiesa russa non è avvenuto, ma non c’è stata rottura. Una delegazione del CEC, guidata dal segretario generale, Jerry Pillay – dopo aver sondato sia il Vaticano come il patriarcato di Costantinopoli – è andata in Ucraina dal 10 al 13 maggio Ha incontrato i rappresentanti delle due Chiese ortodosse locali e ha raccolto il loro consenso per la riunione prevista a Ginevra. «Sia il metropolita Antonio (in rappresentanza di Onufrio), sia il metropolita Epifanio, primate della Chiesa ortodossa ucraina (autocefala), hanno dato chiari segni di disponibilità al dialogo», annota il comunicato del CEC, e aggiunge: «le confessioni religiose sono chiamate a svolgere un ruolo importante nel sanare queste ferite, nel fermare questa guerra illegale e immorale, e nel promuovere una pace giusta per i popoli dell’Ucraina».
Un sospettoso consenso
La delegazione ha visto anche il Consiglio pan-ucraino delle Chiese e delle organizzazioni religiose del paese che ha testimoniato della contrapposizione fra le Chiese ortodosse, e ha preso posizioni dissonanti rispetto alla denuncia di una pretesa persecuzione contro la Chiesa ortodossa non autocefala (che fa riferimento al metropolita Onufrio). «L’armonia fra le comunità religiose dell’Ucraina è indispensabile per l’unità della nazione richiesta dall’attuale crisi. Il CEC intende lavorare con le Chiese e il governo per incoraggiare tale unità e per ridurre le divisioni e le discordie tra i fedeli».
Raccolto il consenso non scontato delle Chiese ucraine, la sfida maggiore era quella di convincere Mosca. «Abbiamo bisogno che la Chiesa russa – ha detto Pillay – prenda parte ai dialoghi con noi. Senza di essa nessuno scambio è possibile». Del resto, la Chiesa russa è la maggiore Chiesa rappresentata nel CEC.
Il 17 maggio, l’incontro con il patriarca Cirillo c’è stato, con un esito interlocutorio, ma sostanzialmente positivo. Un lungo comunicato del patriarcato ricostruisce l’incontro e dà nota di tutte le argomentazioni di Cirillo. Fra queste, colpisce la denuncia di responsabilità per Bartolomeo («Devo dire che siamo particolarmente sconvolti dalla partecipazione del patriarcato di Costantinopoli a questo conflitto») e l’accusa all’Occidente di non vedere la persecuzione contro la Chiesa ucraina non autocefala («Sfortunatamente la comunità internazionale tace»).
Pillay commenta: «È chiaro che le prospettive sul conflitto, le sue cause e il percorso verso una pace giusta rimangono fortemente polarizzate. Tuttavia, questo non fa che sottolineare l’importanza degli sforzi per creare spazi sicuri per il dialogo. Per il CEC questo deve iniziare con tentativi di superare la divisione intra-ortodossa che riflette l’attuale confronto geopolitico».
Santa Sede: profezia e realismo
Le proposte di pace della Santa Sede si collocano nell’orizzonte dei rapporti degli stati, con altra misura rispetto a KEK e CEC. Le numerose critiche verso la diplomazia vaticana da parte delle cancellerie rispecchiano la difficoltà di un approccio “visionario” e, allo stesso modo, realistico di un’istituzione come la Chiesa. Rispetto a questioni di legittimi interessi nazionali delle diplomazie, quella vaticana è “costretta” ad essere, nello stesso tempo, profetica e realistica, capace di innestare nei rapporti internazionali il paradosso del messaggio cristiano. Con una doppia sfida: teologica e storico-culturale.
Sul giudizio spirituale circa la guerra, il magistero di Francesco si colloca oltre la teoria della “guerra giusta” in una tendenziale rimozione della guerra nei rapporti fra i popoli (cf. Fratelli tutti n. 258). All’opposto, Cirillo di Mosca persegue una glorificazione dello scontro bellico di tipo fondamentalista, poco disponibile alla discussione sulla “giustizia” dello scontro.
La difficoltà di rendere chiara la posizione del papa in ordine alla guerra, per molti ucraini e per numerosi osservatori occidentali, non nasce da una distanza rispetto ai diritti dei popoli all’autonomia e alla difesa nazionale, quanto all’evidenza morale ed evangelica di un progressivo tramonto della legittimità della guerra che pur contrasta con i dati di fatto. Una sorta di anticipo di quello che “dovrà” essere in futuro (cf. qui su SettimanaNews).
Dal punto di vista culturale e storico-civile, il magistero del pontefice è estraneo alla parola che domina il nostro tempo, l’etnia. Essa rappresenta la via di fuga nel passato di molti impauriti dalle potenzialità, offerte ma non effettivamente esplorate, della globalizzazione, ormai trasformata in colonizzazione finanziaria. «Queste due visioni del mondo sono, allo stesso modo, in guerra con l’idea fondamentale di fratellanza portata ovunque da Francesco, unico simbolo “bianco” della pace in tutto il mondo; l’unico che continua a vedere le deformazioni sopraffattrici della globalizzazione reale, ma per correggerle e scongiurare il ritorno all’identitarismo etnico, chiuso, xenofobo» (R. Cristiano, La diplomazia di papa Francesco).
Due iniziative
In concreto, sono due le iniziative (fra quelle che si sanno) promosse dalla diplomazia pontificia: la proposta di una «nuova Helsinki», suggerita dal card. Pietro Parolin, Segretario di Stato, e l’avviato tentativo di mediazione fra Kiev e Mosca, affidato al card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna. La proposta di una «nuova Helsinki» è stata formulata da Parolin al convegno «L’Europa e la guerra. Dallo spirito di Helsinki alle prospettive di pace» (Roma, 13 dicembre 2022).
A distanza di quarant’anni dalla firma dell’Atto di Helsinki (1975) il cardinale ha detto:
«Anche se l’esperienza di Helsinki appare oggi irripetibile nelle sue caratteristiche e peculiarità, cerchiamo di recuperare lo “spirito di Helsinki”, torniamo a rileggere la dichiarazione sui principi che guidano le relazioni tra gli stati partecipanti che venne inserita nell’Atto finale, un decalogo che prevedeva: eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità; non ricorso alla minaccia o all’uso della forza; inviolabilità delle frontiere; integrità territoriale degli stati; risoluzione pacifica delle controversie; non intervento negli affari interni; rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, di coscienza e di religione o credo; eguaglianza dei diritti e autodeterminazione dei popoli; cooperazione fra gli stati; adempimento in buona fede degli obblighi di diritto internazionale».
Un’istanza riproposta ai vertici dei capi di stato del Consiglio d’Europa (Reykiavik, 17 maggio):
«Dove sono gli sforzi creativi per la pace? (…) Insieme a papa Francesco dovremmo chiedere, con l’Ucraina, come creare la pace. Non possiamo accettare passivamente che la guerra di aggressione continui in quel paese. È il popolo ucraino che sta morendo e soffrendo. È tempo di prendere iniziative per creare una pace giusta in Ucraina e in tutte le cosiddette zone “grigie” dell’Europa. Vi garantisco che la Santa Sede continuerà a fare la sua parte».
Più recentemente, dopo la visita di Zelenski a Roma, è diventata pubblica l’iniziativa di inviare un delegato pontificio per discutere la possibilità di arrivare a trattare una tregua nella guerra. Dopo una prima ipotesi di un doppio delegato a Kiev (mons. Matteo Zuppi) e a Mosca (mons. Claudio Guggerotti, prefetto del dicastero delle Chiese orientali), si è scelto di inviare per ambedue le capitali, il cardinale Zuppi con il compito di condurre la missione, in accordo con la Segreteria di Stato, per allentare le tensioni del conflitto, nell’auspicio di nuovi percorsi di pace.
Critiche pertinenti?
Come già notato, le critiche alla diplomazia vaticana si sono fatte molto insistenti.
Regina Elsner (Münster) ritiene l’approccio vaticano un po’ ingenuo, troppo poco consapevole della posizione incompatibile di Cirillo e dell’imperialismo russo. François Mabille (Parigi) crede che la «Santa Sede esca da 15 mesi di conflitto indebolita per l’attitudine del papa e resa fragile nelle sue risorse classiche».
Per Nona Mikhelidze (Istituto affari internazionali): «In Ucraina la guerra di oggi è percepita come una lotta anticoloniale per la sopravvivenza fisica contro l’invasore russo, per la libertà e l’Europa. È proprio a causa di questo contesto militare, politico e sociale che la diplomazia vaticana ha fallito ed è improbabile che abbia successo in futuro, se non nelle questioni relative ai temi umanitari legati alla guerra» (La Stampa, 17 maggio).
Per la teologa francese Anne-Marie Pelletier, «il Vaticano fa fatica a chiamare le cose con precisione e a mantenere una posizione chiara». Troppa disinvoltura nel parlare di conciliazione, nell’equiparare i due paesi, nel volere contestualmente visitare Mosca e Kiev (Le monde 20 maggio).
Cirillo arruola icone e reliquie
Nel frattempo, il patriarca Cirillo sembra aver bruciato i vascelli dietro di sé. Non solo offre una piena giustificazione religiosa alla violenta guerra di aggressione, ma annette alla sua giurisdizione le diocesi della Crimea e, più recentemente (16 maggio) la diocesi dei territori occupati di Berdyansk (nonostante le critiche della Chiesa non autocefala che dice di voler difendere).
Anche il patrimonio iconografico è messo a disposizione del consenso alla guerra. L’icona più prestigiosa della tradizione ortodossa (la Trinità di Andrej Rublëv) è stata tolta al museo per essere esposta nella cattedrale moscovita di Cristo Salvatore e poi, in via stabile, nella Chiesa della Trinità della lavra di San Sergio.
Le reliquie del martire san Giorgio, protettore dell’esercito, visiteranno 100 città e 89 regioni della Russia per chiedere «di rafforzare il nostro esercito, i nostri dirigenti e per dare coraggio al nostro popolo».
In questo sforzo di compattezza nazionale, Cirillo chiede il consenso anche ai musulmani. In un discorso in Tatarstan (20 maggio), davanti ai maggiori responsabili dell’islam russo e a personalità musulmane dell’Arabia Saudita, dell’Iran, del Kuwait, dell’Indonesia e dell’Egitto, ha ricordato la cooperazione crescente col mondo islamico da parte della Russia: «Ci stiamo avvicinando particolarmente, perché i nostri popoli professano valori morali e spirituali simili. Non condividiamo i comportamenti sociali e la moralità imposti dall’Occidente».
È una guerra di civiltà che sfida l’Occidente e, su questo, il patriarca chiede il consenso del mondo islamico.