Recuperare la figura di don Lorenzo Milani per cogliere le sfide della nuova generazione di preti è un’impresa abbastanza ardua per me, per un duplice motivo.
Il primo, legato a una non diretta esperienza personale della sua opera e della sua persona; il secondo, invece, legato al fatto che, essendo prete, devo trattare di un argomento in cui sono esistenzialmente immerso, e ciò non mi permette di oggettivare fino in fondo le sfide che mi/ci riguardano.
Credo, tuttavia, che qualcosa possa comunque essere detto, se non altro per evidenziare il contributo che don Milani può offrire ancora oggi alla nuova generazione di presbiteri.
Mi servo, a tale proposito, del messaggio che papa Francesco ha fatto pervenire ai partecipanti alla presentazione dell’opera omnia di don Milani alla fiera dell’editoria italiana (Milano, 19-23 aprile 2017), mettendo in luce tre espressioni del santo padre che, a mio avviso, possono aiutare a smascherare alcune odierne tentazioni per un giovane prete: “apertura alla realtà”, “inquietudine” e, infine, “consapevolezza del suo essere peccatore perdonato”.
Apertura alla realtà
In quel messaggio, Francesco recupera quanto aveva precedentemente affermato, rivolgendosi al mondo della scuola, facendo proprie le parole di don Milani: «Amo la scuola perché è sinonimo di apertura alla realtà».
Senza inoltrarmi nel valore della scuola come luogo di ricerca della verità e in cui la verità stessa si dona a chi è pronto ad accoglierla, vorrei evidenziare soltanto l’importanza della scuola come sinonimo di apertura alla realtà. «E noi – continua la citazione di don Milani – non abbiamo diritto ad avere paura della realtà!».
Una tale affermazione si presenta come un forte richiamo a porre l’attenzione al “dove” e al “come” dovrebbe essere indirizzato il proprio sguardo. Apertura alla realtà significa vivere l’esperienza cristiana totalmente proiettati verso l’esterno, anche se esso dovesse generare paura e confusione per la molteplicità di elementi (spesso in contraddizione tra loro) che lo costituiscono e caratterizzano.
Dall’impatto con questa molteplicità può nascere la tentazione di fuggire la realtà, ricorrendo a nostalgismi di forme non più esistenti, in nome di un’indispensabile e coerente conservazione di un’identità presumibilmente forte, come quella del passato.
Non fuggire di fronte alla realtà non significa rimanere all’interno di essa in modo acritico, ma porsi la domanda non più su “come conservarla”, ma su “come attualizzarla”. In entrambi gli atteggiamenti, il legame con l’origine è assicurato, eppure il modo di viverlo è diverso, diametralmente opposto.
D’altra parte, questa immersione nella realtà deve essere pienamente significata, altrimenti rischia di diventare un mero attivismo sociale. E questa è un’altra tentazione nella vita del prete: pensare che sia il frutto dello sforzo personale a generare un cambiamento radicale della realtà; ma in tal modo, questa nevrotica uscita da sé può diventare occasione per nascondere i movimenti della propria interiorità. Questa entrata nella realtà è anch’essa una via di fuga.
L’uscita, e cioè l’essere totalmente proiettati verso l’esterno, deve assumere un significato che vada ben oltre l’intento del voler portare il positivo dove ancora non c’è; al contrario: l’uscita deve avvenire perché, proprio uscendo, si raggiunge la presenza di Cristo. Il prete “esce”, non perché la realtà abbia bisogno della Chiesa, ma perché la Chiesa riconosce nella realtà, anche se miscredente, atea e anticlericale, il volto di quel Gesù che è stato crocefisso “fuori” delle mura di Gerusalemme. Quel “fuori”, per il cristiano, è il luogo d’incontro con il suo Signore.
Inquietudine
Il secondo termine è “inquietudine”, atteggiamento che animava il cuore di don Milani e che – spiega papa Francesco – «non era frutto di ribellione ma di amore e di tenerezza per i suoi ragazzi […]. La sua era un’inquietudine spirituale, alimentata dall’amore per Cristo, per il Vangelo, per la Chiesa, per la società e per la scuola».
La grande tentazione per un prete è proprio quella di adagiarsi su ciò che già possiede, sul già ottenuto. Avere il cuore inquieto significa continuare costantemente a cercare ciò che corrisponde al desiderio del proprio cuore, e non fermarsi senza averlo trovato. «Cari giovani – ha detto una volta il papa –, so che c’è qualcosa, nei vostri cuori, che vi agita e vi rende inquieti, perché un giovane che non è inquieto è un vecchio» (19 luglio 2016).
Una grande tentazione per il presbitero non è tanto lo smettere di cercare a causa della fatica, quanto l’accontentarsi di meno di ciò che desidera (adeguando in questo modo il desiderio ai bisogni quotidiani). Questo accontentarsi è il vero peccato, che poi si manifesta nella vita di ciascuno in tante forme differenti, ma è principalmente un problema di cuore: proprio perché si decide di rinunciare al proprio desiderio.
La vera inquietudine non porta a un atteggiamento di astrazione dalla realtà, anzi, porta ad avere compassione verso i propri primi interlocutori (nel caso di don Milani, i suoi ragazzi), proprio perché le relazioni sono concrete; e, attraverso di esse, si dà voce al movimento della propria interiorità e della propria affettività. Rivolgendosi ai confratelli gesuiti, il papa una volta ha affermato perentoriamente: «È l’inquietudine che ci prepara a ricevere il dono della fecondità apostolica. Senza inquietudine siamo sterili».
Peccatori perdonati
L’ultima espressione ripresa dal messaggio di Francesco è quella in cui si riferisce a don Milani come a un uomo che non ha mai cessato di cercare, «nella consapevolezza del suo essere peccatore perdonato».
Si tratta di due differenti consapevolezze unite tra loro: consapevolezza di essere peccatore e consapevolezza di essere stato perdonato. Se l’importanza della realtà e l’inquietudine del cuore rivolgono la loro attenzione soprattutto sul “dove” guardare, queste ultime due consapevolezze unite puntano sul “modo” di guardare. La verità delle cose, infatti, appare in modo radicalmente diverso quando l’occhio di chi la cerca è consapevole di essere un peccatore perdonato.
L’affermazione della verità, quando diventa il primo e l’unico criterio di giudizio sull’uomo, può trasformarsi in una terribile tentazione: la verità infatti, se è veramente se stessa, si fa strada da sola e cammina affianco dell’uomo.
Un prete che ha veramente fatto esperienza del perdono del proprio peccato, di fronte a un penitente riesce a leggere la realtà confessata alla luce di quell’esperienza di perdono (e, dunque, di liberazione) che egli stesso aveva già fatto.
Il prete che vive nella luce di tale consapevolezza esistenziale, nella confessione del peccato altrui riconosce il proprio e, in questo modo, riesce ad avere uno sguardo trasfigurante anche sul negativo confessato dall’altro. In questo modo – osiamo dire – il penitente restituisce il confessore a se stesso, o ancora: il confessore, nel penitente, ritrova un altro se stesso.
Nel cuore di ogni prete
Tanto si potrebbe aggiungere su quanto don Milani abbia da dire ai giovani preti di oggi. Una cosa è certa: ciò che ha fatto questo prete di frontiera non può essere ripetuto acriticamente nell’oggi, ma il metodo educativo da lui lasciato non passa.
Le diverse tentazioni messe qui in luce non sono tendenze sociologiche all’interno della Chiesa che possono colpire qualcuno o un gruppo, ma sono provocazioni che nascono e si annidano nel cuore di ogni prete.
Queste tentazioni, tuttavia, pur inducendo nel peccato, sono sempre occasioni per porsi nuovamente all’interno della realtà, con tutta l’inquietudine del proprio cuore e con quello sguardo riconciliato, tipico di chi ha fatto esperienza di essere stato perdonato.