Non si dorme in chiesa, tantomeno durante la predica! L’imperativo sarebbe la forma verbale giusta del sermone «sul dormire in chiesa» che Jonathan Swift (1667-1745) ha dettato nella sua funzione di pastore anglicano e decano della cattedrale di St Patrick a Dublino nel 1776. Più noto come autore de I viaggi di Gulliver, Swift ha anticipato e sviluppato una delle accuse più correnti circa la predicazione ecclesiale: quella di far dormire e di non interessare. Il testo è stata riedito dalle Edizioni dehoniane di Bologna, con una introduzione di Adriano Zanacchi, e si incrocia con una rinnovata attenzione all’omiletica, grazie anche all’ampio sviluppo che essa ha nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium di papa Francesco.
«Aspetto che si sveglino» avrebbe risposto un bolso predicatore a quanti lo sollecitavano a chiudere una predica interminabile. «È il mio giudizio sulla sua predica»: sono le parole di un fedele rimproverato dal parroco per essersi addormentato durante il rito. Sono pressoché innumerevoli le arguzie e le facezie in ordine alla predicazione, ben al di là dei limiti confessionali e del diverso ruolo che l’omelia-predica (cattolica) o il sermone (anglicano e protestante) rivestono nella liturgia domenicale.
Il testo raccoglie le critiche più comuni alle prediche, mostra i danni del disprezzo della predicazione e ipotizza alcuni rimedi. Ecco la tesi di fondo: «Esiste, indubbiamente, un fatale inconveniente al quale è soggetta ogni forma di predicazione: quanti ne avrebbero maggior bisogno per la loro vita peccaminosa, generalmente ne approfittano meno degli altri, o perché non vengono in chiesa – per pigrizia o per noia o per odio verso la religione – oppure per rifarsi, sonnecchiando, dagli eccessi della settimana».
Pur nella sua brevità il discorso accenna a temi rilevanti e centrali. Come la dimensione dell’ascolto che connota bel al di là della fatto fisico l’identità del credente o la dimensione comunitaria a cui ogni parola liturgica è rivolta. Non mancano i cenni alla difficoltà e ai limiti del predicatore, come anche alla centralità della conversione nel cammino del discepolato cristiano. L’intero testo respira di un contesto storico-civile che è ancora connotato dalla «civiltà cristiana», pur nelle differenze confessionali.
Vi sono molti altri aspetti evocati dalla introduzione di Adriano Zanacchi. L’omelia è un atto composito e complesso. Anche una considerazione su un singolo aspetto ne fa vedere molti altri. Ne indico alcuni. Il gesto omiletico è parte della celebrazione sacramentale e ad essa è finalizzato. Da lì riceve il suo rilievo rispetto a qualsiasi altra comunicazione anche spirituale. L’insistenza con cui la riforma conciliare richiama il presbitero al commento della Scrittura si fonda su questo. La Bibbia, la storia e la comunità determinano il contesto in cui l’omileta è chiamato a operare. Papa Francesco invita alla contemplazione, non solo della Parola e del sacramento, ma anche del popolo di Dio. Si parla dentro la parola biblica, dentro l’azione di Dio, dentro l’alleanza e l’empatia fra predicatore e assemblea, dentro la situazione storico-civile in cui si celebra. La retorica, l’invenzione linguistica, il livello comunicativo si intreccia nel circuito che dal predicatore va all’assemblea e viceversa. Infatti, anche se formalmente la comunicazione è unidimensionale, in realtà molti sono i segnali di risposta da parte dei presenti. Molto è stato scritto sulla preparazione (lunga, media e immediata) dell’omelia, meno sulla verifica e le pratiche conseguenti.
Il contenuto dell’evento comunicativo o meglio il suo principale attore è il Signore Gesù. Solo parlando di Lui e lasciando parlare Lui, il momento omiletico diventa esperienza spirituale per l’assemblea e tutti i soggetti che la compongono (presbiteri, ministri ministranti, lettori e assemblea) si unificano nel soggetto Gesù.