È ora di parlare dei ministeri senza paura

di:
Andrés Torres Queiruga

Andrés Torres Queiruga, teologo spagnolo, durante la Settimana di teologia cattolica (UNICAP 6 ottobre 2011)

L’intervista di p. Sesboüé è straordinariamente ricca e unisce lucidità teologica e coraggio pastorale. Sono d’accordo con le sue valutazioni. Riflettendo sull’intervista, mi sono venute alcune idee, che partono dalla distinzione tra il teologico e il pastorale, perché mi pare che la situazione di oggi richieda due fuochi principali di attenzione e attuazione.

Questione teologica

Il primo sarebbe direttamente teologico: prendere chiara posizione e fare una specie di campagna di presa di coscienza ecclesiale della situazione attuale circa le questioni riguardanti celibato e sacerdozio femminile.

Circa il celibato, si è già detto in mille maniere che è una questione di prudenza pastorale e che teologicamente non si può mantenere questa unione che nella pratica si è stabilita, dando l’impressione di essere indissolubile.

Riguardo al sacerdozio femminile, credo che sia arrivata l’ora – dopo una sorta di eclisse provocata dalla posizione inflessibile dei due papi precedenti – di affermare con chiarezza e senza ambiguità la stessa cosa: teologicamente manca di fondamento serio un tale divieto, perché non esistono motivi di indole dogmatica addirittura contro la mentalità e la prassi del Nuovo Testamento. Obbedisce semplicemente ad un condizionamento culturale, che si è voluto sacralizzare con una teologia che si oppone alla storicità nell’interpretazione della fede e che, a volte, ricorre ad argomenti che oggi sono di grave danno alla credibilità del carattere seriamente “scientifico” della teologia nel dialogo culturale.

Questione pastorale

Distinta è la “questione pastorale”, che evidentemente non può correre tanto come la teologia. Però richiede coraggio – «Troppa prudenza rischia di essere la peggiore delle imprudenze » (Sesboüé) – e fare passi reali.

Riguardo al celibato, lo ha detto bene Sesboüé, occorre insistere su ciò che potrebbe ampliare la possibilità delle «eccezioni di gruppi», non puramente individuali, come giustamente osserva Lafont: situazioni ampie di missioni senza sacerdoti, anche nei paesi occidentali che si trovano senza sacerdoti. Bisognerebbe pensare anche a sacerdoti secolarizzati unicamente a motivo del celibato, che però vorrebbero tornare all’esercizio sacerdotale; per evitare equivoci, bisognerebbe porre un limite temporale. Per esempio, che si trovino da dieci anni in questa situazione. Il tema dei “viri probati”, in circostanze speciali che lo rendano specialmente auspicabile e normale nelle comunità, merita di essere sostenuto il più possibile.

Riguardo al sacerdozio femminile, occorre pensare a qualche cosa di simile per ampie zone di missione senza sacerdoti e in situazioni nelle quali esse esercitano di fatto il loro “sacerdozio” battesimale. Sarebbe possibile pensare di riprendere in qualche modo la tradizione di certe abbadesse in comunità monastiche: regolare l’ordinazione di religiose perché le comunità non continuino ad essere prive di sacerdoti per le loro celebrazioni o siano assistite da alcuni sacerdoti in condizioni precarie di servizio e accompagnamento pastorale.

In ogni caso, converrebbe favorire senza paura una trattazione aperta di questi temi cosicché si possano raccogliere suggerimenti e proposte da tutta la comunità ecclesiale.

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Un commento

  1. Mario 18 gennaio 2024

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