Thomas Reese, in un accorato intervento postato ieri da RNS, ha messo in risalto il rischio di bruciare l’imminente enciclica di papa Francesco sul tema della fratellanza a motivo della traduzione (inglese) del titolo – quantomeno quello finora annunciato: Fratelli tutti… A suo avviso, e non senza pertinenza, un titolo non inclusivo, al solo maschile, presterebbe il fianco a critiche mediatiche in quanto «sessista». Siccome oggi l’opinione pubblica, anche e soprattutto nella Chiesa, si forma sulle risonanze mediatiche, il Vaticano dovrebbe fare attenzione a non alimentare questo gioco perverso della comunicazione. Scegliendo, almeno per le lingue più sensibili al tema dell’inclusività grammaticale e lessicale (tipo inglese e tedesco), un titolo che eviti fin dall’inizio questa trappola.
Per l’inglese, suggerisce un titolo ufficiale del tipo Brothers and Sisters all. L’osservazione critica di Reese coglie sicuramente una disattenzione romana agli effetti linguistici e culturali dei documenti vaticani. Sembra che, una volta che la cosa sia chiara in italiano, il problema allora non sussista quasi del tutto. Senza tenere conto che il personale ecclesiastico che maneggia bene la lingua nostrana è sempre di meno, e sempre meno distribuito a livello globale. Una maggiore attenzione in merito è doverosa.
D’altro lato, un po’ di sana resistenza alla colonizzazione linguistica dell’inglese (americano) mi sembra essere cosa salutare. Pretendere che tutto debba essere adeguato alla propria mentalità e sensibilità, affinché possa avere una validità anche per il resto del mondo, è gesto sostanzialmente dispotico.
Probabilmente la questione, nel suo nocciolo duro, è un’altra. Finito il tempo del latino come lingua franca ecclesiastica, ogni documento vaticano a profilo universale deve accettare una sua relativizzazione linguistica e culturale. Termini che nell’Occidente sono immediatamente intellegibili e non ambigui, possono suonare oscuri e ambivalenti nelle culture asiatiche o africane. In questa condizione, la mediazione delle Chiese locali diventa decisiva – e a essa si dovrebbe ricorrere, quando possibile, fin dalle prime fasi e non solo a giochi fatti.
Se la Curia Romana imparasse a non pensarsi più come il centro onnisciente della auto-coscienza ecclesiale, ma apprendesse a essere lo snodo che intreccia armonicamente le diverse istanze del cattolicesimo incarnato nella realtà di una moltitudine di Chiese locali, allora se ne potrebbe riscoprire davvero la funzione a servizio della cattolicità della fede. La materia stessa dell’enciclica oramai imminente lo esige, ben prima di ogni formale riforma della Curia – che la Chiesa cattolica attende con altrettanta urgenza.
Probabilmente è troppo tardi per mettere mano alla dovuta concertazione previa, si spera che le istanze vaticane abbiano l’intelligenza di lasciare spazio a quella a posteriori. In ogni caso, come giustamente dice Reese, non possiamo permetterci l’autogoal di buttare al vento questa enciclica per delle inutili rigidità di traduzione del titolo. Tempo per accordarlo alla realtà locale delle varie lingue ce ne è ancora abbastanza. Vedremo se ce ne sarà anche la volontà.