Lo snervante dibattito interno alla Chiesa cattolica continua ad andare avanti secondo il modello che avevamo imparato a conoscere prima dell’elezione di Francesco a vescovo di Roma. Con qualche piccola differenza. Si è aggiunto un coro di scontenti perpetui, che rivolgono la loro critica a Francesco per la lentezza con cui procede a quelle che loro ritengono essere vere e proprie riforme strutturali dell’istituzione ecclesiale. Il più delle volte pensandole come una semplice inversione di segno di quanto deciso e successo sotto Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. A parte questo, continuano però a immaginare a una Chiesa guidata a colpi di potere che viene dall’alto; che si codifica in leggi, decreti, direttive immediatamente vincolanti. Detta in maniera un po’ semplicistica: la Chiesa come piace a noi, solo che Francesco non sembra più di tanto incline a concedere questo tipo di riforma. Dall’altra parte si smaschera tutta la post-modernità di quel ceto conservatore che ha proliferato e incassato dividendi a partire dagli anni ’80 del XX secolo. Per più di un trentennio hanno giocato la partita della fedeltà al papa e alle sue direttive magisteriali come segno sicuro della loro giusta adesione alla grande tradizione della Chiesa. Ma ora che il papa in carica non è di loro gusto, non asseconda la loro visione del cattolicesimo, di quella fedeltà non c’è più alcuna traccia. Segno, questo sì certo, che ben altre erano le loro intenzioni. Un po’ tutti immaturi, come quei bambini di evangelica memoria che se ne vanno tignosi non appena il gioco non gli piace più.
Con questo materiale umano sparso un po’ ovunque nella Chiesa è davvero difficile immaginarsi una riforma dell’istituzione e una evangelica fedeltà alla tradizione. Forse il problema non è il generale, ma i soldati. Ma si sa che i gesuiti sono educati ad andare avanti con sparute truppe a disposizione; e se l’obbedienza della fede lo richiede anche da soli. Senza lamentarsi, senza perdere la serenità dell’animo. Non si fa una riforma della Chiesa senza il tempo lungo del discernimento; e, soprattutto, non la si fa in solitaria o con un gruppo di discepoli che sono lì solo per coltivare i loro personalissimi interessi. Eppure, in questa situazione di stallo legata alla qualità evangelica del personale a disposizione, qualcosa è cambiato in questi anni – qualcosa di importante.
La cosa più importante riguarda Francesco stesso e la posizione vicaria che ha assunto con decisione. Ha messo fine a una sacra intangibilità della persona del papa, che finiva per spostare il peso del conflitto interno alla Chiesa cattolica sugli organi di curia e su tutti noi. Il veleno che circolava surrettiziamente nel corpo quotidiano della comunità cristiana, su tutti i lati degli schieramenti, si è come dissolto avendo trovato un altro oggetto su cui scaricarsi. Senza alterarsi, Francesco ha fatto in modo che la conflittualità che spaccava la Chiesa potesse riversarsi liberamente su di lui, trovando nella sua persona il punto di concentrazione di una divaricazione che minacciava di distruggere dall’interno il corpo della Chiesa. Questa presa in carica del peso del conflitto non è il gesto di un animo buono e pio, ma è il gesto di un vero e proprio capo. A cui non interessa la vicenda della propria persona, ma il destino della comunità che è chiamato a presiedere.
Un secondo cambiamento è la creazione di uno spazio per una vera e propria opinione pubblica nella Chiesa cattolica; qualcosa che neanche il Vaticano II riuscì a produrre in forma compiuta. Oggi tutti possono dire apertamente come la pensano, senza timore di urtare la suscettibilità del capo e di doverne pagare le conseguenze. La fine di un ministero petrino vendicativo o di consorzio di interessi rende possibile la circolazione delle parole nella Chiesa. Non s’indegna neanche quando queste sfiorano il cattivo gusto o la mancanza di rispetto. Un teologo tedesco può tranquillamente dire che con Amoris lætita il papa è ridicolo e continuare a fare il suo mestiere indisturbato. Solo qualche anno fa una critica ponderata e rispettosa della concezione della politica da parte di Ratzinger diventava materia per una notificazione da parte della Congregazione della dottrina della fede. È un bene per tutti che quella stagione sia finita, almeno per il momento. Lo stile stesso delle due sedute del Sinodo sulla famiglia ha costretto i vescovi a un esercizio nell’espressione pubblica delle loro persuasioni, tagliando netto il filo dei giochi di potere sottobanco. Mostrando anche quanto siamo poco abituati e capaci di portare la conflittualità, di immaginare posizioni diverse su temi importanti come una risorsa e non come una minaccia. La Chiesa ha conosciuto le sue stagioni migliori quando ha potuto discutere, anche aspramente, per il tempo dovuto su ciò che decide del Vangelo nella vita del mondo. Nella tradizione l’autorità del magistero giungeva a chiusura di quel dibattito, senza mai sognarsi di troncarlo sul nascere; perché sapeva che di esso, e dei suoi eventuali errori, aveva bisogno nella sua ricerca della verità storica di Dio. È solo a partire dal XIX secolo che il magistero cambia natura, diventando preventivo e, quindi, impedendo una sana circolazione delle parole e delle idee.
Con la nascita di un’opinione pubblica nella Chiesa, legittimata e riconosciuta da Francesco stesso, si mette fine anche a questa distorsione dello stesso magistero della Chiesa. Non esercitandosi più in forma preventiva e censoria, perde il carattere punitivo come sua caratterizzazione maggiore. Così si amplia il suo respiro, divenendo spazio accogliente per i molti cattolicesimi di cui è fatta concretamente la Chiesa. E, a mio avviso, questa è una profonda riforma strutturale della Chiesa stessa; di cui nessuno sembra essersene accorto, sebbene tutti ne godano i favori. Da ultimo, Francesco è riuscito a mettere nel cassetto l’annosa controversia sull’ermeneutica del Vaticano II. Quello di cui il Concilio stesso aveva bisogno per essere restituito a se stesso e alla sua giusta collocazione nella vita della Chiesa. Senza volerlo, il Vaticano II ci ha tenuto fermi tutti a cinquant’anni fa, così che pian piano abbiamo perso la nostra presa diretta con la vita della fede e del mondo che si è velocemente trasformata in questo breve arco di tempo (dal punto di vista storico, ma non di quello dei vissuti). Per mezzo secolo abbiamo continuato a volgerci indietro, senza mettere mano all’aratro. Ora non abbiamo più scuse per farlo e di questo siamo tutti responsabili nella multiforme comunità dei discepoli e delle discepole del Signore. Sarà bene metterci al lavoro, c’è spazio per tutti nella sua vigna.
Caro direttore,
entro nel merito della problematica sull’opinone pubblica nella Chiesa sollevata dall’intervento di Marcello Neri su Settimananews.
Riassumo il mio punto di vista con una battuta: non basta un papa per fare opinione pubblica. Il papa dice che il dibattito deve essere libero (vedi Sinodo 2014)? Benissimo anzi eccezionale. Ma non basta per avere opinione pubblica. L’opinione pubblica nella Chiesa non c’è mai stata finora. E si costruisce con il tempo e secondo un progetto specifico al quale dedicare risorse ed energie. Possiamo fare a noi stessi delle semplici domande: chi non fosse d’accordo con un’impostazione, quali luoghi ha per dibattere? E chi ha titolo per rispondere? E sulle riforme in corso in Curia, ad esempio, all’interno del mondo cattolico in che modo se ne discute? Se ne parla molto di più sui media laici o laicisti che non sui media cattolici. Ed è tutto dire…
Un esempio di natura diversa che ci dice quanto il tema sia importante e difficile. È cominciato in queste settimane il dibattito sul rinnovo della convenzione della Rai e ci sono riunioni con esponenti della “società civile”. Bello, interessante, utile pure. Ma gli utenti che pagano chi li consulta? E le associazioni dei consumatori? Beh, la risposta è semplice: nessuno.
La Chiesa è una realtà molto più complessa. Ed un dibattito autentico sarebbe importantissimo. Chi è capace di metterlo in atto? Organizzarlo? Gestirlo? Concluderlo? Ci vorrebbe una vera conduzione. A mio avviso non c’è, non ancora almeno.
Con viva cordialità,
Fabrizio Mastrofini