Soprattutto quando sono sincere, ben intenzionate e cariche di passione, le parole rivelano modi di essere profondi, abiti mentali consolidati, visioni e prospettive delle cose. Profondamente sincere e accorate sono state le parole del presidente della CEI, card. G. Bassetti, nel videomessaggio inviato alla Chiesa italiana in vista della ripresa delle celebrazioni pubbliche delle messe prevista per il 18 maggio.
Parole sincere che rivelano una Conferenza episcopale incapace di voler altrettanto sinceramente integrare tutta l’esperienza cristiana accumulata nel lungo periodo di lockdown all’interno delle forme abituali di vita della Chiesa in quanto istituzione della nostra fede comune.
La ripresa della celebrazione con (una parte) del popolo di Dio viene a tal punto enfatizzata da far risultare quasi irrilevante la fede che non ha mai smesso di essere celebrata in questi mesi. La fraternità ecclesiale dei credenti non ha mai smesso di manifestarsi, di farsi presente alla vita, di intercettare vissuti, di far circolare affetti che sostengono e pane che nutre. Ma tutto questo scompare e viene misconosciuto davanti a una ripresa delle messe che rimarrà comunque problematica, parziale, monca, rispetto al senso simbolico della stessa celebrazione eucaristica.
Ecco che come per magia la messa significa «ritornare a manifestare il nostro essere comunità, il nostro essere famiglia». Appunto, come se per mesi la comunità cristiana non si fosse manifestata, non avesse annunciato il Vangelo, non si fosse resa visibilmente prossima ai vissuti umani.
Francesco ha sacramentalizzato e dato spessore profondamente spirituale ed ecclesiale alle pratiche di vita umana di questi mesi – chiamandole le «nostre unzioni quotidiane», mettendosi dentro anche lui quindi; ci ha assicurato che esse non saranno vane per la vita del mondo e della Chiesa che verrà.
Ben altro il registro del linguaggio ecclesiastico italiano fatto di sofferenza e rispetto di regole esterne, che sì «non è privo di significato» ma sembra non avere valore per la forma cristiana del vivere e del celebrare.
La grande Chiesa annuncia, quasi trionfalmente, il suo tornare in possesso della celebrazione eucaristica e dichiara la fine del sacerdozio domestico di quella chiesa minore che è il popolo dei credenti in Dio, che ha manifestato a tutti il nerbo non clericale della fede e della comunità cristiana – perché, così il presidente della CEI, «adesso è il momento di tornare nella grande famiglia di Dio».
Come se non lo fossimo stati, anche senza celebrazione eucaristica. Parole che, per enfatizzare un momento, certo essenziale, dell’essere comunità dei discepoli e delle discepole del Signore, contraddicono quello che costoro hanno vissuto e fatto con il Signore in mancanza di quel momento. Tutti figli e figlie di una chiesa minore che sembra non trovare spazio nella riduzione eucaristica della grande Chiesa.
Indice questo di una Chiesa in estrema difficoltà nell’essere all’altezza delle pratiche quotidiane del credere e del vivere.