Che fine farà l’infallibilità di tutto il popolo di Dio? /2

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Sono del parere – e lo avevo sostenuto nel mio precedente contributo (cf. SettimanaNews, qui) – che, diversamente dalla prassi assolutista difesa e praticata nel post-concilio, le mediazioni democratiche e la separazione dei poteri sono molto più adatte a realizzare l’infallibilità di tutto il popolo di Dio, vale a dire quella dei battezzati e dei ministri, siano essi istituiti (ordinati e laicali) o riconosciuti dalle comunità cristiane.

Ci può essere chi legittimamente si domanda, ricordando quanto indicato nel precedente articolo, se non sto chiedendo l’impossibile. Pertanto, penso che non sia fuori luogo – una volta recuperato il fondamento della sinodalità co-decisa nell’“infallibilità di tutto il popolo di Dio” – chiedersi come potrebbe configurarsi un esercizio democratico dell’autorità, del magistero, del governo e dell’organizzazione della Chiesa, al di là delle tensioni e dei conflitti che una simile proposta può suscitare.

Tale questione – quella dei possibili problemi e perfino delle divisioni – non è, perlomeno adesso e in prima istanza, il problema di cui si ragiona in queste righe. Vorremmo approfondire – una volta recuperata la consistenza teologica di una sinodalità co-decisiva – la sua possibile realizzazione.

Pertanto, sarà per un’altra occasione e un altro tempo spiegare la saggezza e la prudenza necessarie affinché questa possibilità teologica e pastorale possa essere attuata con il minimo di tensioni. E, soprattutto, senza dimenticare l’importanza di tamponare le emorragie degli abbandoni di cui, anche a causa di questo problema, soffre da tempo la Chiesa cattolica, almeno nell’Europa occidentale.

L’«istituzione divina» della co-decisione

È vero che Gesù ha scelto un gruppo di apostoli e che lo Spirito concede i suoi carismi e doni a chi vuole, ma è anche vero che il modo di organizzare, di impartire il magistero e di governare la Chiesa non deve essere – tanto meno per «istituzione divina» – quello monarchico e assolutista. Visti i contributi del Vaticano II e del tempo che ci è dato di vivere, tali modi possono – e devono –essere realizzati nella corresponsabilità.

Di qui, come ho già proposto nel testo precedente, la necessità di recuperare – e aggiornare – il progetto di Costituzione ecclesiale o Legge fondamentale, non solo perché non si continui ad affossare i contributi più rilevanti del Vaticano II (e, con essi, le esperienze di corresponsabilità e di co-decisione), ma anche di precisare il ruolo dei ministri ordinati soprattutto quando governano e insegnano. Serve urgentemente una Legge fondamentale che, attenta alla mediazione democratica e alla separazione dei poteri, metta fine all’attuale sistema manifestamente monarchico e assolutista.

Di qui, l’urgenza di mettere in pratica le procedure democratiche come, ad esempio, si sta facendo nel «vincolante» Cammino sinodale tedesco, anche per il funzionamento delle corrispondenti istituzioni post-sinodali: il Comitato e il Consiglio sinodale.

Penso che valga la pena ricordare che la verità teologica e dogmatica della corresponsabilità – almeno nella Chiesa tedesca – si sia realizzata attraverso il dialogo tra battezzati e vescovi per terminare con una votazione. Essa prevede che quanto è stato proposto si consideri approvato quando si raggiunge la maggioranza qualificata di «due» terzi dei membri presenti, cioè la maggioranza dei due terzi dei membri della Conferenza episcopale tedesca presenti nell’aula sinodale (Statuti 11 e 2).

Lo stesso criterio verrà osservato nelle procedure del Comitato e del Consiglio sinodale e degli altri Consigli ecclesiali. È particolarmente interessante il procedimento “comunionale” da attivare quando il ministro ordinato (vescovo o presbitero nei loro rispettivi ambiti) ha difficoltà ad accogliere ciò che è stato approvato appellandosi alla propria responsabilità di mantenere l’unità della fede e della comunione ecclesiale nella diocesi o nella comunità cristiana loro affidata.

Ritengo che questo modo di procedere sia un esercizio di autorità rispettoso della dignità di tutti i battezzati («profeti, sacerdoti e re») e della responsabilità propria dei ministri ordinati, anch’essa “divinamente” fondata nella loro singolare sollecitudine per l’infallibilità di tutto il popolo di Dio.

Inoltre, penso che, ai nostri giorni, questa prassi risulti particolarmente adeguata, perché si fonda sia sull’infallibilità in credendo del popolo di Dio, sia sulla fedeltà alla missione evangelizzatrice della Chiesa.

Esiste anche la possibilità, sperimentata in alcune Chiese locali subito dopo la conclusione del Vaticano II, che i vescovi elaborino assieme ai battezzati le decisioni o i contenuti magisteriali che si ritengono necessari. Alcune di queste esperienze sono raccolte nel «libro corale» a cui ho fatto riferimento.Normalmente si dovrebbe votare dopo un dialogo aperto e ponderato, vale a dire dopo che tutti – vescovi, ministri ordinati e battezzati – hanno presentato i dati e gli argomenti ritenuti opportuni, sia per essere fedeli al Vangelo e alla «tradizione viva» della Chiesa, sia per essere fedeli ai cosiddetti «luoghi teologici» e alla missione evangelizzatrice.

Non è più accettabile che il vescovo o il ministro ordinato si limitino ad «ascoltare il popolo di Dio» ma che poi, al di fuori del quadro istituzionale stabilito per l’esercizio della corresponsabilità, prendano da soli la decisione che ritengono migliore. Tanto meno contro ciò che viene deciso a maggioranza qualificata.

Penso che sia passato il tempo di procedere in questo modo, cioè a lato o al di sopra degli organismi di comunione o dei diversi consigli.

In una Chiesa tutta infallibile in credendo, ciò che – dopo un opportuno dibattito – è approvato da una maggioranza qualificata deve essere accettato dal vescovo o dal ministro ordinato, a meno che quanto proposto o approvato non minacci gravemente l’unità della fede e della comunione ecclesiale.

Si tratta di una riserva decisiva che – responsabilmente – deve essere esplicitata e mostrata, con chiarezza e senza ambiguità, nel corso dello stesso dialogo e processo di discernimento. E che deve essere regolamentata nella Legge fondamentale della Chiesa, così come si sta facendo, ad esempio, nel Cammino sinodale tedesco che ha deciso di applicarla nel Comitato, nel Consiglio sinodale e negli altri Consigli ecclesiali.

Quando la comunità cristiana procede in questo modo o in maniera simile, attua ciò che si intende per leadership, magistero e sinodalità corresponsabile. Se si facesse così, penso che potremmo parlare della fine del modello monarchico di governo e di magistero a favore di quello conciliare, chiaramente collegiale, corresponsabile e co-decisivo.

La “conversione” del papato

E ciò che vale per i vescovi e i ministri ordinati in genere, vale altrettanto per il vescovo di Roma, così come indicato nel Vaticano II: spetta a lui assegnare i compiti; intervenire, «in ultima istanza» (ultimatim) nel governo ordinario delle Chiese locali «in vista del bene comune» (LG 27) e, in modo particolare, vegliare sull’unità della fede e sulla comunione ecclesiale di tutta la cattolicità. Sono compiti che devono essere svolti nella fedeltà a una Chiesa che si autocomprende come cattolica, perché è «comunione di comunità locali»; quindi non uniforme, ma diversificata. Si tratta di due importanti contributi del Concilio Vaticano II che dovrebbero essere anch’essi necessariamente raccolti nel progetto di Costituzione ecclesiale o Legge Fondamentale.

Ciò significa che un papato “convertito” non interviene – né può – intervenire nella pastorale e nel governo quotidiano di tutte le diocesi. Basta – ed è sufficiente – che assegni i compiti e sia “l’ultima istanza” di appello, sia per i vescovi, sia per i religiosi, sia per i battezzati. Non è, né può essere – per quanto possa dispiacere a chi coltiva una concezione uniforme dell’unità – il vescovo del mondo. Basta – ed è sufficiente – che lo sia della Chiesa di Roma e che «presieda nella carità» il collegio dei successori degli apostoli.

Al giorno d’oggi non è più possibile che quasi 1,4 miliardi di cattolici camminino insieme e alla stessa velocità in tutte le questioni e nello stesso modo. E ancor meno, quando le differenze – non solo culturali – tra le Chiese locali sono tante e, a volte, molto acute.

Come nel dialogo ecumenico si sta facendo strada il concetto di unità come “diversità riconciliata”, così è determinante che tale concezione dell’unità faccia parte di un modello organizzativo di «comunione di Chiese diverse» e, allo stesso tempo, articolate o unite dalla stessa fede, espressa in un medesimo credo condiviso da tutti.

Urge quindi ripensare e “convertire” – come ho indicato, riferendomi a un’espressione di papa Francesco – il modello attuale del papato. E si deve farlo, accogliendo ciò che è stato proclamato nel Concilio Vaticano I, però nel canale fecondo della collegialità episcopale e dell’infallibilità di tutto il popolo di Dio affermate dal Vaticano II. Un papato “convertito” non rivendica, come è stato fatto dal 1870, la pienezza della potestà giuridica su tutta la Chiesa, ma si ispira al detto di sant’Agostino: «in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas (unità nelle cose necessarie, libertà in quelle dubbie, carità in tutte»).

Perché questa “conversione” del papato sia fattibile, è necessario che il successore di Pietro si liberi della polvere assolutista e monarchica in cui è avvolto e da cui continua ad essere coperto e che con tanta passione è stata difesa nel post-concilio. E che favorisca la realizzazione di mediazioni o di strumenti che – abbandonando gli accenti autoritari o monarchici – ci permettano di   vedere quel modello di governo della Chiesa, collegiale e corresponsabile, approvato nel Vaticano II dalla maggioranza conciliare e ratificato da Paolo VI.

Naturalmente bisognerebbe riprendere la Legge fondamentale della Chiesa, rinviata sine die da Giovanni Paolo II. O, se si preferisce, usando un’espressione molto cara a papa Francesco, “aprendo” un processo che permetta di arrivare quanto prima all’elaborazione e all’approvazione di una Legge fondamentale, in sintonia con la collegialità e con la corresponsabilità approvate nel Vaticano II, come anche con la co-decisione che esse comportano.

Il principio di realtà

Non ci vuol molto a capire, vista l’accoglienza finora ricevuta del Vaticano II, come questa modalità di governo e di magistero, così come la sinodalità, non abbia interessato per niente o quasi un papato e una curia vaticana particolarmente impegnati a mantenere la forma unipersonale e assolutista e, quindi, preconciliare. Nel migliore dei casi, si concede un valore solo “consultivo” agli organismi ecclesiali, con l’intento di rafforzare il potere giurisdizionale e magisteriale del successore di Pietro su tutta la Chiesa.

Pertanto, non sorprende che quando sarà avviato questo nuovo e possibile modo di sinodalità corresponsabile e co-decisiva – fondato sull’infallibilità di tutto il popolo Dio – esso venga subito squalificato con l’accusa di attentare – al dire del Vaticano – al potere unipersonale del papa su tutta la Chiesa (lo stesso argomento usato per squalificare la collegialità episcopale co-decisiva nel post-concilio) o di violare la facoltà unipersonale-governativa e magisteriale che i vescovi hanno nelle rispettive diocesi. Altro che “vincolante” Cammino sinodale tedesco, con il suo Comitato e il Consiglio sinodale…

Né sorprende che quelle persone abbiano condannato le articolazioni del potere personale del presbitero da parte delle équipes ministeriali di laici e laiche in diversi ambiti pastorali e organizzativi, come avvenne all’epoca in cui la diocesi di Poitiers era presieduta da mons. Albert Rouet. Infine, non è fuori luogo ricordare la famosa dichiarazione interdicasteriale del 1997 sulla «collaborazione dei fedeli laici al sacro ministero dei presbiteri», in totale sintonia con l’ecclesiologia involutiva e preconciliare della Nota explicativa praevia (1964) di Paolo VI, con la dichiarazione Mysterium Ecclesiae (1973) e con l’istruzione De Synodis dioecesanis agenda (1997) di Giovanni Paolo II.

Ancora una volta, come si può vedere, le ombre di questi testi magisteriali continuano ad essere molto lunghe accanto a quella del sinodo straordinario dei vescovi del 1969 in cui Paolo VI riafferma – involutivamente rispetto a quanto approvato nel Concilio Vaticano II – la responsabilità e il potere unipersonale del papa nel governo ecclesiale. Procedendo in questo modo, egli ridefinisce i sinodi dei vescovi come istituzione “consultiva” (ed eccezionalmente deliberativa o co-decisiva) al servizio del potere di giurisdizione del papato su tutta la Chiesa.

Di conseguenza, si favorisce una recezione del potere unipersonale dei vescovi e dei presbiteri nei rispettivi ambiti di responsabilità pastorale. Nasce qui la radice «sistemica» del potere e dell’autorità denunciata dai Rapporti sulla pedofilia nella Chiesa condotti dall’Università di Zurigo (Svizzera), dal MHG (Germania) e dal CIASE (Francia).

Al di là di queste deplorevoli decisioni, è indiscutibile che l’infallibilità di tutto il popolo di Dio apra le porte ad un nuovo modello di leadership e di magistero corresponsabile che – integrando senza problemi il valore della collegialità episcopale – comporta l’attuazione di una sinodalità insieme battesimale e ministeriale, che, per il suo fondamento “infallibile” può – e deve – essere co-decisiva o deliberativa.

È evidente che questo nuovo modello di governo, di magistero e di sinodalità non è solo in attesa di essere accolto, ma – considerato il tempo trascorso dall’approvazione della verità teologica e dogmatica che lo fonda – richiede anche di essere recuperato dal silenzio cui è sommerso.

Che ne sarà dell’«infallibilità di tutto il popolo di Dio»?

Ritorno all’interrogativo che è all’origine di queste righe: riusciremo a vedere questa riflessione o una simile sui sinodi mondiali sulla sinodalità? Avremo la fortuna che queste proposte o altre simili vengano discusse? Non lo so.

A dire il vero, ho molti dubbi, ma, in ogni caso, questa dovrebbe essere una delle più importanti prospettive in base alla quale valutare il percorso sinodale, nonché le sue conclusioni e risoluzioni.

Confesso che non mi piacerebbe rimanere deluso, nonostante che la questione “sistemica” non abbia occupato il posto che avrebbe dovuto avere anche durante la preparazione sinodale e nonostante che il clamore delle vittime della pedofilia non ci sia stato rappresentato.

A volte i miracoli accadono, anche se non è razionalmente molto sensato tenerne conto.

Vedremo, quando finiranno questi due Sinodi mondiali, se si potrà dire che è avvenuto il miracolo di aver fatto irruzione con forza nell’aula sinodale e se ci saranno state proposte per attuare «l’infallibilità di tutto il popolo di Dio».

È la speranza che mi resta. Vorrei che non fosse una stolta illusione. Ecco perché, rimango, ancora una volta, in attesa, anche se qualcuno dirà che sono un ingenuo.

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Un commento

  1. Adelmo li Cauzi 28 ottobre 2023

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