Si scrive in Mongolia si pronuncia Cina. Il viaggio di papa Francesco, Jorge Bergoglio, che comincerà giovedì e porterà per la prima volta il capo della Chiesa cattolica a Ulan Bator è in realtà una tappa di un lungo pellegrinaggio verso Pechino.
Il card. Giorgio Marengo, che lì accoglierà Bergoglio, è un piemontese residente in Mongolia ma che, per molti anni, ha fatto la spola con Pechino. Dopo il Sud Corea, il Giappone, Myanmar, la tappa in Mongolia e quella più vicina al gigante asiatico. Ancora un secolo fa la Mongolia era infatti parte dell’impero cinese.
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Fino a pochi anni fa la destinazione cinese per il papa era guidata solo da un interesse storico e geografico.
Storico perché la Chiesa cattolica, e i gesuiti in particolare, dovevano saldare i conti con il fallimento antico della missione gesuita in Cina tra il XVI al XVIII secolo.
Geografico, perché la Cina, affamata di fede e privata delle sue credenze tradizionali dopo decenni di maoismo militante, è una sponda importante per approdare in Asia, patria del 60% della popolazione mondiale e del 50% della crescita economica.
In altri paesi dell’Asia, tranne le Filippine, gli spazi di crescita della Chiesa cattolica sono molto più ristretti e la presenza complessiva dei cattolici in Asia, escluse le Filippine, è intorno al 3-4% della popolazione totale.
Oggi però forse c’è anche una ragione politica per interessarsi di più alla Cina.
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Le tensioni crescenti di Pechino con gli Stati Uniti e con i paesi vicini rendono quest’area la più volatile del mondo. Le preoccupazioni esterne hanno riflessi interni. I controlli politici e di sicurezza all’interno della Cina sono aumentati, c’è un timore crescente di forze sovvertitrici esterne che possano entrare nel paese e fomentare disordini.
La Chiesa cattolica subisce le stesse restrizioni delle altre fedi e il processo di sinizzazione nella Chiesa cattolica è anche un processo politico, di consolidamento della lealtà politica del clero locale al potere di Pechino. Impossibile per la Chiesa «fare opposizione», ciò per mille motivi. Ma quanto più è grande la preoccupazione interna, tanto più Pechino ha bisogno di capire il mondo intorno.
In questo frangente quindi, la Chiesa cinese può contribuire nella comprensione più profonda della cultura occidentale e di una religione così importante in altre parti del mondo.
È importante, fondamentale, per la Chiesa, respirare con due polmoni, quello interno e quello esterno, come ha detto il papa in altre occasioni. Ma la Cina stessa ha questa medesima necessità. Non può e non deve staccarsi dalla sua tradizione, che altrimenti tornerebbe più tardi con gli interessi e sete di vendetta, ma neppure può staccarsi dall’ambiente internazionale, dal mondo in cui è inserita e che le ha garantito gli ultimi quarant’anni di crescita esponenziale.
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Si tratta di cercare un equilibrio instabile, estremamente difficile già in tempi normali, molto di più oggi, quando ci sono tensioni politiche ed economiche.
La Chiesa in ciò può essere un ponte, se si attrezza con un minimo di strutture all’uopo. Perciò forse uno dei momenti più importanti della visita saranno quei brevi minuti in cui l’aereo del papa attraverserà lo spazio aereo cinese e, come capitato altre volte, ci sarà uno scambio di messaggi tra il pontefice e il governo di Pechino.
Un futuro, eventuale viaggio del papa in Cina cammina su questi passi: su uno sforzo indefesso della Cina di entrare nel mondo in maniera adeguata alla sua storia, ma anche alle necessità del mondo, e uno sforzo del papa di essere vicino alla Cina, capirne i problemi, le difficoltà, ma certo senza sacrificare il mondo sull’altare della Cina stessa.
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I due cammini sono in realtà, quindi, convergenti, tanto più per le difficoltà che la Cina sta avendo con l’Occidente. È però nella fase di avvicinamento che le cose si fanno sempre più difficili, è l’ultimo miglio che riserva le trappole maggiori.
La domanda del viaggio del papa in Mongolia è allora: quale sarà la voce che arriverà da Pechino in quei giorni? Il papa è lì ad ascoltarla.
Mongolian China for the Pope
It is spelled Mongolia; it is pronounced China. The trip of Pope Francis, Jorge Bergoglio, that will begin Thursday and bring the head of the Catholic Church to Ulan Bator for the first time is actually a leg of a long pilgrimage to Beijing.
Cardinal Giorgio Marengo, who will welcome Bergoglio, is a Piedmontese residing in Mongolia but has shuttled to Beijing for many years. After South Korea, Japan, and Myanmar, the stop in Mongolia is closest to the Asian giant. A century back, Mongolia was part of the Chinese empire.
Until a few years ago, the Chinese destination for the Pope was driven only by historical and geographical interest. It was historical because the Catholic Church, and the Jesuits in particular, had scores to settle with the ultimate failure of the Jesuit mission in China from the 16th to the 18th centuries.
It was geographic because China, starved of faith and deprived of its traditional beliefs after decades of militant Maoism, is a vital shore to land on in Asia, home to 60% of the world’s population and 50% of economic growth
In other countries in Asia, except the Philippines, the Catholic Church’s space for growth is much narrower, and the presence of Catholics in Asia, excluding the Philippines, is on average around 3 to 4% of the total population.
Today, however, perhaps there is also a political reason to take more interest in China.
Beijing’s growing tensions with the United States and neighboring countries make this area the most volatile in the world. External concerns have internal reflections. Political and security controls within China have increased; there is a growing fear of outside subversive forces entering the country and fomenting unrest.
The Catholic Church faces the same restrictions as other faiths, and the process of sinicization in the Catholic Church is also a political process of consolidating the political loyalty of local clergy to the power in Beijing.
It is impossible for the Church to “stand in opposition” to this for many reasons. But the more internal concerns, the more Beijing needs to understand the world around it.
At this juncture, the Chinese church can contribute to a deeper understanding of Western culture and a religion so important in other parts of the world.
It is crucial and fundamental for the Church to breathe with two lungs, the internal and the external, as the Pope has said on other occasions. But China itself has this necessity. It cannot and must not detach itself from its tradition, which otherwise comes back later with interest and vengeance, but neither can it separate itself from the international environment, from the world in which it is embedded and which has guaranteed its last four decades of exponential growth.
It is a matter of seeking an unstable balance, which is extremely difficult already in regular times, much more so today when there are political and economic tensions.
The Church, in this, can be a bridge if it equips a baseline of structures for the purpose. Therefore, perhaps one of the most critical moments of the visit will be those brief minutes when the Pope’s plane will cross Chinese airspace and, as has happened before, messages will be exchanged between the pontiff and the Beijing government.
A future, eventual trip of the Pope to China follows on these steps, a tireless effort of China to enter the world in a manner appropriate to its history and the world’s needs. It is an action of the Pope to be close to China and to understand its problems and difficulties, but certainly without sacrificing the world on the altar of China itself.
Thus, the two paths are converging, all the more so because of China’s difficulties with the West.
However, things become increasingly complex in the rapprochement phase; it is the last mile that holds the most significant pitfalls.
The question of the Pope’s Journey to Mongolia is then: What will the message be coming from Beijing in those days? The Pope surely is there to listen to it.
Impossibile per la Chiesa fare opposizione? Bergoglio/Parolin non ci pensano neppure infatti l’accordo è ancora segreto (di Pulcinella) visto che hanno consegnato la vera Chiesa clandestina al partito. Che poi si pensi alla “cultura cinese” come civiltà è tutto da dimostrare. Una storia di prevaricazioni e violenze senza senso. Da ultimo illudersi di avvicinare la Cina al mondo occidentale senza scheletro è una baggianata. La Cina mangia tutto e tutto non mi pare difficile da capire.
Irapporti fra Vaticano e Cina sono completamente sbilanciati: il Vaticano ha fatto molte concessioni, la Cina nessuno. E l’ ennesimo schiaffo al papa:statunitensi America, citando fonti vaticane, ha raccontato che – nonostante l’invito loro rivolto dal card. Marengo, come a tutte le Conferenze episcopali dell’Asia – nessun vescovo della Cina continentale ha ricevuto dalle autorità di Pechino il permesso di recarsi a Ulan Bator per questo storico evento. Vale la pena di ricordare che nella vicina provincia cinese della Mongolia Interna risiede una vivace comunità cattolica e che proprio uno dei suoi vescovi – mons. Antonio Yo Shun, vescovo di Jinin – nel 2019 fu indicato come il primo dei sei frutto dell’Accordo provvisorio tra Roma e Pechino sulla nomina dei vescovi (anche se in realtà era già stato approvato dalla Santa Sede nel 2010)
“Che poi si pensi alla “cultura cinese” come civiltà è tutto da dimostrare”.
Ma è un troll o è ignorante? Se questa è la sua conoscenza della storia e della cultura cinese lei è messo proprio bene. Ridurre tutto il bagaglio di cultura, letteratura, religione etc. della Cina a “violenza e sopraffazione” è veramente da penna rossa.
La sua è una riflessione interessante. Credo comunque che, nel solco tracciato negli anni dal pontificato di Francesco, la visita in Mongolia – dove la presenza dei cattolici è numericamente irrilevante – segnali l’attenzione privilegiata del Papa, ai lontani, agli ultimi, a coloro che non hanno potere mondano e non contano nella società globalizzata. Per questo sono convinto che questi visite “in uscita”, siano eloquente sacramento e siano azioni di sommo magistero. E ciò al di là di qualsiasi esito funzionalistico a disegni di ordine più ampio, globale, come può essere quello dei rapporti con la Cina. Una ultima considerazione: laddove afferma del “fallimento antico della missione gesuita in Cina tra il XVI al XVIII secolo”. Non mi sento di condividere l’affermazione: Matteo Ricci e il Valignano, hanno lasciato un profondo segno di stima e di venerazione tra i cinesi nei loro confronti ed è anche grazie a questo lascito che si sono potuti riannodare i flebili fili con l’attuale governo Cinese. Il loro sapersi inculturare è tuttora esempio e patrimonio. Il fallimento a cui fa riferimento, che c’è stato se lo valutiamo sulla base dei criteri numerici di evangelizzazione, è dovuto più al fatto che è piuttosto la gerarchia romana che non ha colto la portata dell’arricchimento della diversità nell’unità (ad es riti cinesi dei defunti) e ha di fatto ostacolato la diffusione della missione dei gesuiti. E’ la continua e irrisolvibile dialettica tra novità e tradizione che, come sappiamo, è sempre attuale.