Tutti ricordiamo con commozione il primo apparire di papa Francesco alla loggia centrale della Basilica di san Pietro per presentarsi alla Chiesa e al mondo come vescovo di Roma. Di certo papa Francesco, sin dal primo momento, ha parlato una «lingua nuova» che si è espressa con le parole e, soprattutto, con i gesti. Quell’attimo di lungo silenzio, che ha preceduto l’inatteso saluto familiare di un semplice ed intimo «Buonasera…», ha permesso di comprendere come il nuovo vescovo di Roma veniva a salutare la Chiesa di Dio che è in Roma e, attraverso di essa, tutte le Chiese sparse nel mondo. Era rivestito degli abiti propri che indicano il suo ministero, in realtà spogliandosi di tutto ciò che perpetuava i segni del potere imperiale-sacerdotale del sommo pontefice. Rivestendo il ministero petrino ha dismesso quel sommo pontificato ereditato dal paganesimo, così stridente con la nudità del Crocifisso.
Il solenne riconoscimento della precedenza del popolo di Dio radicato nel battesimo, da cui fluisce non solo il mistero della Chiesa, ma anche ogni suo ministero, è stato centrale in tutto il magistero, di parole e gesti, in questi cinque anni abbondanti. Il giorno della memoria di san Bernardo, autore del De consideratione, in cui l’abate di Clairvaux insegnava al suo antico discepolo, divenuto papa Eugenio III, a esercitare bene il suo ministero, papa Francesco ha pubblicato la sua Lettera al popolo di Dio. Se la prima sera del suo «pontificato», Francesco si è leggermente inclinato per ricevere la silenziosa benedizione del popolo di Dio e del popolo di Umanità, riunito in piazza san Pietro e collegato con Roma da tutto il mondo, con questa Lettera si mette in ginocchio per chiedere perdono. Il messaggio è inequivocabile «proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce».
In questi ultimi anni, a più riprese e in varie parti del mondo, la Chiesa è stata messa in ginocchio dal susseguirsi di scandali per gli «abusi sessuali, di potere e di coscienza». Alcune diocesi sono ormai in ginocchio non solo a livello economico, ma di dignità. Papa Francesco non si accontenta di prendere atto che la Chiesa è stata messa in ginocchio dalle circostanze. In fedeltà al suo ministero chiede a tutti i fedeli, come popolo santo di Dio che sa di essere non una società più o meno perfetta, ma il Corpo di Cristo, di mettersi spontaneamente in ginocchio per riconoscere i suoi errori. La Chiesa nell’umiltà e nella verità di Cristo si cosparge il capo di cenere, per far sì che la sofferenza inflitta si trasformi in appello alla conversione. Oggi, la Chiesa, che in molte e troppe occasioni è stata fustigatrice dei mali altrui, riconosce, in tutta umiltà, il proprio bisogno di penitenza e di urgente rinnovamento interiore. Con parole forti papa Francesco richiama il senso del popolo di Dio che fa il mistero della Chiesa e ricorda a tutti che «La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria». Come battezzati siamo tutti implicati, perché ci riconosciamo nella sofferenza degli abusati e nella responsabilità di quanti si sono macchiati di queste colpe. L’antico adagio patristico, che indicava la Chiesa come «casta e meretrice», ritrova tutta la sua profondità di senso e di appello.
Papa Francesco sta mantenendo la sua parola e si dimostra ancora una volta pastore onesto e umile. Rimane fermo il suo primo segno, quando chiese al popolo di ratificare, con una preghiera di benedizione, la scelta fatta dai cardinali di santa romana Chiesa. Il segnale che resta fondamentale è quello della spoliazione che significa concretamente abbracciare un lungo processo di declericalizzazione delle strutture e dello stile nella vita della Chiesa. Declericalizzare significa rinunciare continuamente alla mentalità di un potere ricevuto e da esercitare come privilegio ed esenzione da valutazione. Declericalizzare significa cercare appassionatamente, ogni giorno, di imitare e assumere «i sentimenti» (Fil 2,5) e lo stile di Cristo Signore, il quale «svuotò se stesso» (Fil 2,7).
Nella Lettera al popolo di Dio, ciò che è stato ripetuto in mille modi in questi anni dal vescovo di Roma viene indicato come la sfida primaria e fondamentale della nostra vita di Chiesa. Siamo di fronte a un appello profetico alla conversione che non è più procrastinabile. Se qualcuno non l’avesse capito o non lo volesse capire, papa Francesco, con l’autorità oggettiva del suo magistero ordinario, chiama con nome e cognome il male fondamentale della Chiesa: «Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo».
Esercitando il suo ministero di «conferma» (Lc 22,32) e di orientamento del cammino della Chiesa nella sua fedeltà incarnata e non incartata al Vangelo, papa Francesco mobilita il popolo di Dio in questa missione interna di declericalizzazione radicale e urgente. Dopo duemila anni, il «cristianesimo» – ormai al suo inevitabile tramonto come sistema religioso – è chiamato a radicarsi di nuovo nella logica esigente del Vangelo. Siamo di fronte ad un appello urgente di partire interiormente per una «crociata evangelica», la più esigente e così disarmata da essere disarmante. Saremo capaci, come popolo di Dio, di rispondere a questo appello come, in passato, ci siamo impegnati – non senza ambiguità – in altre «crociate» assai meno compatibili con il Vangelo? Il primo passo, perché questo possa avvenire, è un sussulto di intelligenza e di ricerca del modo più adeguato di essere Chiesa nel nostro tempo per gli uomini e le donne che attendono, attraverso di noi, la grazia del Vangelo. Un simile processo implica una riflessione radicale sull’esercizio dei vari ministeri nella Chiesa e, in particolare, di quelli legati al sacramento dell’ordine.
Riprendo, con gratitudine e stima, le parole con cui padre Ghislain Lafont – monaco e teologo ultranovantenne – ha concluso la recensione al mio ultimo libro,[1] in cui cerco di dare il mio contributo proprio a questa riflessione che papa Francesco rilancia con urgenza. Così scrive padre Lafont: «È un invito a ripensare e ad esercitare il “sacerdozio” all’interno di una vocazione cristiana che cerca di assumere interamente la propria umanità. In conclusione, l’autore fa allusione alla Rivoluzione copernicana, poi alla Rivoluzione francese, ciò che fa del suo libro il carattere di provocazione per una terza Rivoluzione, proprio mentre – ci tocca ammetterlo – gli anni che ci separano dal concilio Vaticano II evocano piuttosto la Restaurazione».
Dopo la Lettera al popolo di Dio, vorrei, idealmente o virtualmente, dedicare proprio al vescovo di Roma questo mio testo – Preti senza battesimo? – per sostenere con il mio piccolo contributo il compito che papa Francesco affida a tutti i battezzati. Ritrovare l’ordine nella vita della Chiesa e in particolare nel ministero dei chierici esige di rimettere in ordine la gerarchia dei sacramenti. Il cammino che ci viene indicato sarà possibile solo se saremo capaci di ritrovare, tutti insieme e in modo eguale, il fondamento del battesimo nella comunione al corpo di Cristo che viene nutrita e rafforzata dall’eucaristia.
Non ci resta che metterci tutti in ginocchio! Dobbiamo farlo non solo per esprimere il necessario stato di «penitenza e di conversione» cui ci richiama papa Francesco in riparazione degli scandali. Dobbiamo metterci serenamente in ginocchio per ritrovare l’attitudine propria e specifica di ogni buon «discepolo del regno dei cieli» (Mt 13,52). Il Cristo Signore si è messo amorosamente al posto di chi serve e ci ha chiesto di «lavare i piedi gli uni agli altri» (Gv 13,14). Come dimenticare ciò che segue: «Sapendo queste cose, siete beati, se le mettete in pratica» (13,17)? Non ci resta che cominciare con entusiasmo e tutti insieme… non è mai troppo tardi se cominciamo «oggi» (cf. Lc 19,9).
Dal blog della Koinonia della Visitation (21 agosto 2018)
[1] Preti senza battesimo? Una provocazione, non un giudizio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2018.
La mentalità – e lo stile di vita – clericale ha consentito ai servitori del popolo di Dio – e ai testimoni di vita consacrata al Regno di Dio – di non accogliere e di non dedicarsi a promuovere il rinnovamento della Chiesa proposto dal Concilio Varticano II. Anzi, l’espressione Popolo di Dio è stata rimossa ufficialmente a favore di una ‘ecclesiologia di comunione’ che, certamente valida in sé, non lo era come alternativa.
Il clero si è trovato di conseguenza a girare a vuoto, come un padre che non fa più presa sulla famiglia. Tentato di tenere in piedi ‘quel che si è sempre fatto’ – non è possibile riforma della pastorale senza riforma della Chiesa – o di chiudersi in movimenti e gruppi tradizionalisti che, in cambio della appartenenza, ti garantiscono una identità a priori.
Più che illusione di potere, il clericalismo è forma di immaturità: non si diventa padri senza la famiglia.
E l’immaturità ti rende disponibile ad ogni trasgressione.
Mettersi in ginocchio, dice il Papa. E battersi il petto per aver sottoposto il Concilio alle nostre opinioni invece che convertirci alle vie che lo Spirito ci indicava.
P.S.: Perché icommenti sono così scarsi?