Si è celebrato anche quest’anno il rito mediatico dei commenti che si affastellano intorno ai numeri degli abbandoni delle due grandi Chiese cristiane in Germania. Vescovi, mezzi di informazione, giornalisti, teologi e teologhe – tutti coinvolti in questa celebrazione ripetitiva orchestrata intorno all’aridità di numeri senza motivazioni.
Ogni anno, da parte di tutti, sempre le stesse parole – non uno slancio di fantasia, non una divagazione verbale che lasci intuire un minimo di vitalità. Alla sterilità linguistica del comparto ecclesiastico fa il pari quella degli informatori, anche loro oramai prosciugati di una qualsiasi idea degna di questo nome. Non se ne può più del rito annuale fatto di autofustigazione ecclesiastica, monito illuminato e severo della classe teologica e titoli a effetto dei media.
Non uno slancio che cerchi di collegare il (deprimente) trend delle Chiese a quello (altrettanto deprimente) di altre istituzioni e istanze civili del paese: dai partiti ai sindacati, dalle associazioni culturali alle università – tutti accomunati da una perdita di significato davanti alla vita e alle esperienze della gente.
Un prosciugamento di ogni referente umanistico complessivo – basti guardare alle Geistwissenschaften nel mondo accademico, costrette a lottare per la loro sopravvivenza in un settore, quello universitario, che è diventato una sorta di anticamera e di paggetto degli interessi economici delle imprese e delle finanza.
La privatizzazione dell’esistenziale e la tribalizzazione dell’appartenenza sociale rendono superflue quelle istanze destinate a connettere la vicenda del singolo con quella dei molti intorno a lui. Anzi, le rendono incomprensibili come figure condivise che mediano un appartenenza comune che non è fatta né dal sangue né da affinità elettive.
Insomma, gli spunti sarebbero molti per una riflessione seria che inizi a convocare tutte queste istanze civili e pubbliche alle quali la Germania deve non solo l’uscita dall’ombra lunga del nazismo e dalla devastazione di una guerra persa (con la divisione fra est e ovest), ma anche il suo benessere economico diffuso (o, almeno, l’apparenza di esso).
L’indifferenza con cui le avanguardie cattoliche guardano a questo destino ineluttabile della loro Chiesa, senza tentare nemmeno un ragionamento sul perché anche la sorella riformata navighi nelle stesse acque, è un indice preoccupante per la partecipazione civile delle élite cristiane alla vita del paese. In fin dei conti, significa abdicare davanti alla destinazione della fede alla vita del mondo – quella per cui Gesù spese tutta la sua esistenza.
A destra e a sinistra, che oramai esistono solo nella Chiesa, si è di fatto entrati nella stagione settaria del cristianesimo – e questo dovrebbe preoccupare tutta la società, sempre più in debito di ossigeno per istanze che tessano legami comuni, anziché rispecchiarsi nella forza della propria immagine moltiplicata virtualmente all’infinito.
Che davanti a tutto questo, circa 22 milioni di cittadini e cittadine paghino ancora la tassa ecclesiastica, ossia riconoscano il ruolo socio-civile della loro Chiesa, è quasi una buona notizia. Non per gongolarsi o trovare una qualche consolazione, ma per iniziare a tessere alleanze con tutte le istanze e tutte le persone che hanno ancora a cuore l’umano che è di tutti noi.