Mi capita – e mi pare attitudine tipica degli anziani – di essere spesso quasi obbligato ad accettare memorie della vita trascorsa. In molti casi, il passato non è specularmente ripetuto, ma contiene provocazioni che aprono porte a riflessioni inedite, che nella gioventù non avevano potuto germinare.
Questo è successo con il ricordo di Kierkegaard. Quando ero giovane, la sua radicalità, mi perturbava e mi lasciava confuso, contagiato dal suo «timore e tremore». La sua fede, vissuta oltre l’estetica edonista e oltre la stessa etica familiare e sistemicamente sociale, risuonava in me come impossibilità e impraticabilità.
Se è difficile spogliarsi del don Giovanni, intimamente identificato con noi, risulta quasi una bestemmia l’invito a dissociarsi dall’etica del giudice Wilhelm, coniuge fedele e obbediente alle regole della responsabilità e del dovere.
Kierkegaard e la filosofia
Certamente, la vita e gli scritti di Kierkegaard rivelano che lui stesso non era immune dall’influenza estetica ed etica e segnato dal timore dinnanzi al Dio cristiano, sofferente e angosciato, ma insistentemente sorretto dalla prospettiva della fede, dell’amore e della contemporaneità della presenza di Gesù di Nazareth.
La storia della filosofia continua a presentarlo come il padre dell’esistenzialismo e l’ispiratore di autori diversi e, in alcuni casi, inconciliabili come Nietzsche, Sartre, Levinas, Wittgenstein e Camus.
Mi risulta difficile, però, confinare Kierkegaard nell’ambito della filosofia e dimenticare la centralità costitutiva della sua polemica antifilosofica, che lo oppone prima a Schelling, che nulla ha da insegnare, e poi a Hegel, «filosofo che cade nel ridicolo».
Egli non affronta solamente la presunzione sistematica dell’hegelismo, perché si oppone radicalmente ai deliri metafisici della tradizione platonica e aristotelica, che rivelano l’assoluta impotenza della filosofia speculativa di intendere e svelare l’inspiegabile realtà concreta nella sua individualità, singolarità e unicità.
Quindi, se non posso proprio resistere alla tentazione di offrirgli un compagno di strada, non penserò a Schopenhauer ma a Pascal: un cattolico e un luterano uniti nella difesa di una fede epurata dalle contraddizioni del cattolicesimo e del protestantismo luterano. Senza dimenticarmi dell’unico filosofo precristiano che Kierkegaard ammirava come un precursore, il maieutico Socrate.
Da cento e cinquant’anni egli ci ripete una profezia irrinunciabile: nel cammino di fede: la verità si afferma nell’agire e non nel conoscere. E contro i deliri cronologici dell’interpretazione hegeliana della storia ci ripete che nel rapporto con Dio «non c’è infatti che un solo tempo: il presente; per colui che non è contemporaneo con l’Assoluto, l’Assoluto non esiste affatto. E poiché Cristo è l’Assoluto, è facile vedere che rispetto a lui, è possibile solo una situazione: quella della contemporaneità» (S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, a cura di C. Fabro, Studium, Roma 1971, p. 126)[i]. Kairós invece di kronos.
La contemporaneità di Gesù
E in opposizione alla dialettica ternaria di Hegel, che prevede il superamento delle contraddizioni, di sintesi in sintesi, fino alla realizzazione dello spirito assoluto nel tempo, afferma una dialettica binaria, quella che segna la drammaticità del vivere accompagnati da insanabili contraddizioni.
Il Gesù da lui contemplato non può corrispondere al Cristo atemporale delle teologie che non rinunciano all’essere del pensiero greco né al Cristo «temporale» delle teologie che, ancora in modo essenziale, ne sottolineano l’umanità concreta.
Il Gesù di Kierkegaard è presente, contemporaneo a chi lo cerca e può accoglierlo e imitarlo solo nella gratitudine, però mai nello sforzo ascetico e doveristico. Vivere la fede è imitare è attualizzare un evento e non professare una dottrina.
Bisognerà attendere il secolo successivo per riascoltare analoga profezia. La ritroviamo negli scritti e nella vita del martire Dietrich Bonhoeffer, di cui si ama ripetere che è, con Barth, l’ispiratore della riflessione teologica del Novecento.
Voci di grande speranza
In Sequela[ii], nel 1937, nel tempo del potere incontestato di Hitler e del Terzo Reich, egli riprende il tema della imitazione del Gesù delle beatitudini, e non riduce tale imitazione a un solipsismo intimista, ma, inevitabilmente, la conduce all’opposizione militante contro le atrocità nazionalsocialiste. In compagnia di Gesù, egli si oppone al male del nazismo, ma anche al tradimento della Chiesa luterana.
Nel 1938 pubblica La vita comune[iii], profezia di comunità ecclesiali che non annullano individualità e singolarità, ma sono un servizio corale allo sviluppo di soggetti liberi, adulti, responsabili, chiamati a vivere insieme l’attesa del Messia, che anche per Bonhoeffer non può essere oggetto di riflessione filosofica, ma Presenza che invita a decidersi per Lui e a morire con Lui. Una Chiesa umile e invitata a ricominciare dalla dottrina del silenzio. È un Gesù che può essere simultaneamente pro me, pro nobis e pro aliis, ovvero: per me, per noi, per il mondo.
«Il Venerdì Santo e la Pasqua hanno questo di liberatorio,
che il pensiero viene distolto dal destino personale
e portato molto al di là,
fino al senso ultimo della vita,
della sofferenza,
del corso degli eventi,
e ci è dato di concepire una grande speranza»[iv].
Kierkegaard e Bonhoeffer: due voci profetiche che risuonano dal passato, ma che oggi potrebbero accompagnarci nuovamente nei tempi tragici e dolorosi, duri e disperati, della storia attuale, per lasciarsi sedurre dalla contemporaneità di Gesù di Nazareth, che non ci offre codici, dottrine e spiegazioni, ma semplicemente la sua crocifissa e risorta compagnia.
[i] Cit. in M. Schoepflin, Soren Kierkegaard: La contemporaneità del fatto cristiano, in Søren Kierkegaard a duecento anni dalla nascita | DISF.org, edu@disf.org
[ii] D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia 2004
[iii] D. Bonhoeffer, La vita comune, Brescia, Queriniana, Brescia 1972.
[iv] Bonhoeffer, dal carcere di Tegel, 25 aprile 1943, in D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Queriniana, Brescia 2002
Noia! Sbadigli! Stanchezza cronica alimentata e provocata dal solito bla bla bla. In sintesi, i filosofi non sono serviti a nulla. Perché riesumarli e discettare in modo altezzoso e supponente del nulla? Il solo citare i loro nomi crea imbarazzo e insofferenza. Verbosi pensatori avvezzi ad inseguire i fuochi fatui dell’intelligenza umana. Quando mai hanno dato senso compiuto all’essere? Quando mai hanno generato vortici di sapienza illuminata aiutando i semplici? Parole roboanti! Concetti contorti! Risultati mediocri! In fondo gli illuministi, i decadenti, i romantici, gli esistenzialisti hanno solo venduto patacche ai creduloni. E quando e’ servito, tra i vari ingredienti triti e ritriti, hanno aggiunto un po’ di Cristo, un po’ di libri sacri e per finire mezzo chilo di fanfaluche socio-illogiche. Addio filosofi! Siete morti, non tornate mai più a sfidare i limiti della sopportazione umana