Verso i 70 anni del Celam

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José Valdeci Santos Mendes, vescovo di Brejo (Maranhão) e attuale presidente della Commissione episcopale per l’azione socio-trasformatrice della Conferenza episcopale brasiliana (CNBB), in occasione della celebrazione della sua ordinazione vescovile citò una frase augurale dell’indimenticabile padre Umberto Guidotti: «Siamo tutti figli e figlie di Aparecida» – ma la completò affermando con decisione: «E nipoti di Medellin!».

Molti di noi – piccolo resto, che cerca di essere fedele all’eredità del Concilio, soprattutto in questi tempi di tradizionalismi e di tradimenti – ripeterebbero volentieri questa interpretazione del vescovo Valdeci, apprestandoci a fare memoria dei settant’anni del Consiglio Episcopale Latinoamericano (CELAM): 1955-2025.

Premetto che non sono in grado di produrre argomenti frutto di serie ricerche storiche e sicuri approcci teologici, ma che mi limito a ricordare, quasi come in un diario, situazioni, sentimenti, prese di posizione, che sorsero nella convivenza pluridecennale con la Chiesa dei poveri e della liberazione.

Dire sinteticamente qualcosa di sensato su questi settant’anni è per lo meno presuntuoso, perché si tratta non solo di una lunga stagione della storia, ma, soprattutto, di tempi – con l’eccezione, forse, del periodo che va dal 1955 al 1968 – di rapidi e sorprendenti cambiamenti politici, sociali e culturali.

Sono stati anche gli anni del post Concilio e della Conferenza di Medellin. Sono, inevitabilmente, gli anni delle tensioni delle Chiese dell’America Latina con Roma: tempi di conflitti pastorali e teologici; tempi di persecuzione e di silenziamento di teologi e teologhe.

Cattolicesimo coloniale

In questa chiave, riesco ad affermare che il CELAM è stato effettivamente importante nel cammino della Chiesa della cristianità coloniale, soprattutto nella promozione delle cinque conferenze dei vescovi latinoamericani.

Emerge chiara, però, la mia intenzione di fare questa memoria guidato da un invincibile preconcetto pastorale e ideologico, oscurando tre conferenze – Rio de Janeiro, Puebla, Santo Domingo – per sottolineare polemicamente l’importanza della Seconda Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano, quella di Medellín in Colombia (24 agosto-6 settembre 1968), e pure della Quinta Conferenza di Aparecida in Brasile (13-31 maggio 2007).

Inoltre, un pregiudizio ermeneutico mi guida anche quando decido di conservare positivamente la memoria di Aparecida (2007), a partire dalla convinzione che l’evento e il documento della Quinta Conferenza furono il tentativo, in un clima ecclesiale ancora invernale, di recuperare pastoralmente, almeno in minima parte, la irrinunciabile eredità della profezia di Medellin.

Delle due Conferenze anteriori di Puebla e Santo Domingo, invece, mi ricordo le preoccupazioni, con gli interventi critici di Roma e dei settori più tradizionali delle Chiese latinoamericane, nonostante i documenti fossero sostanzialmente fedeli a Medellín e proponessero alcune novità pastorali rilevanti.

Pensiamo, per esempio, alle novità di Puebla (1979) che scelse come testo ispiratore della riflessione l’Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI (1975). Se Medellin fu una rilettura del Concilio, ispirata dal «Patto delle catacombe», Puebla fu una rilettura della Evangelii nuntiandi.

Puebla ha posto la sfida dell’evangelizzazione e, in tempi tenebrosi e bui di dittature militari, riscoperto l’importanza dei diritti umani alla luce del Vangelo di Gesù. I diritti individuali, i diritti sociali, i diritti emergenti hanno la loro fonte nella dignità degli esseri umani, immagine di Dio.

Ha confermato l’opzione preferenziale dei poveri e aggiunto l’opzione preferenziale della gioventù. La «liberazione» è ancora presente, ma è accompagnata da due figure pastorali nuove, che le fanno ombra: «comunione e partecipazione».

L’evangelizzazione e la missione sono compito delle Cebs, le Comunità Ecclesiali di Base. Si tratta di sfide nuove per l’evangelizzazione, perché nelle diverse culture latinoamericane e caraibiche – e in tutti gli strati sociali – irrompe una nuova cultura, di stampo urbano-industriale, che si confronta nella prassi e nelle attitudini le tradizioni con lo spirito della modernità.

Anche la Conferenza di Santo Domingo dà continuità a Medellin in un contesto polemico propiziato dalla data in cui inizia l’evento: il 12 ottobre 1992, a cinquecento anni dalla cosiddetta scoperta dell’America. La celebrazione di apertura doveva essere penitenziale o eucaristica? Più penitenziale che eucaristica o più eucaristica che penitenziale? Cosa si doveva celebrare? L’invasione europea o la prima evangelizzazione?

Anche il tema chiave di Santo Domingo, una «nuova evangelizzazione inculturata», appare problematico perché il rapporto della Chiesa con le culture autoctone, che resistono, nonostante tutto, ancora oggi, continua a essere marcato e ferito dal colonialismo e dall’eurocentrismo. Dilemma di difficile soluzione, perché è impossibile riscrivere positivamente – salve alcune sante eccezioni – l’arrivo del Vangelo in queste terre; la croce e la spada, la Chiesa e l’Impero, sono giunti insieme per conquistare questo mondo e sottometterlo materialmente e spiritualmente.

Nel 1955, il documento finale della Conferenza di Rio de Janeiro insisteva ancora sulla necessità che i popoli indigeni, considerati primitivi, si lasciassero incorporare nell’ambito della vera civilizzazione. A Santo Domingo, ovviamente, non era possibile, né prudente, ripetere questa convinzione, ma la relazione con le culture e le religiosità indigene e di origine africana fu in un certo senso accantonata e, infatti, continua a provocarci, fino ad oggi, nelle pratiche pastorali e nella riflessione teologica.

Accompagnai queste due conferenze (Puebla e Santo Domingo) con la sensazione che si trattasse di una riduzione della profezia di Medellín a mera narrativa teologica, le cui fonti concrete nel cammino dei poveri erano già minacciate e ridotte, a partire dai rapidi cambiamenti socioculturali delle società latinoamericane, corroborati dai progetti di diffusione di religiosità alienata finanziati dagli Stati Uniti e dalle incomprensioni persecutorie del Vaticano.

La Conferenza di Medellin

Svaniva progressivamente la sorprendente coerenza tra i cammini pastorali e politici concreti e la riflessione teologico-pastorale del CELAM. Se, infatti, nell’esperienza svelata da Medellin, i poveri erano i protagonisti effettivi e riconosciuti di una rivoluzione culturale e spirituale che aspirava a cambiare il mondo, negli anni di Puebla e Santo Domingo questo protagonismo fu progressivamente dimenticato, sostituito e tradito.

Anche le Cebs entrarono in un processo rapido di riduzione parrocchiale e di controllo clericale; il protagonismo della caminhada dei poveri che costruiscono processi di autonomia e di liberazione sopravvisse – ma, con difficoltà, fino ad oggi – solo in pastorali come il Conselho Indigenista Missionário (CIMI), la Comissão Pastoral da Terra (CPT) e il Conselho Pastoral dos Pescadores (CPP).

Medellin rappresenta una rivoluzione copernicana in ambito pastorale e teologico, una sorpresa e una provocazione inaccettabile per il centro, perché nata da geografie periferiche e considerate inferiori, ma che, improvvisamente appaiono come protagoniste.

La profezia di Medellin non si può spiegare solamente a partire dall’evento, perché – è questa la novità che commuove e sconcerta – è il riconoscimento di processi di trasformazione e conversione della Chiesa che attraversano la realtà concreta della vita delle comunità cristiane in tutta l’America Latina. Processo unico e irripetibile dello Spirito che reinterpreta il clima di aggiornamento del Concilio Vaticano II a partire dal Sud del mondo, dal cosiddetto Terzo Mondo, in chiave dichiaratamente critica delle egemoniche prospettive eurocentriche ancora presuntuosamente e oppressivamente coloniali.

Medellin riflette a partire da una realtà di violenza e di oppressione: ed è questo approccio che la distingue radicalmente dalla visione ottimistica del Concilio, in cui la parola-chiave era lo «sviluppo» – pensiamo anche alla Enciclica di Palo VI Populorum progressio, individuale e solidali.

Oppressione e liberazione

La teologia sviluppista e della promozione umana dei popoli sottosviluppati viene sostituita a Medellin dalla pastorale e dalla teologia della liberazione, dalla necessitá di affrontare il peccato sociale dell’ingiustizia e dell’oppressione, lottando per trasformazioni strutturali. Donne e uomini nuovi per una nuova società: nuova politica e radicali cambiamenti strutturali.

Oggi ci si chiede – e qualcuno la fa cinicamente – dove sono finiti tutti i progetti e i sogni di quegli anni. Certamente la realtà che stiamo vivendo non è solamente la smentita di quelle speranze, ma anche il ritorno accelerato e senza freni, né antidoti, di poteri incontrollabili e violenti in tutta l’America Latina e nei Caraibi.

Vince su tutti i fronti un capitalismo che vuole imporsi indipendentemente dallo stato, sposato dai nuovi fascismi, dalla narco politica, dall’occupazione dello stato da parte del crimine organizzato. Ciò che resta della resistenza dei popoli originari e delle comunità tradizionali rurali e urbane è vissuto da minoranze profetiche aggredite dalle imprese capitaliste e dalle loro milizie. E la vita e il bene che si ribellano affrontano l’anomia e il rinnovato progetto di morte.

In questo senso, nonostante i malvagi lo vogliano cancellare definitivamente, Medellín è il futuro. Ce lo dice la nostra inguaribile Speranza. È la Speranza poetica e politica di dom Pedro Casaldáliga che ci ripete ogni giorno: «Siamo militanti sconfitti di una causa invincibile».

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