Il 15 ottobre scorso il Santo Sinodo della Chiesa ortodossa russa ha annunciato la propria definitiva decisione di rompere la comunione eucaristica con la Chiesa madre dell’ortodossia, Costantinopoli. La notizia è rimbalzata sui media di tutto il mondo, ma la si attendeva già da settimane, da quando cioè il 7 settembre il patriarca Bartolomeo aveva annunciato l’intenzione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, in quanto «Chiesa madre» dell’antica Metropolia di Kiev (da cui discendono tutte le Chiese Ortodosse esistenti sul territorio della ex Unione Sovietica), di fare dei passi in vista della concessione dell’autocefalia alla Chiesa ucraina, nominando a tale scopo due «esarchi», ovvero due incaricati speciali che sono partiti alla volta della capitale ucraina.
Al patriarca Bartolomeo si era rivolto fin dalla scorsa primavera il presidente Petro Porošenko, sostenuto dalla Verchovna Rada (parlamento di Kiev) con lo scopo dichiarato di poter avere in Ucraina un’unica Chiesa ortodossa locale e nazionale, ponendo fine alla frammentazione esistente fino ad oggi. I fedeli ortodossi ucraini, infatti, sono divisi in tre differenti giurisdizioni: la Chiesa ortodossa ucraina unita al Patriarcato di Mosca (dal 1990 con diritto all’autogoverno, retta dal metropolita di Kiev Onufriy); la Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Kiev (nata nel 1992 dall’autoproclamazione a patriarca del già metropolita Filarete, fino ad allora appartenente al Patriarcato di Mosca); la Chiesa ucraina ortodossa autocefala (ristabilita nel 1990 ma che si vuole continuatrice della Chiesa dichiaratasi autonoma da Mosca nel 1921). Di queste tre Chiese, solo la prima è canonica, cioè in comunione con le altre Chiese ortodosse.
Questa complessa situazione, creatasi fin dalla caduta dell’URSS, si è ulteriormente aggravata quattro anni fa con l’annessione della Crimea, la guerra che si combatte nelle regioni orientali dell’Ucraina e le fortissime tensioni esistenti fra i due paesi: è chiaro che la richiesta di Porošenko di far terminare «l’innaturale connessione della Chiesa ucraina con Mosca» è volta ad affermare una netta separazione dalla Russia. È anche vero che oggi, purtroppo, anche a livello culturale e popolare, oltre che politico ed economico, fra Russia e Ucraina si è ormai scavato un profondo solco, e che lo stesso Patriarcato di Mosca fatica a mantenere un rapporto con i propri fedeli in Ucraina: basti pensare che da quattro anni il patriarca Kirill non vi ha più messo piede, e quando il metropolita Hiliarion ci ha provato è stato respinto indietro alla frontiera.
Fin qui i fatti; e le prospettive?
Nel contesto attuale, più che sancire il nascere di una Chiesa locale radicata e missionaria nel paese, che ha modellato un proprio volto autonomo nella comunione con la Chiesa madre che l’ha generata, l’autocefalia sembra essere l’ultimo colpo di coda di una separazione ostile tra due paesi che in reltà erano nati e si sono sviluppati per secoli entro un comune alveo spirituale e culturale. Esiste il rischio che oggi in Ucraina rivendicare il principio dell’autocefalia si trasformi in uno strumento per risolvere dei problemi di convivenza innalzando nuovi confini, dipendenti dalle contingenze storiche e geopolitiche: era lo stesso pericolo riconosciuto dalle Chiese ortodosse, quando nel Sinodo panortodosso a Istanbul del 1872 condannarono come eresia il filetismo, che identificava l’appartenenza etnica come criterio per la giurisdizione ecclesiastica.
D’altro canto, non si può trascurare la tragica situazione di milioni di fedeli da quasi trent’anni marchiati come «eretici» (e di cui non viene riconosciuto neppure il battesimo), per i quali, oltre ad altezzose condanne, nulla è mai stato intrapreso al fine di sanare la divisione, nonostante le esortazioni rivolte da Costantinopoli a Mosca perché si operasse in questa direzione. Oggi, nel nuovo contesto creato dalla guerra e dalle spinte indipendentiste, è impensabile che l’attuale Chiesa «canonica» ucraina, dipendente dal Patriarcato di Mosca, possa costituire un polo di mediazione e riunificazione, e in questo senso è comprensibile l’iniziativa assunta da Costantinopoli.
Tralasciando gli aspetti giuridici (che del resto tutti gli esperti giudicano controversi, perché la Chiese ortodosse non hanno mai proceduto a una riforma del diritto canonico e possiedono una congerie di canoni eterogenei per epoca, contesti e contenuti, da cui si può attingere ogni tipo di argomentazione, pro o contro), vorrei sottolineare un elemento che mi sembra fondamentale, e che il nunzio apostolico in Ucraina, mons. Guggerotti, ha così enunciato a un forum a Kiev il 17 ottobre: «Noi cristiani siamo costretti alla pace. Siamo condannati alla pace, perché se non promuoviamo la pace non diciamo coi fatti che siamo cristiani… Ogni rifiuto del dialogo è un rifiuto di Dio; il rifiuto di parlarsi è una bestemmia, perché il nome di Dio è l’amore. Preghiamo perché questo avvenga anche in Ucraina».
Non sono solo alti prelati, ma anche la gente semplice, i giovani, a dirlo: ad esempio, Diana, di Odessa: «Ogni separazione per me è una cosa brutta. La separazione nella Chiesa poi è particolare. Da una parte è una cosa abbastanza lontana… dove stanno queste chiese del Patriarcato di Costantinopoli? Dall’altra è troppo vicina, è addirittura nel cuore… È chiaro che sia l’una che l’altra parte nutrono ambizioni condite in salsa canonica, e si coprono con le più nobili intenzioni. Ma tutto questo ha qualcosa a che vedere con Cristo, col Vangelo? E io mi dico: qui è mancata la carità, come mai tra di noi non c’è carità?».
Oppure Saša, dalla Bielorussia: «Ogni giorno avvengono delle tragedie. Grandi, piccole, o enormi. Ma qualcosa mi suggerisce che questa è soltanto una cortina di fumo per distrarci… no, non dalla congiura mondiale ma da quello che veramente importa nella vita: la verità, la bellezza, la libertà che ci sono a questo mondo, in tutte le epoche. Non crediate che vi inviti a mettere gli occhiali rosa e a vivere di pie illusioni, al contrario. I santi sanno cos’è la letizia quando sembra che non resti nessun motivo di gioire, quando il mondo va a rotoli. Loro sanno fermamente che oltre la morte, la menzogna, la guerra, l’odio e la stupidità, dietro la cortina di fumo dell’idiozia c’è un’altra realtà, su cui poggiamo. C’è la verità, c’è l’amore, la comunione, la comprensione reciproca, c’è la fede in Dio e nell’uomo. Dobbiamo testimoniarlo, perché non tutti lo sanno».
Qualche giorno fa, invitata a parlare in un ginnasio ortodosso nella provincia russa, alla domanda su come noi cattolici vediamo il problema dell’autocefalia, mi è venuto da rispondere che all’inizio di ottobre il papa ci ha chiesto di recitare il rosario per sconfiggere il diavolo che crea divisioni fuori ma anche dentro la Chiesa; e che poi, riflettendoci, ho pensato che – al di là delle sue intenzioni – questo invito a pregare ardentemente doveva valere anche per la Chiesa ortodossa. L’unità comincia dalla coscienza dei fedeli: possiamo infatti vivere la divisione come una condizione normale, che non ci provoca alcuna scossa, alcun dolore; oppure, al contrario, assumerla come un nuovo argomento per il rinfocolarsi di spinte nazionaliste fondamentaliste; ma possiamo anche soffrirla come una sconfitta per il cristianesimo (di chiunque siano torti e ragioni), e pregare e adoperarci per l’unità quotidiana senza rassegnarci a considerare la divisione come un dato di fatto. In quest’ultimo atteggiamento, che qui in Russia è di molti – molto più di quanto si pensi o si veda – c’è già il pegno della rinascita dell’unità.