Nel Vangelo di Luca al cap. 12 Gesù esorta le “folle” a saper leggere e interpretare il tempo in cui vivono: “Come mai questo (καιρὸν) non sapete valutarlo?”. Gesù definisce “quel” tempo kairos, cioè tempo favorevole/opportuno. Secondo una lettura teologica, il cristiano, unito a Cristo, interpreta ogni tempo come il tempo favorevole.
Anche il pomeriggio del cristianesimo (T. Halik) che stiamo attraversando non è il tempo delle profezie di sventura (diagnosi negative e pessimistiche), bensì il momento della consapevolezza e del rinnovamento.
La recente indagine de Il Regno/Attualità (18/2023) sul rapporto tra gli italiani e la Chiesa cattolica fotografa il lento, ma progressivo declino della pratica della fede. Il colpo di spada è attribuibile al pesante lockdown (2020) con le sue insidiose conseguenze ancora in atto. Secondo l’ISTAT, la percentuale di partecipazione alla messa domenicale è diminuita dal 2009 al 2019 di 7 punti; dal 2019 al 2022 di 6 punti!
Un calo, quest’ultimo, accelerato che provoca una domanda impellente sull’impatto della pandemia nel vissuto umano e religioso degli italiani (e non solo). Non si tratta infatti di scaricare le colpe sulla pandemia, nemmeno di liquidarla in maniera troppo superficiale.
Piuttosto occorre accettare che la pandemia costituisca un vero e proprio spartiacque nell’orizzonte di pratiche e linguaggi religiosi ormai scaduti. Il bisogno religioso che è emerso durante il lockdown (come in ogni momento di crisi) è sfociato – secondo l’indagine de Il Regno – in forme di ateismo o di agnosticismo e non (ahimè!) in altre forme di spiritualità o di impegno sociale.
La pandemia ha convalidato l’eclissi di due categorie sociali trainanti nell’ambito della trasmissione della fede: le donne e i nonni. Le prime (A. Matteo già da dieci anni parla di “fuga delle quarantenni”) non sentono più di essere loro le protagoniste dell’annuncio di fede, al meglio preferiscono delegare ad altri.
La fede trasmessa in dialetto, come dice papa Francesco, ormai è un modello superato: occorre forse cercare altri luoghi e relazioni capaci di consegnare (tradere) un motivo per cui credere e vivere.
I secondi, i nonni, costituiscono una generazione che tenta di passare il testimone: bisogna chiedersi come è messo il livello di memoria storica e culturale del popolo italiano e che rapporto intende coltivare con le radici.
La pandemia vista da questa prospettiva sembra più un lutto da elaborare che un ostacolo da aggirare. Accogliere il vuoto, il fallimento e la crisi permette di trasformare tutto il negativo in opportunità e non in ripiegamento malato. Il lutto finché non viene elaborato genera mostri e nevrosi (personali e comunitarie). Non basta diventare minoranza creativa, se prima non si diventa convinti e sereni di esserlo.
La minoranza (non solo numerica) implica paradigmi nuovi per sfide nuove: la povertà come risorsa, la rinuncia a tanti formalismi superflui, modelli formativi originali (futuri presbiteri e religiosi/e formativi secondo metodi obsoleti), ripensamento della presenza ecclesiale sul territorio, visione più integrale della sessualità e centralità della Parola di Dio. In questo senso, la recente Relazione di sintesi della prima sessione della XVI Assemblea del Sinodo dei vescovi si è espressa in questi termini in merito alle questioni aperte:
“Proponiamo di promuovere iniziative che consentano un discernimento condiviso su questioni dottrinali, pastorali ed etiche che sono controverse, alla luce della Parola di Dio, dell’insegnamento della Chiesa, della riflessione teologica e, valorizzando l’esperienza sinodale. Ciò può essere realizzato attraverso approfondimenti tra esperti di diverse competenze e provenienze in un contesto istituzionale che tuteli la riservatezza del dibattito e promuova la schiettezza del confronto, dando spazio, quando appropriato, anche alla voce delle persone direttamente toccate dalle controversie menzionate. Tale percorso dovrà essere avviato in vista della prossima Sessione sinodale”.
Antidoto contro diverse polarizzazioni, anche ecclesiali, è la scelta di un discernimento condiviso ma aperto su questioni delicate e complesse. Senza calare le solite risposte pronte, adatte per ogni situazione, ma ritrovare – oltre l’individualismo – ciò che ci accomuna.
Già K. Rahner nel 1973 scriveva: “L’ecclesialità presuppone la socialità umana”. La crisi relazionale e antropologica, incentivata dalla pandemia, suggerisce alla Chiesa la sfida fondamentale: favorire il sorgere di questa socialità.
A volte ri-creandola, come si fa dopo un lutto che ci distrugge. Ri-creare non vuol dire annullare o rinnegare ciò che è stato, ma semplicemente accogliere ciò che è in grado di rendere sempre nuovo il “noi” che rende visibile il kairos.
Credo che in molti si siano sentiti abbondanti da Dio durante la pandemia. Ci si è resi conto che il Dio Padre che la chiesa identifica come Amore, nei momenti di vera difficoltà tace. E il silenzio di Dio per molti è stata la prova della sua inutilità. Credo che più che dire che Dio non esiste molti hanno preso consapevolezza della sua inutilità rispetto ad aspettative (sbagliate).
Non ci confrontavamo da moltissimo tempo con una sciagura di questo livello. Non eravamo pronti e probabilmente un certo modo “svenevole” di presentare Dio come Amore non ha tenuto. Io non ho mai creduto che Gesù sia venuto innanzi tutto a portare un messaggio d’amore. Credo abbia portato sopratutto in messaggio di speranza. Questa ci è mancata per resistere alla pandemia, perché non siamo allenati alla speranza. In fondo questo è forse anche un segno del fallimento del cristianesimo paolino che, nel suo inno alla carità, vede nella carità l’unica cosa che resterà.
Io invece credo che resterà (per forza) solo la speranza alla fine.