Celebreremo Natale, perché il Dio di Gesù non cessa mai di venire a visitare il suo popolo e piantare saldamente la sua tenda nel mezzo delle vicende umane. Non ha bisogno di orari da rispettare, non di condizioni favorevoli, non ha neanche bisogno di una casa tutta sua per venire al mondo – il nostro, così come esso è in questo momento. Così, forse almeno per questa volta, celebreremo il suo Natale e non il nostro; come se la comunità cristiana fosse stata ricondotta all’essenziale del Vangelo da quello che accade nella vita di tutti.
Nonostante l’invito pressante del Signore, proprio nel Vangelo di questa prima domenica di avvento, a “vigilare”, ci siamo fatti cogliere di sorpresa nel dover mettere mano all’inventiva della fede per celebrare un Natale che non sia la stanca ripetizione di quelli a cui ci siamo abituati – con la comodità di non dover pensare a nulla, di non dover preparare nulla, tanto è tutto già scritto e fatto.
Nella fobia collettiva di un’attesa spasmodica che guarda all’indietro, al tempo passato e abituale di anni di assuefazione, è caduta anche la comunità cristiana; che adesso si affanna ad aggiustare il vestito vecchio, e forse anche un po’ logoro, del tempo che fu, fosse anche solo quello di un anno fa, per adattarlo a una condizione inedita che chiede alla fede lo slancio di una corrispondenza al Signore che viene, testardamente e sicuramente, anche in questo nostro anno. Il Vangelo ci mette in guardia sull’esito miserevole di questi tentativi di riciclo dell’usato quando si tratta della novità del Dio che irrompe discretamente nel tempo degli uomini e delle donne – in questo nostro tempo di oggi.
Abbiamo ceduto anche noi alla fascinazione dell’usato sicuro, anziché preparare per tempo, ben vigili e attenti, l’azzardo di qualcosa di nuovo – come dovremmo fare ogni anno a Natale, perché il Signore che viene non è mai il mero ritorno dell’identico sempre uguale a se stesso. Come se il nostro passare nella liturgia della Chiesa che ci approssima all’avvento e al Natale sia stato quello di gocce che scorrono sull’acqua, senza sostare e senza ascoltare. La sapienza di un olio che ci permette il passo in più nella notte per andare verso lo sposo che viene; il talento da trafficare per entrare nella gioia del Regno; i gesti del mondo che Dio è felice di abitare con noi e che indicano il nostro felice abitare nel creato amato e riscattato da Dio – niente, ci sono semplicemente scivolati sulla pelle di una fede assuefatta alla comodità dell’anno liturgico. Tanto poi viene Natale, quello di sempre.
Stolti – deve aver pensato il Signore, quando io sono tra voi nulla più rimane come era, tutto si trasforma, e tutto chiede il costoso esercizio di un apprendimento dell’inedito di Dio.
Usciamo, almeno noi comunità cristiana, dalla triste attesa nostalgica che tutto torni a essere come prima, così da poter andare avanti come se niente fosse successo; mettiamo in campo una sobrietà che sappia rendere un minimo di onore alle centinaia di morti che ogni giorno rendono umanamente più povero e affettivamente più triste il nostro paese; osiamo lo slancio di una liturgia senza nessun modello previo (dovessimo anche mettere da parte il Messale che è stato appena consegnato alle nostre comunità), la cui partitura è tutta da scrivere, per celebrare davvero il tempo in cui viviamo – celebreremo sicuramente anche il Signore che viene e la memoria di lui.
Rinunciamo alle acrobazie per incastrare orari del tempo cristiano e orari pubblici, a ogni bricolage rituale per conciliare celebrazione e misure preventive a tutela della salute di tutti – facciamo almeno noi comunità cristiane, per una volta, qualcosa di diverso (il Signore non se ne avrà a male). Consentiamoci per quest’anno un’eccezione liturgica, sobria, evangelica, nell’obbedienza della fede – non per aprire il recinto di una fantasia selvaggia, ma per onorare un Dio che si è fatto carne (l’eccezione tout court del tempo e della storia).