Nella conferenza stampa di mercoledì scorso, al termine del suo viaggio in Ungheria e Slovacchia, papa Francesco ha risposto a una domanda del corrispondente vaticano di America, Gerard O’Connell, sulla comunione ai politici pro-choice. Quello che papa Francesco non ha fatto – anzi, quello che ha rifiutato di fare – è stato di risolvere la questione universalmente e definitivamente.
Invece, la risposta di papa Francesco aveva una struttura in tre parti: 1) affermare l’insegnamento morale sull’ingiustizia dell’aborto; 2) affermare che le persone possono porsi al di fuori della comunità della Chiesa e quindi rendersi incapaci di ricevere degnamente la comunione; 3) sottolineare che le controversie sul negare o meno la comunione non nascono da disaccordi sui principi teologici dei punti uno e due, ma piuttosto da un problema pastorale su come applicarli.
Tra pastorale e politica
Francesco ha speso la maggior parte della sua risposta avvertendo che il fallimento nell’affrontare questo problema pastorale come pastori potrebbe portare i vescovi a “prendere posizione sulla vita politica” – cosa che non finisce mai bene per la Chiesa.
Ho già scritto due volte su questi temi. A maggio, il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ha inviato una lettera ai vescovi degli Stati Uniti in cui raccomandava un ampio processo di dialogo prima che tentassero di dare indicazioni sulla questione della comunione ai politici pro-choice.
All’epoca, ho spiegato perché, anche se tutti i vescovi potessero essere d’accordo nel vietare ai politici pro-choice di ricevere la comunione, una tale politica non avrebbe probabilmente raggiunto il fine politico di rafforzare il sostegno alle leggi contro l’aborto. A giugno, i vescovi hanno votato per andare avanti con la stesura di un documento sulla coerenza eucaristica senza prendere il tempo per il processo di dialogo raccomandato.
Ho poi scritto che i cattolici che giungono a conclusioni opposte sul fatto che ai politici pro-choice debba essere negata la comunione possono essere entrambi motivati da una preoccupazione pastorale.
Penso che entrambe le mie analisi precedenti siano in sintonia con l’attenzione di papa Francesco sul problema pastorale presentato da questa domanda. Ma la sua risposta ha evidenziato due punti che mi aiutano a riconoscere quanto sia facile cadere nella trappola di trattare le questioni pastorali in un modo che le fa collassare in problemi politici, mentre si pensa di agire come la verità teologica e morale richiede.
Lo stile del ministero episcopale
In primo luogo, Francesco ha detto che un pastore “deve essere un pastore con lo stile di Dio”, che ha descritto come “vicinanza, compassione e tenerezza”. Ha aggiunto che questo requisito si applica anche in una relazione pastorale con coloro che sono scomunicati e ha indicato immagini della Scrittura di questo “stile” divino.
Alla conclusione della sua risposta, Francesco ha ribadito la triade vicinanza, compassione e tenerezza e ha detto che questi principi pastorali “vengono dalla teologia, la cura pastorale è la teologia e lo Spirito Santo, che ti porta a [agire pastoralmente] con lo stile di Dio”.
Ciò che papa Francesco evidenzia qui è che la vicinanza, la compassione e la tenerezza non sono vincoli pastorali su quanto ferventemente si annunciano altre verità teologiche, ma sono esse stesse verità teologiche su chi è Dio in relazione agli esseri umani. Agire pastoralmente “con lo stile di Dio” non è in opposizione al parlare apertamente della verità morale dell’aborto come violenza ingiusta e dire chiaramente, come ha fatto papa Francesco, che “chi pratica un aborto uccide” e che “accettare questo è un po’ come accettare l’omicidio quotidiano”.
Agire pastoralmente con lo stile di Dio non significa ammorbidire queste verità. Invece, significa trovare modi per rimanere vicini, come fa Dio, anche alle persone che rifiutano o non sono in grado di accettare queste verità morali.
Il disaccordo tra i vescovi: non una questione di principi
In secondo luogo, papa Francesco ha fatto riferimento alla controversia nella discussione su Amoris Laetitia per ciò che concerne l’accompagnamento pastorale di coppie divorziate e risposate (un gruppo di teologi è arrivato al punto di accusare il papa di eresia). Poiché Francesco non si è precedentemente coinvolto nel dibattito specificamente americano sul fatto se il presidente Biden debba ricevere la comunione o meno – e anche nella risposta ha evitato di affrontare le particolarità della situazione statunitense -, sono rimasto inizialmente perplesso da questo riferimento ad Amoris Laetitia. La questione qui è quella in cui i vescovi statunitensi sono in disaccordo tra loro, non con il papa, e non ha nulla a che fare con il matrimonio.
Ma poi mi sono reso conto, riflettendo, che queste due controversie nascono entrambe dalla sfiducia nel giudizio pastorale, piuttosto che da un formale disaccordo teologico. La teologia del matrimonio in Amoris Laetitia è interamente congruente con la tradizione cattolica. Ma alcuni pensano che il suo appello per l’accompagnamento pastorale delle coppie divorziate, con un discernimento secondo le circostanze individuali, sarebbe stato applicato in modo errato fino a minare l’insegnamento sulla dignità per la ricezione della comunione. In altre parole, non erano disposti a fidarsi dei pastori per applicare un insegnamento, anche se l’insegnamento stesso non veniva messo in discussione.
Allo stesso modo, nell’attuale dibattito nella Chiesa degli Stati Uniti sui politici pro-choice che ricevono la comunione, penso che il problema non sia il disaccordo sull’insegnamento della Chiesa sull’aborto o il fatto che il rifiuto di esso potrebbe avere un impatto sulla dignità di ricevere la comunione. Nessun vescovo sta negando nessuna di queste affermazioni. C’è piuttosto una tendenza tra alcuni cattolici a trattare i giudizi pastorali sull’applicazione di questi insegnamenti come equivalenti all’eresia se non sono abbastanza severi.
Il principio maligno della sfiducia
Spesso, chi prende questo tipo di posizione sostiene che i principi teologici coinvolti sono così chiari che ammettono una sola conclusione pratica: la comunione deve essere negata. Quindi, chiunque sia in disaccordo deve essere davvero restio ad accettare pienamente l’affermazione teologica sottostante – piuttosto che esprimere giudizi pastorali su come meglio rimanere vicino a qualcuno che rifiuta o resiste ad alcune parti della dottrina della Chiesa, come dicono costoro.
Ma detto in questo modo, il ruolo velenoso della sfiducia diventa ovvio. La conclusione tratta dalla sfiducia è effettivamente circolare, garantendo che chiunque arrivi a un diverso giudizio pastorale su una questione di sufficiente importanza deve essere preso come uno che rifiuta una verità teologica.
Papa Francesco ha una visione più ampia – e direi anche più coraggiosa – di ciò che significa essere un pastore. Penso che questa visione vi sia anche spazio per i vescovi, in quanto pastori, per essere in disaccordo tra loro sul modo migliore di procedere – sia in generale che in particolari circostanze concrete.
Papa Francesco invita i pastori a fidarsi dello Spirito Santo, che li guida a prendersi cura del loro gregge “con lo stile di Dio”. Così facendo, ricorda anche a tutta la Chiesa che è Dio, prima di tutto, che ci raggiunge con la “vicinanza, la compassione e la tenerezza” che dovrebbe modellare la cura pastorale della Chiesa, specialmente per coloro che sembrano allontanarsi dal gregge.
- Pubblicato sulla rivista dei gesuiti statunitensi America (nostra traduzione dall’inglese).