La nota fiaba della lepre e del porcospino dei Fratelli Grimm fu riletta da J.B. Metz in una delle sue celebri opere nella quale prese – inaspettatamente – le difese della lepre ingannata. Secondo Metz, infatti, il cristianesimo, nella sua indole storico-escatologica, si realizza soltanto nella forza della corsa come possibilità di esperienza reale. La furbizia del porcospino, che pur di vincere la sfida posiziona anzitempo alla meta la sua compagna, cela il dilemma teologico al fondo di ogni blocco o crisi ecclesiale: la difesa di una verità, svestita di carne, e ricoperta di idealismo.
La mancata corsa del porcospino rappresenta la scarsa fiducia nei confronti di un’esperienza umana – carica di contraddizioni – ancora da scoprire e apprezzare a fondo. Il dilemma teologico del porcospino si manifesta nella sicurezza granitica della vittoria, nell’identità ecclesiale assicurata che non valuta «la possibilità della sconfitta»[1].
Quanta sapienza invece è contenuta nel corpo esanime di Gesù in croce nel momento del fallimento estremo? Quanto stupore genera lo scandalo di un Dio che diventa umano come noi? Invece, quante volte i terribili scandali di uomini e donne di Chiesa offuscano lo scandalo essenziale del cristianesimo?
Gli abusi
In primo luogo emergono gli scandali degli abusi sui minori che ormai in vari paesi del mondo diventano veicolo di diffamazione e di distruzione della credibilità delle Chiese locali. Nonostante siano passati quasi vent’anni da quando la Chiesa affronta diversamente il fenomeno, permane l’atteggiamento difensivo che nuoce ulteriormente: accettare la sconfitta è dura per la Chiesa! La dimensione penitenziale prima (a volte meramente celebrativa) e quella della tolleranza zero poi (dai contorni non propriamente evangelici) non risultano mezzi esaustivi.
“Il Vangelo dello scandalo” chiama la Chiesa ad un passo ulteriore nella sfida sugli abusi poiché permane un grido di sfiducia e di rabbia che desidera essere trasformato solo se la Chiesa è disposta a convertire sé stessa nella possibilità della sconfitta accettata e metabolizzata.
Più profondamente si tratta di accogliere e recepire, in maniera radicale e sistematica, l’esperienza e il dolore delle persone abusate, quali soggetti di un’autorità “debole”[2]. Sono uomini e donne muniti di questa autorità capace di condurre la Chiesa verso autentici cammini di rinnovamento nell’ambito teologico, pastorale, spirituale e di governo.
La Chiesa vivrà processi di autentica conversione soltanto se impara da questo Magistero dei deboli e degli abusati, se esso diventa norma da considerare ai fini dell’adesione al Vangelo. La coraggiosa stagione sinodale in corso produrrà i suoi frutti soltanto se seguirà i passi di questo magistero scomodo che richiede non soltanto abilità nell’attenuare gli scandali bensì intelligenza critica per risalire alle cause e capacità creativa per inaugurare nuovi modelli ecclesiali.
Con grande lucidità mons. Éric de Moulins-Beaufort, Presidente della Conferenza Episcopale Francese, ha dichiarato: «Dobbiamo riconoscerlo e confessarlo: abbiamo lasciato svilupparsi un sistema ecclesiastico che, lungi dal portare la vita e aprire alla libertà, distrugge, schiaccia, schernisce esseri umani e i loro diritti più elementari. Siamo obbligati a constatare che la nostra Chiesa è un luogo di gravi crimini, di terribili attacchi alla vita e all’integrità di bambini e adulti».
Grazie al magistero degli abusati, l’autocritica ecclesiale fornirà un prezioso contributo alla sinodalità per rintracciare le cause all’origine di questo sistema ecclesiastico malato al fine di recuperare il dinamismo del Vangelo che libera, senza opprimere, la dignità umana. Un sistema che necessita una revisione non soltanto nella morale e nell’educazione sessuale, ma anche nello scacchiere relazionale e nell’impostazione formativa degli attuali e futuri presbiteri. La crisi degli scandali scardina il velo di ipocrisia che, a volte, tiene in piedi un profilo ministeriale disincarnato, ancora troppo distante dall’approccio con le scienze umane e dalla considerazione battesimale della Chiesa.
Non è sufficiente auspicare il ritorno a situazioni storiche ormai seppellite, a meno che non si voglia sotterrare l’identità e la missione della Chiesa chiamata, oggi con più urgenza, a passi più spediti non verso mete ideali ma verso l’urgenza di comunicare a persone nuove – con categorie nuove – il Vangelo della gratuità in grado di trasformare ogni sconfitta in apertura inedita verso l’altro.
[1] J.B. Metz, La fede nella storia e nella società, Queriniana, Brescia 1978, 158.
[2] Così J.B. Metz nella prolusione all’Istituto Trentino di cultura, 24 novembre 2000.
Tutto è iniziato a deteriorarsi con l’avvento del clericalismo (tra il III ed i IV sec) quando la laicità della chiesa è andata via via perduta. Fu allora che il rito liturgico assunse una fisionomia sacrale e fu separato dall’esistenza laica dei fedeli. Nella prospettiva del potere del clero occorreva ripristinare l’ambito della separatezza sacrale e quindi un culto separato dalla vita reale (sacro), dei funzionari consacrati, anch’essi separati dalla comunità (appartenenti ad uno status privilegiato), delle suppellettili e dei paramenti sacri, capaci di marcare la distanza tra il clero ed il popolo, dei luoghi sacri adibiti al culto, ben distinti dalla vita quotidiana, dei libri sacri che potevano essere letti e commentati solo dal clero, … E’ tutto un processo di sacralizzazione che manifesta il potere del clero basato sul sacro. Una dottrina ad hoc fu elaborata per legittimare tale potere. Si manipolarono i testi della scrittura, si falsificarono documenti storici, si piegò la teologia dei padri della chiesa ad una convenienza clericale, furono stilate regole ecclesiastiche e si formò un primo abbozzo di diritto codificato (Decretum Gratiani, XII secolo) anch’esso posto a giustificare il potere della gerarchia, unico soggetto auto investito del potere divino di interpretare la scrittura, di ammaestrare le masse dei fedeli, di governare le comunità, di somministrare i sacramenti. E’ del tutto naturale in tale prospettiva che la liturgia divenne la massima espressione della sacralità, una enorme lontananza dalla vita concreta della gente, una totale estraneità tra l’esistenza reale dei fedeli ed il culto reso a Dio tramite i mediatori sacri. Ogni laicità originaria era cancellata La dirompente vitalità di Gesù fu mortificata in una solennità distantissima dal popolo, a cui il popolo assisteva inconsapevole, una serie di riti incomprensibili che servivano solo a suggellare il potere del clero su ogni battezzato. Per lunghi secoli si andò avanti così, nell’ignoranza generale alimentata ad arte dal potere. Poi la modernità ha risvegliato le coscienze ed oggi sempre più uomini e donne si chiedono ogni domenica in chiesa: “ma che ci faccio qui ?”. E si annoiano prima di abbandonare … Ecco il risultato dell’annullamento della personalità dei cristiani che il clero ha praticato per lunghissimo tempo nel corso della storia.
Tutto il fervorino filerebbe liscio se quell’ebreo marginale chiamato Gesù non fosse stato un assiduo frequentatore di sinagoghe e Tempio con i loro “esecrandi” (mi si perdoni il gioco di parole) riti e feste sacre.
Il “fervorino” fila liscio perchè Gesù non è stato affatto un “assiduo frequentatore di sinagoghe e Tempio”. Egli ci ha insegnato con la Sua vita che la fede non è dottrina e culto.