La visita in Cina del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (21-26 febbraio), è stata definita dai media una «missione di sistema» (Il Sole 24 ore). L’idea di missione in terra cinese evoca ben altri ricordi, molto lontani, quando la Cina era poco più che un nome nella memoria degli eruditi o nei racconti dei mercanti veneziani. Furono francescani i primi missionari cattolici a giungere in Cina e a predicarvi il vangelo, due secoli e mezzo prima dei gesuiti. A pochi anni dalla morte di Francesco d’Assisi, nel 1226, l’Europa si trovò minacciata dalle orde dei Tartari, giunte fino alle porte di Cracovia (1241). Nel 1245, aprendo il Concilio di Lione, Innocenzo IV invocò un remedium contra Tartaros. Si decise di inviare un legato pontificio alla corte del Gran Khan per impetrare la conversione dei Tartari e la rinuncia alla conquista dell’Europa. Del compito fu incaricato il francescano Giovanni da Pian del Carpine, il quale percorse più di 10 mila chilometri «per poter portare a compimento la volontà di Dio, secondo l’incarico del signor papa e per essere in qualche modo d’aiuto ai cristiani». Fu il primo europeo, il primo cristiano a recarsi in queste terre lontane dell’Asia, portando, nel nome di tutta la cristianità e del pontefice romano, un’ambasciata di pacificazione, ma anche con l’obiettivo di conoscere quel popolo misterioso, e soprattutto quale fosse il segreto della forza dei suoi eserciti. Una storia affascinante raccontata da Wiesław Block nel volume Un Frate dai Tartari. Le avventure del primo europeo nell’impero del Gran Khan (EDB, 2014), di cui riprendiamo un estratto.
La conoscenza di tanti paesi d’Europa e di molte lingue, l’esperienza di uomini e di cose, la dottrina e la prudenza fecero di Giovanni uno dei più significativi esponenti della prima generazione minoritica.[1] Egli apparteneva ancora a quel gruppo iniziale di uomini che avevano potuto conoscere Francesco d’Assisi e, osservando il suo esempio, avevano imparato in che senso vivere il vangelo portasse a una totale libertà e a una grande apertura e disponibilità per muoversi anche verso luoghi sconosciuti e difficili. Nessuno dei convenuti al famoso capitolo generale del 1221 – dal quale provengono, come è stato detto sopra, le prime notizie su frate Giovanni – pensava che quel frate, proveniente dalla zona del lago Trasimeno, partisse un giorno non solo ad annunciare il vangelo nella terra di Germania, ma si dirigesse addirittura verso le lontane terre d’oriente, come un insolito legato papale che portava nel suo saio il messaggio di tutta la cristianità, un annuncio e una richiesta di mediazione rivolta alle tribù mongole, le quali finora avevano voluto solo distruggere e terrorizzare i villaggi e le città dell’Europa orientale.
Si può dire, infine, che Giovanni fu il primo figlio e compagno di Francesco che ha riunito in una sola persona la semplicità e povertà francescana con le doti necessarie per la grandezza e l’importanza della missione richiesta, cioè essere ambasciatore, portavoce del papa e di tutta la cristianità.
Fanno luce le notizie trasmesse da coloro che lo hanno conosciuto personalmente, come Giordano da Giano oppure Salimbene da Parma, i quali ci testimoniano le qualità personali, intellettuali, culturali e spirituali di Giovanni. Tutti i testimoni mettono in prima fila quelli che sono gli attributi propri del suo essere frate minore: la sua capacità di predicazione («grande teologo e predicatore», sottolinea la Cronaca di Giordano: cf. Giordano 19: FF 2345), per elogiare poi la sua fedeltà nell’incarico di ministro provinciale, primo custode della Sassonia, dove l’affabilità e l’amore verso i confratelli (ma anche la sua abilità nel diffondere l’Ordine e la fermezza nel sostenerlo) hanno portato frate Giordano a paragonarlo – con un’immagine bella e femminile – a una chioccia che si prende cura dei suoi pulcini:
Egli fu il più grande divulgatore del suo Ordine. Infatti, fatto ministro, mandò frati in Boemia, in Ungheria, in Polonia, in Dacia e in Norvegia. Ricevette anche una casa a Metz e piantò l’Ordine in Lotaringia. Fu un valoroso difensore del suo Ordine davanti ai vescovi e principi. Egli proteggeva e governava i suoi frati, con pace e carità e ogni sorta di consolazione, come una madre i figli, e come una chioccia i suoi pulcini (Giordano 55: FF 2385).
Tale paragone ricorda subito l’immagine accostata, nel Memoriale, da Tommaso da Celano a Francesco, il quale una notte, nel sonno, vide una gallina piccola e nera che aveva moltissimi pulcini. Quando si svegliò, non aveva nessun dubbio che la gallina sognata fosse proprio lui e che i pulcini fossero i frati (cf. Mem 24: FF 610). Quindi, nella descrizione di Giordano da Giano il suo protagonista, Giovanni da Pian del Carpine, nella sua cura e dedizione come ministro provinciale verso i confratelli era in tutto simile a Francesco d’Assisi.
Anche il cronista parmense, da parte sua, traccia un ritratto assai lusinghiero delle doti spirituali e morali del suo confratello francescano. Salimbene sottolinea infatti la sua personale e profonda stima per il frate missionario, il quale, da vero erede e propagatore della nascente tradizione minoritica, attraverso il suo comportamento faceva risplendere le virtù proprie di essa: la gioia di vivere, l’apertura e l’accoglienza verso l’altro per poter condividere le sue esperienze, l’esemplare semplicità vissuta da colui che era un grande ambasciatore e in seguito un diplomatico della Santa Sede, e – quello che piaceva di più – il distacco dalle cose materiali e la sua ricchezza spirituale:
E io mangiai insieme a frate Giovanni nel convento dei frati Minori e anche fuori in abbazie e in conventi magnifici, non una volta sola né solo due. Lo invitavano infatti volentieri e di frequente, tanto a pranzo quanto a cena, sia perché era legato del papa, sia perché era inviato al re di Francia, sia perché era reduce del paese dei Tattari, e anche perché apparteneva all’Ordine dei frati Minori ed era considerato da tutti uomo di santissima vita. Dicevano infatti: «Arriva un uomo della stirpe di Aaron, non ci ingannerà» (1Mac 7). E una volta che ero a Cluny, mi confidarono quei monaci Cluniacensi: «Fossero sempre così gli inviati del papa, come è stato frate Giovanni, di ritorno dai Tattari! Infatti gli altri legati, se possono, spogliano le chiese e portano via tutto quello che possono. Ma frate Giovanni, quando è passato, non volle prendere nulla, tranne quanto panno occorreva per fare una tonaca al suo compagno» (Salimbene 908-910).[2]
Frate Giovanni, essendo di natura molto socievole, ben istruito e colto, offriva ai commensali – dice ancora Salimbene – un’altra indimenticabile esperienza. Egli portava sempre con sé la sua Historia mongalorum: la leggeva e ogni volta, quando era necessaria qualche spiegazione o per l’incomprensione di alcuni passi o per la meraviglia e l’incredulità che suscitavano gli eventi che vi erano narrati, la commentava personalmente, aprendo in questo modo ai suoi interlocutori gli orizzonti sul mondo tanto lontano e sconosciuto:
Quando arrivai al primo convento dei frati Minori che si incontra dopo Lione, vi giungeva lo stesso giorno fra Giovanni da Pian del Carpine, che tornava dal paese dei Tartari dove l’aveva mandato Innocenzo IV. Era questo frate Giovanni uomo socievole, spirituale e colto, grande parlatore, esperto in molte cose e una volta era stato ministro provinciale dell’Ordine […]. Ancora ci disse lo stesso frate Giovanni che, con molte estenuanti marce e stenti, con molte sofferenze per la fame, il freddo e il caldo, era arrivato al gran signore dei Tartari; e che si chiamano Tattari e non Tartari, e che mangiano carne di cavallo e bevono latte di giumenta […]. Inoltre frate Giovanni scrisse un grosso libro sulle costumanze dei Tattari e le altre meraviglie del mondo, come le aveva viste con i suoi occhi. E quando era stanco di raccontare le cose dei Tattari, faceva leggere questo libro – come più di una volta io stesso ho visto e ascoltato –; e se capitava che le cose lette lasciassero perplessi o fossero oscure, interveniva a spiegare e commentare con pazienza ogni cosa (Salimbene 866.869.872).
Giovanni, senza dubbio, si presenta come un frate esemplare, forse uno dei pochi in grado di portare a compimento l’incarico assai difficile di recarsi presso un popolo bellicoso di cattiva fama, un popolo tanto lontano non solo dal punto di vista geografico ma soprattutto culturale. L’esito finale dell’avventura del frate umbro sicuramente non sarebbe stato positivo, se egli avesse dimenticato l’esempio personale del Santo di Assisi e le norme di comportamento tra gli infedeli, lasciate da Francesco nella Regola discussa durante il famoso capitolo del 1221. L’Assisiate invitava i suoi frati, i quali volessero recarsi tra i saraceni, a un duplice comportamento: prima di tutto comandando loro che «non facciano liti o dispute, ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani» (Rnb 16,6: FF 43), si trattava, infatti, anzitutto di essere presenti, di immergersi nella nuova cultura senza imposizioni violente del proprio modo di vedere; e solo dopo, in un secondo momento, annunciare il vangelo.
Il compagno di viaggio di frate Giovanni, frate Benedetto Polono, testimonia nella sua Relazione come lungo il cammino dovessero testimoniare con coraggio la fede in Gesù Cristo, soprattutto quando un giorno si trovarono davanti alla statua del Gran Khan, che tutti adoravano; i frati invece si rifiutarono di prostrarsi davanti all’idolo e accettarono solo di chinare leggermente il capo.[3] Un altro esempio della loro fede è la fedeltà alla preghiera liturgica. Pietro Messa si è reso conto che tutta la Historia mongalorum prende come criterio di datazione le varie feste e i giorni liturgici. Tutto questo indica come la recita del breviario fosse un momento importante per frate Giovanni.[4]
La prassi di un altro emissario del papa, il frate predicatore Ascelino da Cremona, era invece molto diversa.[5] Egli, nella seconda metà del 1247, raggiunse l’accampamento del Gran Khan sugli altipiani del Karabagh. Purtroppo frate Ascelino, uomo rigido, tenace e di poco tatto, rifiutò assolutamente di conformarsi all’etichetta mongola, per cui sfuggì per poco alla condanna a morte. Dato il suo ostinato rifiuto di procedere per la Mongolia, le sue lettere, tradotte in persiano, furono inviate a Qaraqorum. Ascelino, grazie alla mediazione del commissario imperiale del Gran Khan, poté ritornare in patria sano e salvo e arrivò a Lione nell’estate del 1248. La sua missione però non produsse nessun frutto.[6]
La Storia dei mongoli offre molte altre pagine che mostrano come il frate ambasciatore riuscisse ad arrivare alla corte del Gran Khan grazie al suo modo di essere, da una parte, semplice e umile all’insegna della minoritas e, dall’altra, dignitoso e intelligente, distintivo del legato papale. Basti un solo esempio: un certo prefetto di nome Micheas (una città mongola chiamata Kiovia) viene ricordato dall’opera per la sua falsità. Questi aveva forzato frate Giovanni a entrare nella sua città, dicendo che così era la volontà del comandante dell’orda, Corenza:
Egli infatti, a Kiovia ci aveva mandato incontro alcuni suoi emissari i quali, falsamente, avrebbero dovuto dire per conto di Corenza che se fossimo stati ambasciatori, ci saremmo dovuti recare da lui. Non era vero, ma faceva ciò per poterci estorcere doni. Quando infatti arrivammo da lui e senza promessa di doni, non si mostrò affatto ben disposto nei nostri riguardi: non voleva assolutamente farci da scorta. Noi, dal canto nostro, resici conto che non potevamo procedere oltre in altro modo, promettemmo di dargli alcuni regali. Poiché gli davamo cose che ci sembrava opportuno dargli, non voleva accettarle, se non gliene davamo di più. Per ciò fu necessario per noi aggiungere secondo la sua volontà; e alcune cose ce le sottrasse subdolamente, con inganno e malizia (St. Mong. IX, 6).
Un’altra prova della maturità della diplomazia di Giovanni ci viene data dalla sua abilità nell’accettare le norme di comportamento nei confronti del Gran Khan e degli altri principi, ai quali si tributavano onori quasi divini:
Dopo aver ricevuto i doni, ci condussero alla sua orda, o tenda e ci fu insegnato a inchinarci tre volte con il ginocchio sinistro davanti all’ingresso, e a guardarci bene dal porre il piede sulla soglia; facemmo ciò diligentemente, perché su coloro che calpestavano volontariamente la soglia della tenda di qualche capo, incombe la pena capitale. Dopo essere entrati, dovremmo dire inginocchiati, davanti a Corenza e a tutti gli altri maggiorenti che erano stati convocati per l’occasione, tutte quelle cose che abbiamo riferito prima (St.Mong. IX, 11).
Se non avesse rispettato queste o altre simili tradizioni, tra le quali c’era anche la prova del fuoco (cf. St. Mong. IX, 14), Giovanni non sarebbe stato ascoltato. Ma la diplomazia e il fascino personale del frate minore dovettero impressionare anche lo stesso imperatore, perché dopo il primo incontro, invece di far sistemare gli inviati del papa alla sua sinistra con gli altri ambasciatori, dette loro il posto d’onore alla sua destra (cf. St. Mong. IX, 17).
Infine, vale la pena ricordare ancora la descrizione che di frate Giovanni fece papa Innocenzo IV nella lettera indirizzata all’imperatore dei mongoli. L’elogio fa parte sicuramente di una più articolata strategia diplomatica del pontefice romano, ma in qualche modo preannuncia ciò che poi sarebbe avvenuto durante il viaggio di frate Giovanni e dei suoi compagni:
Ed ecco perché decidemmo di mandare a voi il diletto figlio nostro frate Giovanni con i suoi compagni, latori delle presenti lettere, uomini di profonda religiosità, veramente degni per la loro onestà e versati nella conoscenza delle sacre Scritture; per rispetto di Dio ricevete costoro, anzi piuttosto noi stessi, benevolmente e trattateli con grande onore, prestando fede ad essi per ciò che vi diranno da parte nostra e concludendo con essi un trattato giovevole circa le cose che vi abbiamo raccomandato e soprattutto per ciò che riguarda la pace, e per mezzo degli stessi frati fateci compiutamente sapere che cosa vi ha indotto a sterminare gli altri popoli e che cosa intendiate fare per il futuro; provvedete ai frati tanto all’andata, quanto al ritorno, di sicura guida e delle altre cose necessarie, perché possano tornare tranquillamente alla nostra presenza. Abbiamo dunque deciso di mandarvi quei frati – che abbiamo preferito ad altri in quanto già provati di una lunga vita di disciplina religiosa e assai istruiti nelle sacre Scritture –, perché li reputammo i più adatti a questa missione presso di voi; e se avessimo ritenuto che se ne fossero potuti trovare di più efficaci e di più graditi a voi, vi avremmo inviato altri prelati della Chiesa e altri dignitari (Lettera di papa Innocenzo IV Cum non solo homines).
L’importanza storica di frate Giovanni da Pian del Carpine risiede innanzitutto nel ruolo di rilievo da lui ricoperto nella storia dell’espansione minoritica della prima metà del XIII secolo, mentre la missione per la quale è maggiormente conosciuto fu certamente un’esperienza fondamentale della sua vita e consentì la composizione di quello straordinario documento che è l’Historia mongalorum. Questo frate, il quale a suo tempo aveva conosciuto Francesco di Assisi, era riuscito in un altro e totalmente diverso contesto politico-diplomatico a rispondere pienamente alla richiesta che gli era stato fatta dal papa. Leggendo le pagine della sua opera, si vede chiaramente come il suo spirito minoritico sapesse incarnarsi nel nuovo ruolo richiesto, quello di legato pontificio, impegnato in una difficile missione ispirata più dalla necessità di fronteggiare una grave e imminente minaccia che da un desiderio di conversione o di evangelizzazione. E proprio la consapevolezza di questa responsabilità e la coscienza di essere il privilegiato osservatore e testimone dell’effettivo grado di pericolosità del popolo mongolo, ispirarono in sostanza la composizione del suo celebre resoconto. La storia della sua attività diplomatica in qualche modo aveva rimosso, almeno in parte, la paura dell’occidente nei confronti dei mongoli, aveva dischiuso all’Europa un mondo nuovo fino ad allora conosciuto solo attraverso racconti fantastici e aveva aperto la via a successive avventure: molti altri, missionari e commercianti, sarebbero infatti partiti verso le remote regioni dell’oriente, seguendo quel primo cavaliere del Santo di Assisi.[7]
[1] La grandezza della personalità e degli orizzonti umani e spirituali di frate Giovanni fu ben descritta da Pietro Messa: «Giovanni da Pian del Carpine durante la sua vita si confrontò quasi con tutte le culture e le regioni conosciute del suo tempo. Originario dell’Italia centrale, fu missionario in Germania, ministro della provincia dei frati Minori di Sassonia e di Spagna, passò per la Boemia, la Polonia, la Russia e giunse fino a Qaraqorum; passò gli ultimi anni della sua vita in Dalmazia. Conobbe più o meno direttamente alcune delle più grandi figure della Cristianità: Francesco d’Assisi, frate Elia, Agnese di Praga e tutta la casa dei principi boemi, il santo re Ludovico IX, Gregorio IX e Innocenzo IV» (Messa, «Un francescano alla corte dei mongoli», 29).
[2] Annota Pietro Messa, commentando la testimonianza di Salimbene: «Questo atteggiamento ci rimanda direttamente a Francesco che più di una volta diede il suo mantello a un fratello più povero o fece cambio della tonaca con un frate che l’aveva più consumata» (Messa, «Un francescano alla corte dei mongoli», 33).
[3] Cf. «Relatio fratris Benedicti Poloni», 137.
[4] Cf. Messa, «Un francescano alla corte dei mongoli», 31-32.
[5] Il viaggio di Ascelino è stato narrato da Simone di Saint-Quentin, che faceva parte della sua comitiva. L’opera è perduta, ma sono conservati copiosi frammenti nello Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, che sono stati raccolti da J. Richard, Simon de Saint-Quentin, Histoire des tartares, Paris 1965.
[6] Cf. Petech, «Introduzione», 33-34; si veda anche F. Sorelli, «Per regioni diverse: fra Giovanni di Pian del Carpine», in I compagni di Francesco e la prima generazione minoritica, Atti del XIX Convegno internazionale della SISF (Assisi, 17-19 ottobre 1991), a cura di E. Menestò, Spoleto 1992, 261-283.
[7] Cf. Menestò, «Giovanni di Pian di Carpine», 67. Per approfondire ancor più le caratteristiche spirituali di frate Giovanni si consiglia il lavoro di Messa, «Un francescano alla corte dei mongoli», 19-37.