Apparentemente, ciò che sto scrivendo non ha alcun legame evidente con il tema della sinodalità, ma accade che, in questi ultimi anni, mi accompagni un ricorrente «delirio teologico», che segna indelebilmente la mia difficile sfida di seguire Gesù di Nazaret.
È un pensiero ereditato dal cammino compiuto, negli anni Ottanta e Novanta, assieme alle famiglie contadine del Maranhão, al tempo del protagonismo laicale delle Comunità di base (Cebs) e della lotta per conquistare terra e dignità, affrontando la prepotenza del latifondo e i poteri nemici dello stato.
Chiesa povera, samaritana, martiriale
Fu una stagione della storia della Chiesa segnata dal sangue dei martiri della terra ed è proprio questa memoria che, ancora oggi, mi obbliga a coniugare sinodalità e martirio. L’esperienza delle comunità di base è, infatti, la profezia esistenziale della sinodalità: una Chiesa povera, samaritana, antigerarchica, testimone del Regno, martiriale. Chiesa che nasce e cresce lontano dal Tempio, nelle case, intorno a una tavola, sotto un tetto di paglia, condividendo la Pasqua di Gesù e la Vita. Una Chiesa che coniuga la parola di Dio con la Vita. Una Chiesa che prega e canta. E assume la lotta per la giustizia del Regno come sua missione.
L’agape, l’Amore cristologico, fondamento della comunione e del camminare insieme, coincide con l’evento della Pasqua, si rivela nella Croce gloriosa del Figlio di Dio, Figlio dell’uomo. L’agape si identifica costitutivamente con la possibilità del martirio fin dal momento in cui Gesù chiama i discepoli a seguirlo sulla via di Gerusalemme. E il martirio è l’inevitabile conseguenza della radicale opposizione di Gesù al Tempio, al Mercato e al Palazzo, responsabili del dolore e della morte dei piccoli, dei poveri e degli emarginati. Il martirio è estrema fedeltà alla missione di accogliere il Regno di Dio: un progetto di giustizia, di pace e di fraternità universale. È l’unica via scelta da Dio per costruire una nuova umanità che possa sconfiggere l’indifferenza, il risentimento, l’odio, l’arroganza, la vendetta, la violenza e la guerra. E il martirio è la cifra del nostro Battesimo e dell’Eucaristia.
La sinodalità avviene quando ci immergiamo nella vita del popolo sofferente e in questo «camminare insieme» ereditiamo il dono prezioso della liberazione dalle nostre presunzioni clericali e dalla nostra arroganza. Ed è per la solidarietà ai poveri che partecipiamo, in eredità, pure l’odio, l’esclusione e la persecuzione normalmente a loro riservata.
Nonostante la permanenza strutturale del dominio patriarcale nella Chiesa, la convivenza con i piccoli di Gesù è la scuola che contribuisce alla maturazione della Fede, della Speranza, dell’Agape. In questo contesto avviene la grazia della sinodalità, della fraternità, della condivisione e del discernimento dei diversi carismi al servizio della comunione ecclesiale.
Ci è data ancora la possibilità di incontrare i poveri che non si sono lasciati sedurre dalle false ricchezze e che, vivendo quotidianamente nelle mani di Dio, ci invitano a spogliarci di vesti teologiche e ideologiche inefficaci e dannose. Insomma, la sinodalità si realizza in un processo orto-pratico, ove sinodo si articola con esodo, con Chiesa in uscita: uscita da sé stessi, amando martirialmente, come Dio ama.
Polarizzazioni ecclesiali
Le metodologie e le strategie per costruire il dialogo e l’ascolto per superare i conflitti sono ovviamente importanti e lodevoli. Importante è il tentativo etico e politico di superare le polarizzazioni che caratterizzano oggi la crisi del cattolicesimo.
Si tratta di polarizzazioni che riecheggiano le inimicizie politiche che caratterizzano la storia odierna: non si tratta, infatti, solo di gravissime tensioni tra tradizionalisti e conciliaristi, ma dello scontro tra fascismo rivisitato a livello internazionale e ciò che resta della sinistra democratica.
Di fronte alle deviazioni tradizionaliste, agli evidenti tradimenti del pensiero, della pratica e della persona di Gesù, non possiamo reagire con la stessa aggressività e arroganza, ma pensare che il dialogo e l’ascolto sinodale possano essere un antidoto è peccare ingenuità.
Penso, ad esempio, all’ultima lezione di Clodovis Boff, che, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, si è mostrato inquisitoriamente e ferocemente critico nei confronti di tutti coloro che non vivono e non pensano la fede in Cristo Gesù come lui, al punto da non considerarli più cristiani e tanto meno cattolici. Clodovis rafforza, con l’autocritica radicale del suo passato di teologo della liberazione, i segmenti cattolici che non hanno mai accettato il Vaticano II e Medellín, e che fanno opposizione esplicita o silenziosa al pontificato di Francesco.
Sono preoccupato per questa polarizzazione intraecclesiale, che è pericolosa a causa della sintonia di molti tradizionalisti con la nuova destra internazionale, sacrificalista e mortifera.
Oggi, nel cammino ecclesiale, siamo obbligati a convivere col popolo silenzioso e obbediente, che fin dalla prima colonizzazione è stato educato a introiettare un’interpretazione religiosa e devozionale del cattolicesimo, che continua a garantire la riduzione della “comunità” a gregge assistito e controllato dal clero. È la Chiesa che “funziona”, la Chiesa egemonica, che io rispetto, anche perché, certamente, nell’intimità più nascosta della vita di tanti fedeli, esiste un’autentica fedeltà al Vangelo.
Ma troviamo anche fratelli e sorelle che appartengono al gregge irrazionale e violento dei nostalgici ribelli. Sono convinto che l’affabilità e gli argomenti siano necessari quando si tratta delle religiosità popolari, ma inutili e controproducenti per la costruzione della fraternità quando incontriamo tradizionalisti rivoltati e aggressivi.
Sono sicuro però che, in questo dialogo negato, chi vince evangelicamente il confronto è colui che perde, colui che è sconfitto. E, ogni giorno, percepisco chiaramente che la sconfitta non è un incidente di percorso, ma, al contrario, una verità messianica. Sconfitti, ma non paralizzati nella scoperta e nella costruzione del Regno, con la speranza che ci sia, nonostante tutto, abbastanza tempo per la nostra conversione all’Agape di Gesù e che i pericoli dell’intolleranza totalitaria e omicida, che ci hanno assillato recentemente e che ancora ci minacciano, dentro e intorno alla Chiesa, possano essere contenuti e superati.
Alcune impressioni sull’Instrumentum laboris
Il primo aspetto rilevante è metodologico. È la scelta di articolare alcune delle priorità che sono sorte nell’ascolto del Popolo di Dio: ma l’IL evita di presentarle come affermazioni o posizioni. Invece, le esprime come domande rivolte all’Assemblea sinodale. E tutte le domande sono serie, necessarie e impegnative.
Un altro aspetto metodologico positivo è la scelta di favorire l’ascolto reciproco e l’ascolto dello Spirito, per arrivare al discernimento per conoscere «ciò che Egli dice alle Chiese» (Ap 2,7).
Si aggiunge che non è prevista una conclusione definitiva del Sinodo, perché il processo di ascolto è costitutivo dell’identità ecclesiale. Un’affermazione che riprende uno dei criteri di discernimento di papa Francesco: “il tempo è superiore allo spazio”, ossia è più sensato scommettere sui processi che controllare e definire i rapporti ecclesiali con l’autorità.
Un aspetto metodologico che mi sembra nuovo ed estremamente importante è l’ordine offerto al processo di ascolto reciproco. Innanzitutto, l’evento si svolgerà dopo un silenzioso ritiro spirituale e, nelle sessioni, si svolgeranno gli interventi intrecciati a momenti di silenzio, preghiera e meditazione. Indubbiamente, si tratta di un indispensabile antidoto alla preponderanza delle parole dei numerosi documenti preparatori: cinquantacinque pagine solo per questo Instrumentum laboris. È il vizio cimiteriale della maggior parte dei documenti ecclesiali: migliaia di parole, che nessuno legge, che passano come cadaveri da un documento all’altro. Eredità del primato affidato alla dottrina e all’indottrinamento, quando la vita cristiana è eminentemente fatta di atteggiamenti, gesti, azioni concrete, di orto-prassi.
Macroecumenismo
Nell’Instrumentum laboris rimane la distinzione conciliare tra ecumenismo e dialogo interreligioso. Nell’Abya Ayala, l’approfondimento pratico e teologico di questa rinnovata attenzione al dialogo, all’alterità e alla reciprocità si è espresso nella prospettiva del macroecumenismo, pratica e riflessione teologica che vanno oltre la distinzione iniziale tra ecumenismo e dialogo interreligioso. E, più recentemente, si è aperto un dialogo tra il macroecumenismo e un’altra corrente teologica di origine asiatica ed europea: la Teologia del pluralismo religioso o, come traduce il nostro Marcelo Barros, la Teologia del pluralismo interculturale.
Macroecumenismo: una parola nuova, latino-americana, nata nel settembre 1992, durante il primo Incontro Continentale dell’Assemblea del Popolo di Dio a Quito, Ecuador. Fu Pedro Casaldàliga a proclamare e fondare questo sogno, che il teologo José Maria Vigil presentò teologicamente nel libro Spiritualità e Liberazione, pubblicato in quella stessa occasione. Una parola nuova, che nasce nell’ambito dell’incontro con popoli portatori di culture, tradizioni, visioni del mondo e della terra diverse, religioni e religiosità diverse.
È stata la scoperta di altre religiosità, nascoste e conculcate dal processo secolare della cristianità coloniale, che ci ha portato a ripensare e ravvivare in un altro modo il rapporto pastorale con i caboclos, con i neri, con la cosiddetta religiosità popolare. È stato l’ascolto dei contadini, delle loro lotte e resistenze, che ci ha portato – e ci porta – ad atteggiamenti autocritici delle dimensioni eurocentriche, ecclesiocentriche e coloniali di un certo cristianesimo. Sono i volti dei poveri e degli indigeni che ci risvegliano non solo alla sfida dell’uguaglianza, ma anche al diritto alla diversità culturale e religiosa.
Il macroecumenismo è assolutamente ortopratico: nasce dalla convivenza fraterna e difende la pratica di pregare e celebrare la vita in comunità – e di lottare per essa – in presenza e alleanza di spiritualità diverse.
Forse la distanza dalle religiosità popolari e la resistenza rispetto ad un’agenda macro-ecumenica è uno dei limiti del processo sinodale.