L’emittente statale irlandese RTÉ ha trasmesso a gennaio due documentari sul declino della Chiesa cattolica in Irlanda. «The Last Priests in Ireland» [15 gennaio] è stato presentato da un famoso comico – uno dei protagonisti dell’iconica sitcom degli anni Novanta «Father Ted» – Ardal O’Hanlon, mentre «The Last Nuns in Ireland» [16 gennaio] è stato condotto dalla pluripremiata giornalista Dearbhail McDonald.
Entrambi i documentari hanno evitato di autocompiacersi girando intorno alle grandi sfide che la Chiesa istituzionale deve affrontare. O’Hanlon ha parlato in modo profondo del suo rapporto ambiguo con la fede, del suo bisogno delle liturgie della Chiesa e della sua lotta per credere. McDonald ha esplorato con finezza le notevoli conquiste delle religiose irlandesi, riconoscendo però gli abusi e le negligenze accaduti sotto il loro controllo.
Nel rapporto con i preti, O’Hanlon è stato accogliente e generoso. McDonald ha messo in particolare evidenza le voci stesse delle religiose, e il suo programma è risultato più interessante proprio per questo. Parlando del suo debito verso le Suore di Santa Chiara, che gestivano la scuola da lei frequentata, ha detto: «Ci hanno insegnato a pensare criticamente, a essere autonome, a domandare e a cercare la verità ovunque». Il suo documentario ha presentato anche la radicalità della vita contemplativa in modo efficace.
Ma i numeri offerti dalle due trasmissioni sono stati impietosi. Mezzo secolo fa, in Irlanda c’erano più di 14.000 religiose. Oggi ci si avvicina a 4.000, con un’età media di oltre 80 anni. Le nuove vocazioni sono, secondo le parole della McDonald, «estremamente rare». Il seminario nazionale di Maynooth, che ospitava un tempo fino a 500 seminaristi, oggi ne conta appena 20.
Una Chiesa in letargo
Tuttavia, nessuno dei due documentari ha concluso che la Chiesa in Irlanda sia in via di estinzione. Entrambi hanno dato a leader ecclesiali ampio spazio per articolare la loro visione della Chiesa contemporanea non tanto in termini di declino, quanto piuttosto in una sorta di «compimento», una Chiesa che fa esperienza di un cambiamento d’epoca, di una stagione di letargo in attesa che una nuova primavera per la Chiesa irlandese germogli al tempo opportuno.
Ma si trovano segni di questa novità nelle chiese irlandesi di oggi? Il gesuita p. Niall Leahy è il parroco della parrocchia di San Francesco Saverio a Dublino, parrocchia di un quartiere economicamente e socialmente svantaggiato del Centro-Nord della città. La sua comunità è balzata agli onori della cronaca pochi mesi fa quando sono scoppiati dei disordini, che la polizia ha attribuito a una «fazione di hooligan guidata dall’ideologia di estrema destra», a seguito di una aggressione ai danni di una classe di bambini e del loro accompagnatore.
Tenuto conto dei temi faticosi di cui si parlava, p. Leahy è rimasto sorpreso di quanto ha apprezzato i due documentari, trovandosi d’accordo con la tesi di fondo secondo la quale il declino della Chiesa in Irlanda – in un certo senso – è terminale. Perché «il cattolicesimo culturale si estinguerà», afferma il gesuita, ma si può già intuire all’orizzonte a che cosa lascerà spazio.
Il nuovo ruolo del sacerdozio in Irlanda, argomenta p. Leahy, «sarà quello di formare discepoli missionari». Secondo la sua prospettiva, che egli trova rinfrancante, il parroco passerà dall’agire in qualità di fornitore di servizi, da qualcuno che lotta per soddisfare da solo i bisogni spirituali e pastorali della sua comunità, al ruolo di animatore pastorale [pastoral catalyst], che mette i cristiani nelle condizioni «di essere loro stessi ministri».
Intravede già elementi di questa evoluzione nelle prassi della vita parrocchiale. Ad esempio, «nella nostra Messa dei giovani adulti della domenica sera, che non è solo per i giovani, ma è gestita dai giovani». Questa rinnovata partecipazione dei giovani-adulti non ha portato finora a un ritorno agli anni Cinquanta, quando migliaia di persone si riversavano fuori dall’edificio della chiesa su Gardiner Street durante le settimane di missione dei gesuiti. E tuttavia si è segnalata una crescita costante della partecipazione da quando è iniziata. E in ogni caso, al di là dei numeri, ciò che davvero incoraggia p. Leahy è la sensazione che questi giovani siano effettivamente coinvolti e partecipi nella vita della loro parrocchia.
Quando appariva al massimo della sua potenza, la Chiesa irlandese era «eccessivamente sacramentalizzata». «L’importanza della comunione eucaristica e della presenza pubblica alle pratiche della devozione veniva enfatizzata a scapito di altri elementi della vita cristiana». Poteva succedere, ad esempio, che la vita interiore dei credenti fosse «completamente trascurata». Non a caso, in un passaggio del primo documentario, O’Hanlon si meraviglia che la Chiesa non incoraggiasse i fedeli a leggere la Bibbia.
La forza nella debolezza
Oggi la Chiesa irlandese appare molto più debole di un tempo. Ma coloro che sono ancora coinvolti nella vita ecclesiale sono oggi straordinariamente attivi, sostiene ancora il sacerdote gesuita, e la passività del vecchio cattolicesimo irlandese sembra essere superata.
Questa lettura della realtà si conferma nell’esperienza di una nuova generazione di cattolici che si fa strada nel Paese. Annie – che come altri giovani ha chiesto di non utilizzare il suo nome intero per proteggere la sua privacy – è una giovane professionista dell’Irlanda rurale che si definisce «cattolica praticante». Non in senso contro-culturale, ma come parte di ciò che è diventata.
Cresciuta in una famiglia di cristiani praticanti, ha riscoperto la fede da adulta come qualcosa di suo e di cui fa tesoro. Questa fede la esprime non solo con la partecipazione ai sacramenti, ma anche servendo zuppe ai senzatetto di Dublino, partecipando a corsi di formazione biblica e ai circoli di lettura spirituale. Fa parte di una comunità intenzionale cristiana. Aiuta nella catechesi dei bambini della sua parrocchia ed è responsabile dei giovani adulti. Vive la sua fede come qualcosa che richiede di esprimersi in azioni concrete, che sembrano intrecciarsi perfettamente nella sua vita.
La cultura irlandese potrà anche rifiutare la religione istituzionale – non senza ragioni, se si tiene conto delle rivelazioni degli scandali legati agli abusi – ma il popolo irlandese considera ancora il cuore del Vangelo come qualcosa di buono. Molti dei suoi amici – dice ancora Annie – direbbero senza dubbio di non essere religiosi, ma «di credere in Gesù». E forse è vero che tante persone che secondo le statistiche si stanno allontanando dalla Chiesa non sono in realtà così lontane, ma vivono una sorta di reazione alla dinamica «eccessivamente sacramentalizzata» che caratterizzava la Chiesa irlandese.
Le tante cose buone promosse dalla Chiesa potrebbero cambiare la sua considerazione in Irlanda. Le piacerebbe che la Chiesa si impegnasse seriamente a connettere le iniziative che esistono a livello di base, così che risulti più facile riconoscere le tante cose buone che si stanno facendo in tutto il Paese: una rete di diversi servizi per giovani-adulti, una serie importante di organizzazioni per la carità e probabilmente l’impegno ambientale più significativo della società irlandese. Se le fosse possibile parlare ai vescovi, consiglierebbe loro «di impegnarsi tantissimo nella promozione e nel collegamento di quanto già si sta facendo a livello di base».
Può esserci uno scarto tra «ciò che la Chiesa è e ciò che si pensa che la Chiesa sia». Ma Annie è convinta che presentando chiaramente ciò che si sta realmente facendo, anziché lasciare che il discorso vada sempre sulle stesse questioni che si ritiene la Chiesa debba sostenere, si potrebbero creare molte più relazioni anche con persone che si ritengono lontane dalla fede.
La tentazione del «sacro recinto»
Chris fa l’insegnante fuori Dublino. È rimasto «piacevolmente sorpreso» da entrambi i documentari e da una tavola rotonda andata in onda subito dopo il primo, a proposito della crisi delle vocazioni al sacerdozio. Considera il calo numerico delle persone che scelgono la vita religiosa «non la fine di qualcosa, ma il passaggio a un’epoca nuova».
Ritiene fondamentale l’insistenza di papa Francesco per la via sinodale in ordine alla Chiesa che sta emergendo, per il ritorno a una visione più comunitaria della fede. Chris riconosce che si tratta di argomenti controversi e che ci sono giovani-adulti nella Chiesa irlandese che sono scettici a tale proposito. Ma non riesce a vedere un futuro che non sia in qualche misura un ritorno alla visione della primitiva comunità cristiana secondo il Nuovo Testamento. Formare le persone a una migliore comprensione della propria fede sarà la questione decisiva dei prossimi anni.
Entrambi conoscono le sfide che attendono la Chiesa. Ma nessuno dei due ritiene che il calo delle vocazioni vada enfatizzato. Chris teme piuttosto che il coinvolgimento molto serio di alcuni tra i cattolici più giovani possa comportare il rischio per particolari comunità o ministeri di un ripiegamento su di sé, di un rifiuto della piena cattolicità che li renderebbe più simili a delle sette.
Infatti, nel loro zelo, alcune comunità laicali rischiano di diventare quasi una Chiesa nella Chiesa, anche per la tendenza a coltivare atteggiamenti vittimistici per l’ostilità che si respira sui media e nella cultura ambiente. Assumono posizioni nette, «noi e loro», nei confronti della società in generale, e talvolta anche degli altri cattolici. «Sono un po’ giudicanti», confessa Chris. Ma «non è il caso di chiudersi in una sorta di sacro recinto».
Del documentario di O’Hanlon ha apprezzato un giovane sacerdote che cita il famoso appello di papa Francesco: «La Chiesa deve essere un ospedale da campo». In questo senso, sia Chris che Annie, ritengono che in questo tempo Dio stia davvero spingendo la sua Chiesa a «rivolgersi fuori di sé, ad assumere un volto pastorale e a raggiungere coloro che non appartengono al recinto».
«Non abbiamo poche vocazioni, ne abbiamo troppe»
Le dispute sulle posizioni della Chiesa in materia di sessualità li preoccupano. Personalmente, Annie e Chris hanno conosciuto posizioni accoglienti, delicate e pastoralmente attente verso cattolici non eterosessuali. Ma le posizioni della Chiesa «sulla carta» sono talmente nette che le persone LGBT spesso non si avvicinano alla Chiesa e così non possono sperimentare l’accoglienza che invece potrebbero incontrare.
La Chiesa, da parte sua, dovrebbe comunicare che «c’è spazio per un confronto intelligente e per una fede intelligente e che ognuno è benvenuto», sostiene Annie. Ma non è una convinzione tanto diffusa. Anche l’idea di una «fede che si preoccupa della giustizia» potrebbe risultare convincente per molti. Annie immagina una Chiesa dove si consenta ai laici che condividono la visione sociale della Chiesa di organizzare sessioni di dialogo e dibattito all’interno della chiesa, «piuttosto che continuare a frequentare chiese vuote dove non ci si sente particolarmente benvenuti».
Il futuro della Chiesa è tra i laici, afferma p. Leahy, in mezzo a un popolo dove ci si impegna a essere discepoli missionari. Le storie che Annie e Chris raccontano sono la prova che questo futuro è già iniziato.
Come afferma una suora nel documentario della McDonald: «Non abbiamo poche vocazioni, ne abbiamo troppe». Si tratta di un giudizio molto duro, ma che probabilmente trova concordi molti cattolici irlandesi. Se si fosse prestata maggiore attenzione all’autenticità delle vocazioni nel passato, la Chiesa irlandese avrebbe forse evitato il suo declino attuale.
L’ultimo sacerdote o l’ultima suora in Irlanda non sono ancora in vista. Ma anche se il numero delle vocazioni rimanesse basso, con una leadership laicale in crescita, con una volontà di evangelizzare coraggiosa e con un impegno per una formazione olistica alla fede, la Chiesa irlandese potrebbe essere più sana ora che sembra debole di quanto non lo fosse quando sembrava forte.
Dal sito della rivista dei gesuiti degli Stati Uniti, America, 24 gennaio 2024 (qui l’originale inglese). Kevin Hargaden, teologo, lavora presso il Jesuit Centre for Faith and Justice di Dublino.
Sono chiari ed evidenti i motivi per cui nessuno vuol farsi prete.
Ne elenco alcuni:
– Una vita dedicata al sacrificio (pochi soldi e nessuna famiglia a sostenerti);
– Nessun riconoscimento sociale (i preti non servono a nulla secondo l’opinione maggioritaria);
– Nessun sostegno da parte dei superiori (il papa e i vescovi non fanno che rimproverare i preti perché sono troppo clericali, troppo rigidi, troppo qualcosa);
– Nessun sostegno dalla comunità (anche noi non facciamo altro che rimproverare i preti perché sono troppo o troppo poco clericali, troppo rigidi, troppo qualcosa).
Allora perché una persona di buon senso dovrebbe buttar via la propria vita?
Quei pochi che sono veramente motivati vanno in seminario per sentirsi dire che hanno sbagliato tutto: le vocazioni non servono, sono troppe, bisogna affidare le parrocchie ai laici.
A questo punto anche i più convinti mollano.
Di cosa ci meravigliamo?
Sono d’accordo anche in Italia abbiamo troppe vocazioni. Il futuro è la corresponsabilità ministeriale e la presenza sempre più significativi a dei laici.