Siamo diventati infecondi? La Chiesa non è più vitale? Nelle nostre “terre del benessere” non riusciamo più a fare cristiani?
Quanti (genitori, preti, credenti) conoscono la ferita di queste domande possono trovare riscontro e uno spiraglio di orizzonte nell’agile volume di Armando Matteo, La Chiesa che verrà (San Paolo, 2022). Testo scritto per onorare un duplice debito: verso il card. Carlo Maria Martini e papa Francesco.
Le “terre del benessere”, l’Occidente, hanno archiviato la povertà come destino inesorabile e l’“adultità” come responsabilità sulla prole. I nostri contemporanei «non hanno alcuna intenzione di diventare adulti, di crescere e di mettere la propria esistenza a disposizione di un progetto che non coincida con l’esaltazione e la manutenzione del proprio benessere» (p. 38).
Anche i ceti più religiosi del passato, i giovani e le donne, hanno preso congedo. Il cristianesimo domestico, quell’insieme di pratiche, di valori e di tradizioni che sostanziavano il primo e fondamentale annuncio cristiano si sta sgretolando. Un cambiamento di proporzioni enormi che destina agli archivi quel cristianesimo che si era configurato come una «religione della consolazione, dell’illuminazione, del viatico … (verso) un premio celeste di godimento infinito» (p. 78). Quello straordinario ed efficace vissuto di fede è consegnato al passato.
Siamo gli ultimi cristiani?
Si sta avviando il nuovo stile dell’intercessione: il credente è chiamato ad accompagnare i suoi compagni di viaggio fra l’ottundimento dell’eterna giovinezza e l’illusione di tornare al passato. Il cammino chiede di prendere sul serio i riferimenti della coscienza contemporanea: la libertà, il godimento, la potenza dell’autonomia.
Uscendo da un giudizio altezzoso come da un adeguamento ignavo va compresa quell’«esponenziale capacità umana di dare vita a possibilità di intervento sul reale semplicemente straordinarie» (p. 61).
Alle “grandi narrazioni” sono succedute le piccole storie e le passioni tristi di ciascuno e delle sua libertà di essere libero. «Il godimento non è più riserva degli dèi olimpici o del paradiso che attende coloro che hanno pazientemente accettato di stare in una valle di lacrime. Il godimento è a portata di tutti, è a disposizione di tutti» (p. 65).
Un’onda raccolta e alimentata dal sistema capitalistico avanzato che alimenta il desiderio senza esaurirlo e riduce il cittadino a consumatore. Lo stordimento di una potenza di vita ignota alle generazioni che ci hanno preceduto connota il nostro tempo come una esplosione di potenza di vita. «La specie ha fatto un salto: è passata dal poter fare solo ciò che si poteva fare, al fare tutto ciò che si può fare, e oggi non c’è cosa che quasi non si possa fare» (p. 84).
Fascino del Vangelo e insufficienza delle potenze
Una nuova coltura che svuota i riti e atrofizza i dogmi, ma che si destina all’“egolatria”, inaridendo le relazioni e mancando il godimento che reiteratamente promette. «È tempo allora di riaprire oggi la questione decisiva dell’umano: la questione della sua destinazione. La nostra vita… non trova mai in se stessa la sua ragione d’essere e il suo punto di compimento» (p. 86).
Più che una denuncia è una mite costatazione di chi «sa che senza l’altro non c’è gioia per gli umani» (p. 91). Di chi è consapevole che la tradizione è cosa viva da alimentare, l’identità è sempre da costruire e il risentimento verso chi si è allontanato non ha fecondità.
La storia del cristianesimo ha conosciuto altre stagioni similari: quando il racconto testimoniale su Gesù è diventato un quadruplice Vangelo, quando la fede ha rimodellato il patrimonio culturale ellenistico, quando il dramma della peste nera a svuotato l’Europa (25 milioni di morti su 80) e ha imposto il tema della morte e del morire.
Da dove ripartire? Nella consapevolezza che Dio abita la nostra storia e ci precede nell’annuncio, la Chiesa è chiamata ad essere il luogo di incontro con Gesù «e ricevere da lui l’accesso alla verità su Dio e sull’uomo, quella verità custodita dalla parola Amore» (p. 136). Annunciare Gesù chiede la purificazione della conversione e la coltivazione della Parola.
Altro passaggio: insegnare di nuovo a pregare. Raccogliendo le forme immediate dell’invocazione, attraversando i complessi territori del dialogo con l’Altro, fino alla celebrazione dei misteri nell’assemblea eucaristica. E ancora, l’esperienza della festa per tenere insieme libertà e norma, fantasia e regole, tradizione e creatività. La nuova mentalità pastorale richiede «la capacità dei credenti di rendersi prossimo alla concretezza di vita dei loro contemporanei e di sviluppare una reale vita comunitaria in cui ciascuno con la sua vita non sempre lineare possa trovare accoglienza e sostegno» (p. 153).
Nostalgia del futuro
Tornando al tripode del moderno, alla potenza si risponde con la mitezza, alla libertà con l’urgenza della destinazione, al godimento con la gioia del Vangelo. Per questo il libro affida l’ultimo capitolo ad alcune domande essenziali del magistero di papa Francesco: da quelle che interpellano la nostra visione di Dio alla percezione delle inquietudini dei contemporanei, dalla testimonianza immediata della fede al sogno della Chiesa futura, dalla forza dell’inquieta ricerca all’annuncio della fraternità.
Torna con insistente provocazione la domanda di Martini nella sua ultima intervista: «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore».
La Chiesa attuale vuole rimanere attaccata a una forma di chiesa costruita negli ultimi 500 anni anzichè essere impegnata a preparare la venuta definitiva di Gesù. Il cristiano dovrebbe essere proteso verso il futuro che verso il passato. Le forme storiche sono destinate a morire e forse deve morire quel cattolicesimo europeo, che prima era stato cristianesimo ellenistico e che prima ancora è stato cristianesimo ebraico. Il cattolicesimo europeo deve diventare un cristianesimo cattolico, cioè universale, in cui ci sia la convivialità delle differenzecome diceva Don Tonino Bello. La Chiesa è chiamata ad essere segno profetico per l’umanità.
Comprendo bene che per ragioni di amicizia con l’autore si voglia dare risalto alla sua ultima fatica editoriale, tuttavia ho una grande perplessità di fronte a questi scritti. Per certi versi è come se si legasse il destino della Chiesa al destino dell’Occidente. Se viene meno l’una, viene meno l’altro. Purtroppo – anzi in realtà per fortuna!!! – la Chiesa è cattolica, è universale. Non si può legare il suo destino, il suo futuro a quello che avviene/avverrà in Occidente. Così facendo si snatura l’identità della Chiesa. Ecco perché questi scritti, pur interessanti, mi appaiono mancanti di orizzonti, di aperture su quell’universale che la Chiesa è.