Pubblichiamo la seconda parte della relazione che Pier Cesare Rivoltella, dell’Università cattolica di Milano, ha tenuto in occasione dell’ultima assemblea generale dei vescovi italiani (Roma, 21-24 maggio). Dopo l’interessante carrellata storica su come e perché è cambiato il modo di comunicare, il relatore spiega le potenzialità pastorali dei nuovi media.
Quale comunicazione e quale Chiesa nella società informazionale?
Questa rapida analisi genera le domande in risposta alle quali arriviamo all’ultima parte di questa riflessione, quella più propriamente pastorale.
Cosa significa comunicare agli uomini di oggi, con i linguaggi di oggi, nella cultura post-mediale?
A quali condizioni la comunicazione della Chiesa può oggi essere veramente missionaria? Come raggiungere tutti gli uomini? Come rendere il Messaggio accessibile a tutti?
Le regole della comunicazione della Chiesa sono sempre le stesse? O la realtà attuale dei media invita la Chiesa a ripensare le forme di questa sua comunicazione? E come?
Per rispondere a queste domande possiamo pensare a tre grandi scenari.
I media-strumenti: la pastorale 1.0
Un primo scenario si organizza attorno ad una rappresentazione dei media che, in modo più o meno consapevole, ancora li intende come strumenti. È una rappresentazione che ha alla propria base la promessa che Internet fece a tutti noi al momento della sua prima grande diffusione sociale: l’opportunità di studiare, comunicare, lavorare dovunque e in qualsiasi momento (anytime and everywhere). In questo scenario i media digitali sono concepiti come tecnologie della distanza: consentono la comunicazione annullando l’impatto del luogo su di essa.
Da questo punto di vista, Internet – come osserva Virilio (2000) – è veramente l’esito ultimo di un processo avviato dalla comparsa della staffa e della ruota e che è consistito in una progressiva accelerazione con il relativo abbattimento delle distanze fino alla comparsa della macchina a vapore, del motore a scoppio, del motore a reazione dei moderni aerei di linea. I media elettronici prima e quelli digitali poi sono ancora più veloci, perché, grazie ad essi, «tutto arriva senza più bisogno che nessuno parta» (ivi.).
Dentro questo scenario si trovano da tempo (già da prima della svolta digitale) i media mainstream, ovvero i media di massa, quelli dei grandi apparati di comunicazione: i giornali cattolici (da Avvenire ai settimanali diocesani), le televisioni e le radio (da TV 2000 alle emittenti diocesane del Circuito Corallo). Nel Web svolgono la stessa funzione i siti parrocchiali o il profilo Twitter @Pontifex, le dirette in streaming video di eventi ecclesiali. E, in fondo, anche le app realizzate dalla CEI con il testo della Bibbia o la Liturgia delle Ore si iscrivono nello stesso spazio e nella stessa logica pragmatica.
Dal punto di vista culturale si tratta di una comunicazione sostanzialmente informativa, unidirezionale, il cui obiettivo è l’accessibilità appunto delle informazioni, siano esse le news sull’ultimo viaggio del papa o gli orari delle messe domenicali. Essa attiva tutte e tre le arene di circolazione dei significati che caratterizzano Internet (Slevin, 2000): l’arena primaria dei destinatari intenzionali, l’arena secondaria di coloro a cui non pensavo ma che raggiungo grazie ai destinatari intenzionali, l’arena periferica di tutte le comunicazioni non previste da me cui ciascuno di loro può dar vita.
Chiaramente si tratta di un pubblico indifferenziato, tipico di una comunicazione che viene incontro alle esigenze di una comunicazione istituzionale, verticale e che prende corpo in una pastorale che possiamo definire 1.0. Si tratta di una pastorale trasmissiva, a basso tasso di interattività, poco capace di sfruttare gli asset comunicativi dei media digitali e sociali.
Se, per la Chiesa, ripensare la propria comunicazione al tempo del digitale volesse dire solo questo, si tratterebbe di molto rumore per nulla: accostarsi ai media digitali e sociali nella logica degli strumenti ne consente il controllo, mette al riparo da derive comunicative, ma di certo non consente di approfittare di ciò che è più specifico di questi media dal punto di vista del loro funzionamento. Il risultato è l’immagine di una Chiesa aggiornata, in linea con le tendenze culturali dell’oggi, ma in forma totalmente estrinseca.
Le tecnologie di gruppo: la pastorale 2.0
Un secondo scenario è quello in cui i media cessano di essere pensati solo come strumenti e vengono invece riconcettualizzati come ambienti e luoghi sociali. In questa accezione i media non rappresentano più solo un’opportunità per annullare le distanze, quanto piuttosto una risorsa per consentire alle persone di comunicare meglio, anche quando sono in presenza. L’idea delle tecnologie di gruppo trova qui la propria giustificazione: la rete diviene un’estensione on line della comunità presenziale e fornisce a quest’ultima strumenti per prolungare e rendere più proficuo il proprio incontrarsi.
È il caso di un gruppo di WhatsApp che io scelga di appoggiare alla mia aula di catechesi: uno spazio che possa servire a condividere gli orari degli incontri, i contenuti del cammino, le riflessioni dei singoli membri. Ma è anche il caso di un uso di Twitter che mi porti a iniziare la giornata diffondendo tra i giovani della mia parrocchia il santo del giorno, un versetto del Vangelo, un proposito da fare proprio durante la giornata, o dell’adozione di un profilo o di una pagina in Facebook. E anche Skype, Hangout, o altri strumenti di videocomunicazione rispondono alla stessa logica: ad esempio, tenere uniti i giovani del Decanato, generare uno spazio di condivisione bidirezionale dove l’obiettivo non è tanto abbattere le distanze, quanto piuttosto favorire lo scambio e il confronto.
Dal punto di vista culturale si tratta di una comunicazione inclusiva che attiva arene di circolazione primarie del significato in cui centrale è l’interazione tra chi comunica e la sua cerchia. È questo lo spazio di quella che possiamo chiamare pastorale 2.0: essa passa per un’esperienza decisamente più orizzontale e partecipata, convoca e responsabilizza, interpreta di sicuro in modo più preciso ed efficace lo specifico dei media digitali e sociali valorizzandone le funzioni di condivisione (sharable media) e autorialità. Il destinatario è reso attivo, viene chiamato a essere parte di una comunicazione a due vie in cui non è detto che debba sempre fare la parte di chi riceve.
In questa prospettiva di sicuro la comunicazione della Chiesa riesce meglio a intercettare e a incarnare lo specifico comunicativo dei nuovi media, ma non significa ancora che con questo riesca ad aprirsi a una prospettiva decisamente missionaria. Le tecnologie di gruppo sono a somma zero dal punto di vista della loro capacità di estendere il numero dei destinatari della comunicazione: consentono di aumentare l’interazione con coloro che già incontro in presenza, non di arrivare ad altri con il Messaggio.
Tecnologie di comunità: la pastorale 3.0
Siamo così a un terzo possibile scenario, in cui la Chiesa prende atto del fatto che i media sono diventati ciò che favorisce le connessioni tra le persone, che essi sono parte integrante delle nostre vite e del modo in cui in esse costruiamo e manteniamo relazioni e che questo ci fa rendere conto di come l’uomo sia straordinario quando “si collega” agli altri, inutile se rimane da solo, proprio come una stampante senza connessione (Gee, 2013).
Si fa esperienza qui della possibilità dei media digitali e sociali di funzionare come tecnologie di comunità (Rivoltella, 2017). Si tratta di un’idea controintuitiva. Quello che normalmente si pensa, infatti, è che queste tecnologie funzionino esattamente al contrario: siano, cioè, dei dispositivi attraverso i quali le persone tendono a isolarsi e, di conseguenza, i legami sociali si allentino fino a dissolversi. Invece, parlare di tecnologie di comunità significa fare riferimento alla capacità della tecnologia di (ri)costruire la comunità.
Penso all’esperienza fatta qualche anno fa da don Paolo Padrini, il sacerdote della diocesi di Tortona che ha inventato i-Breviary. Don Paolo monta una web-cam sul pulpito della sua chiesa e trasmette la messa in streaming video. Dei giovani operatori pastorali si recano presso le case degli anziani o degli ammalati, con un computer portatile. L’obiettivo è chiaro: consentire a chi non può recarsi in Chiesa di seguire la messa, non quella televisiva di Rai o Mediaset, bensì quella della sua comunità, celebrata dal suo parroco.
L’operatore (vero e proprio tutor di comunità) entra nelle case, comunica con le persone; così facendo incontra i familiari, il vicinato; la sua presenza funziona da catalizzatore, nella casa si raccoglie una piccola comunità; grazie a questo entrano (o rientrano) in contatto con la liturgia anche persone che lo avevano perso.
La comunicazione che si allestisce, qui, è partecipativa: si rivolge certo all’anziano o al malato (arena di circolazione primaria), ma attraverso di lui alla sua famiglia e ai vicini (arena di circolazione secondarie) e soprattutto mira all’attivazione di arene di circolazione periferiche aperte e gestite da ciascuno di loro. Diversi anni prima, in netto anticipo sullo sviluppo di Internet e dei media digitali e sociali, aveva avuto la stessa intuizione il card. Martini lanciando l’idea della catechesi radiofonica in Quaresima e Avvento, dove la cosa interessante non era tanto la possibilità di far giungere a tutti la voce del vescovo, quanto piuttosto la possibilità di attivare nei punti di ascolto delle logiche di riattivazione del legame tra le persone: la radio come tecnologia di comunità.
Credo che lo specifico di una pastorale 3.0 stia proprio nella capacità di riarticolare il rapporto tra dentro e fuori la Chiesa attivando insieme tutte e tre le arene di circolazione dei significati, comprese quelle periferiche, che sono quelle più lontane, quelle che, di solito, rimangono tagliate fuori dalla nostra comunicazione intenzionale. Come si capisce, qui è superata la logica trasmissiva della pastorale 1.0 e integrata quella gruppale della pastorale 2.0.
La pastorale 3.0 è quella che meglio riesce a interpretare il senso dei media digitali e sociali come spreadable media (Jenkins, 2009), cioè come media capaci, grazie alla loro pervasività e fluidità, di esplodere fuori dei propri confini, diffondersi in tutte le direzioni ed essere generativi di relazioni.
La comunicazione generativa è la comunicazione che meglio si adatta a una Chiesa dei carismi, una Chiesa “in uscita” che fa della vocazione missionaria il proprio specifico. E, infatti, lo Spirito è spreadable, effusivo: con l’immagine del Manzoni, nella Pentecoste, è «come la luce rapida», che «piove di cosa in cosa e i vari color suscita ovunque si riposa».
Questa generatività effusiva comporta alcune precise conseguenze.
Una prima conseguenza è la riconcettualizzazione dei media da strumenti a tessuto connettivo, come abbiamo già avuto modo di accennare: grazie ai media si possono tessere relazioni, si può mantenerle vive. I media divengono opportunità di legami, nuovi o da riannodare. La pastorale 3.0 traduce un po’ il vissuto delle prime comunità di cui si racconta negli Atti degli apostoli, ma mcluhanianamente esteso al mondo intero. La correzione fraterna, la parresia che si nutre di piccoli gesti comunicativi quotidiani: un tweet, un post, un poke.
In secondo luogo, soprattutto a livello delle arene periferiche di circolazione dei significati, la comunicazione diventa orizzontale, disintermediata: ciascuno è autore e l’interazione è immediata. Comunitaria e paritetica, la pastorale 3.0 attiva i suoi destinatari, li rende protagonisti, sostituisce a una comunicazione verticale l’esperienza sinodale.
Infine, e proprio per questo, la pastorale 3.0 richiama i laici a un nuovo senso di responsabilità. L’operatore pastorale (ma mi verrebbe da dire qualsiasi battezzato) nella società informazionale, grazie alla disponibilità dei media digitali e sociali, si atteggia a tutor di comunità. Si tratta di un ruolo complesso che è, allo stesso tempo, rivolto alla comunità ecclesiale e alla comunità civile: nel primo senso allude, tra l’altro, al nuovo significato della diaconia in un tempo di secolarizzazione e di progressiva contrazione dei consacrati; nel secondo senso, intercetta quel che sempre più spesso accade, ovvero l’esperienza di una Chiesa chiamata non ad affiancare le istituzioni in una logica di sussidiarietà, ma a svolgere rispetto ad esse una funzione di supplenza, come sempre è accaduto nella storia in tutti i tempi di crisi. Mai come oggi Cristianesimo può voler dire cittadinanza.
Riferimenti bibliografici
In tutto il documento si è fatto ricorso ad alcune abbreviazioni di documenti ufficiali della Chiesa. In particolare: CP (Communio et Progressio), RM (Redemptoris Missio).
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