Il dibattito ecclesiale italiano non sembra riuscire a liberarsi dalla vexata quaestio sui cattolici e la politica. Nelle declinazioni più disparate possibili: dalla presenza dei cattolici in politica (un dato di fatto), all’ideazione di un nuovo soggetto politico cattolico (questo sì vorrebbe dire votarsi all’irrilevanza); dal rilievo politico del cattolicesimo (un desiderio agognato) all’inquietudie legata allo sparpagliamento dei cattolici nel panorama politico italiano attuale (non che nel passato fosse altrimenti).
Cattolici-Politica
L’impressione è che non si sappia poi neanche troppo bene cosa si voglia, a cosa si aspiri tessendo il lembo che separa/unisce cattolicesimo e politica.
Nostalgia, spaesamento, senso civico, dovere morale – difficile distinguere cosa stia veramente dietro la compulsività di una domanda cui non si riesce a rispondere in modo degno da più di un decennio. Una cosa è certa: essere memori della storia che si è contribuito a scrivere è esercizio doveroso, vivere nell’illusione che essa possa d’incanto ripetersi è un suicidio culturale.
Nel mezzo papa Francesco, che ha riscritto radicalmente le coordinate della sensibilità politica del cattolicesimo. Viene da un mondo che non può comprendere l’Occidente, si dice, e con questo se ne dichiara l’irrilevanza politica per la fede stessa (come se l’occidentalismo facesse parte della rivelazione di Dio). Un populista, dicono i fautori del neoliberalismo che ci sta strangolando tutti… peccato che il buon gesuita argentino risulti oggi del tutto insopportabile ai populisti di ogni colore e tendenza che si stanno diffondendo ovunque a macchia d’olio nel mondo.
L’a-sintonia italiana
Nel momento in cui la Chiesa cattolica ha rimesso in gioco sul piano globale il peso di un soft power capace dei tempi lunghi, delineandosi esattamente come soggetto politico autorevole (almeno agli occhi dei suoi interlocutori), stona la coltivazione un po’ ossessiva dell’orticello di casa da parte del cattolicesimo italiano – come se non volessimo diventare grandi, osare l’avventura quotidiana del mondo quale pratica del tutto connaturale alla fede. Anzi, come sua stessa forma ecclesiale.
Nascosta dall’understatement che lo caratterizza, nelle parole dell’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, si fa strada da tempo un’idea non casuale e non retorica di politica – e, conseguentemente, del nesso che lega la comunità cristiana alla vita e al destino della città in cui anch’essa abita. Sarà bene tornarci sopra con maggiore spesa di riflessione, al momento possiamo accontentarci di una segnalazione che dovrebbe destare sguardi interessati nella Chiesa italiana.
Un vescovo a Milano
Il nesso si gioca sulla declinazione in contemporanea della figura biblica della benedizione e del tema civile del bene comune. Niente di più, niente di meno; ma giocato con una lucidità di visione storica di chi ha imparato che la Scrittura funziona quando si esce dal gioco della sua mera citazione.
«La proposta cristiana si offre come una benedizione, come l’indicazione di una possibilità di vita buona che ci convince e che si comunica come invito, che si confronta e contribuisce a definire nel concreto percorsi praticabili, persuasivi con l’intenzione di dare volto a una città dove sia desiderabile vivere» (Cresce lungo il cammino il suo vigore. Lettera pastorale 2018-2019). La responsabilità politica si esercita, appunto, dentro la città di tutti come intento di prendersi cura di un bene che non può essere mai categorizzato, o destinato solo a una porzione di popolazione che vive nella città: «La politica è proprio l’azione condivisa per promuovere, custodire, difendere il bene comune» (Omelia della Messa per la pace, 1 gennaio 2019).
La città: benedizione e bene comune
In questa prospettiva, mons. Delpini annunciava già nell’omelia della Messa crismale del 2018 la sua intenzione di convocare, a supporto del suo ministero, una Commissione per la promozione del bene comune: «La profezia è anche giudizio sul presente, invito a conversione, contestazione delle strutture e dei comportamenti che rendono la vita difficile ai più deboli. Per dire una parola che sia incisiva e costruttiva mi sto impegnando in queste settimane, con i miei collaboratori, a costituire una Commissione per la promozione del bene comune che aiuti il mio ministero di vescovo, fornendomi materiali e occasioni per orientare un discernimento e una valutazione condivisa su quello che succede, in nome del Vangelo.
A questa Commissione chiedo anche suggerimenti per sostenere quella domanda di impegno e di testimonianza nel sociale e nel politico che vedo rifiorire come un segno promettente nei vari incontri che ho vissuto, con amministratori locali cristiani e non (…).
La fase di accelerato cambiamento che stiamo vivendo a livello sociale, politico e culturale ha bisogno di realtà cristiane mature e capaci di un giudizio sereno e competente sui fatti e gli avvenimenti che ci segnano e contribuiscono a creare il nostro futuro».
Non fermiamoci alla Commissione in sé, ne abbiamo create fin troppe e ci hanno esaurito le forze; ma guardiamo con più attenzione al riconoscimento implicito nel mandato affidatole: la pratica della fede nella città degli uomini porta già con sé «proposte, soluzioni (…) e ha qualcosa da dire nel dialogo con tutti gli uomini e le donne di buona volontà» (Cresce lungo il cammino il suo vigore).
Qualcosa da dire perché abbiamo pensato
La possibilità di un riasseto del cattolicesimo nel quadro politico italiano sarà, dunque, la naturale conseguenza della sua capacità di avere parole, significative e competenti, sull’umana condizione di vivere che tutti ci unisce. Di questo Delpini è lucidamente consapevole, e quando ne va dell’onore pubblico dei suoi scende in campo senza tentennamenti – come dovrebbe fare ogni un buon vescovo: «Noi abbiamo sì qualcosa da dire a tutti. Noi abbiamo la fierezza e la responsabilità di non tacere negli spazi pubblici della città. Noi abbiamo rispetto di tutte le istituzioni legittime e di tutti i rappresentanti delle istituzioni, e proviamo simpatia per tutti coloro che assumono la responsabilità per le istituzioni.
E abbiamo anche qualcosa da dire. Siamo cittadini italiani ed europei e ci troviamo come fratelli anche con cittadini di altri paesi e abbiamo qualcosa da dire. E parliamo con discrezione e rispetto, parliamo non come chi vuole fare da maestro e impancarsi a giudice, ma come persone e comunità che hanno a cuore la città e il paese in cui si trovano a vivere» (Omelia della Messa per la pace).
La convivenza buona tra i molti
Delpini tratteggia così anche il riscatto di una cordiale familiarità e reciproca benevolenza fra gli itinerari della Chiesa italiana e il magistero di Francesco. La prossimità d’intenti e di stile è indubbia e non sospetta: «Dobbiamo seriamente domandarci se abbiamo fatto abbastanza per offrire il nostro specifico contributo come cristiani a una visione dell’umano capace di sostenere l’unità della famiglia dei popoli nelle odierne condizioni politiche e culturali. O se addirittura ne abbiamo perso di vista la centralità anteponendo le ambizioni della nostra egemonia spirituale sul governo della città, chiusa su sé stessa e sui suoi beni, alla cura della comunità locale, aperta all’ospitalità evangelica per i poveri e disperati» (Francesco, Lettera al presidente della Pontificia accademia per la vita in occasione del XXV anniversario della sua istituzione).
L’impatto pubblico del cattolicesimo sulla vita del paese sarà equivalente alla sua abilità di dare nome alle figure della politica generando pratiche virtuose accessibili a tutti. In quest’ottica, l’idea di Delpini che circola dietro la Commissione per la promozione del bene comune, ufficialmente istituita nella solennità cittadina di S. Ambrogio dello scorso dicembre, merita ben più di qualche attenzione da parte della Chiesa italiana tutta.