Abbiamo vissuto quasi tutta la Quaresima e parte del tempo di Pasqua in “clausura” a causa della pandemia del coronavirus e la Chiesa, dinanzi a questa grande crisi, ha dovuto individuare soluzioni e stratagemmi per tenere unito il popolo di Dio. Non vi può essere, infatti, Chiesa se non c’è comunità convocata e radunata nel nome del Signore: «dove due o più sono riuniti nel mio nome là sono io, in mezzo a loro» (Mt 18,20). Il popolo di Dio radunato deve essere visibile, e concreta deve essere la presenza dei fratelli e delle sorelle in Cristo.
Mi ha fatto sorridere l’iniziativa di qualche parroco di porre le foto dei propri fedeli attaccate ai banchi della chiesa parrocchiale. Da un lato, ne apprezzavo l’originalità, dall’altro, pensavo: veramente noi sacerdoti non riusciamo a celebrare senza il popolo, non riusciamo a pensare ad una Chiesa diversa, una Chiesa in diaspora, sparsa nelle case private. Eppure la prima comunità cristiana è nata così: nelle case.
La testimonianza archeologica che riceviamo dal ritrovamento dell’antica città di Cafarnao, con la scoperta della casa della suocera di Pietro, la quale fu subito utilizzata da Gesù stesso per radunare il popolo, ne è una conferma.
La Chiesa è comunità
Ma ora sono passati duemila anni e non è più come prima, i cristiani sono numerosissimi nel mondo e la necessità di ritrovarsi, di frequentarsi, di incontrarsi per pregare e formarsi cristianamente è fuori discussione.
Cosa sta succedendo in questi lunghi giorni di assenza del popolo dalla vita liturgica della comunità? Smarrimento? Incertezza? Rilassamento spirituale? Non sarei così sicuro.
Un po’ tutti, presbiteri, religiosi e laici impegnati hanno individuato abbastanza presto in internet un valido mezzo per comunicare con il popolo di Dio. Navigando qua e là ci si accorge che i social e tutte le altre modalità di comunicazione virtuale vengono utilizzati non più semplicemente come un mezzo, ma proprio come un luogo da abitare, un «continente digitale»[1] da vivere senza il timore di rimanerne invischiati, come invece capita soprattutto ai cosiddetti nativi digitali.
Resta il fatto che la Chiesa, per sua natura, ha bisogno di nutrirsi di fraternità, di quella familiarità con il Signore che è sempre comunitaria. «Sì, è intima, è personale ma in comunità – queste le parole di papa Francesco –; una familiarità senza comunità, una familiarità senza il pane, una familiarità senza la Chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti è pericolosa. Può diventare una familiarità – diciamo – gnostica, una familiarità per me soltanto, staccata dal popolo di Dio. La familiarità degli apostoli con il Signore sempre era comunitaria, sempre era a tavola, segno della comunità. Sempre era con il sacramento, con il pane».
Senza dubbio stiamo vivendo un periodo di privazioni e la Chiesa appare come sbandata. Com’è possibile che un credente non debba cibarsi dell’eucaristia? Un vero credente, infatti, non potrebbe fare a meno del Corpo di Cristo. E come faranno le persone con disabilità che in questo momento appaiono ancora più fragili ed emarginate? Se consideriamo le persone non vedenti, ci chiediamo: come faranno?
È possibile che non possano più incontrarsi e uscire? Per i ciechi toccare, abbracciare, orientarsi attraverso lo spazio e, quindi, avere un riscontro tattile della realtà circostante è fondamentale! Un non vedente, è vero, “vede con il cuore” – come spesso si dice –, ma ha bisogno del contatto fisico, dell’incontro e della vicinanza, più di chiunque altro.
Rischi e opportunità
Il rischio, oggi più che mai, durante le limitazioni dovute al pericolo dei contagi, per i più fragili e soli, costretti come tutti a casa, è proprio quello di “scomparire” soprattutto per tutti coloro che, a causa della disabilità, spesso fanno fatica a farsi sentire. Eppure, nonostante queste evidenti difficoltà, come Chiesa, stiamo riscoprendo quanto sia importante prendersi carico proprio dei più deboli e non abbandonare i più bisognosi.
Sicuramente questo è un frutto straordinario della pandemia: una grande solidarietà verso i più bisognosi. Si è subito attuata una catena di aiuti in tutte le realtà ecclesiali in modo immediato, capillare e concreto.
Siamo veramente vicini, presenti e stretti nella preghiera ma mantenendo la distanza fisica come prescritto. Stiamo vivendo il nostro essere Chiesa con questo pensiero di fondo: essere vicini, rimanendo uniti, anche se non cadiamo nell’illusione poiché sappiamo che non può avere ragion d’essere una Chiesa virtuale; ce lo ha ricordato bene papa Francesco: «non possiamo “viralizzare la Chiesa e i sacramenti”».[2] È vero che ne abbiano bisogno in questo momento, ma dobbiamo fare molta attenzione perché l’intento è “uscire dal tunnel”, non rimanerci.
Un altro frutto maturo della pandemia è che si comincia ad apprezzare veramente quello che manca. In una situazione regolare e scontata, infatti, il rischio diffuso è quello di comportarsi come l’uomo descritto dal salmista: «l’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono» (Sal 49,21).
Queste parole appaiono vere come non mai in questi tempi. Ci mancano le strette di mano, gli abbracci, gli incontri, le chiacchierate in gruppo. Ai più giovani manca la scuola, il gruppo degli amici, le feste. Ai bambini manca la normalità fatta di esplorazione del mondo e di ciò che li circonda, manca il gioco di gruppo e la possibilità di esprimere gli affetti con la corporeità; indubbiamente, sono quelli che soffrono di più.
Un adolescente mi confidava che non avrebbe mai immaginato di desiderare di entrare in quelle mura circoscritte della sua classe, da sempre viste come una limitazione alla sua libertà, per sentirsi, paradossalmente, proprio lì, pienamente libero e amato, vicino ai suoi compagni e ai suoi insegnanti.
Il prezioso servizio della Parola
Sono in molti a chiedersi: Dio permette tutto questo? Qual è il suo progetto? Questa è la sua volontà? Ma la Parola di Dio è chiara: Lui ha solo «progetti di pace, non di afflizione», (Ger 29,11). Se questi flagelli fossero voluti da Dio, allora dovremmo spiegarci perché essi colpiscono indiscriminatamente buoni e cattivi, e perché, di solito, sono i più poveri e fragili a pagarne le spese. Non può essere così! Non dobbiamo dimenticare la profonda solidarietà di Gesù con chi soffre. Lui ha pianto per la morte dell’amico Lazzaro, e piange oggi, anche per questa pandemia.
Sicuramente usciremo da questo difficile momento e come Chiesa avremo capito che il Signore è vivo ed è sempre presente, al di là dei nostri progetti e ritualità, perché, in fondo, ciò che contribuisce a mantenere viva la relazione con Lui è la fede! Una fede che, alimentata dall’ascolto della Parola di Dio, non può venire mai meno.
Non dobbiamo mai dimenticare che, anche attraverso i social o altro mezzo di comunicazione, è la Parola a raggiungere quei fedeli connessi che partecipano al culto in streaming o in TV. La Parola è alla base della vita dei credenti ed è essa, con la sua originaria sacramentalità, a consentire al cristiano di arrivare alla consapevolezza che «Egli è in noi più di noi stessi, cioè non è esteriore alle nostre ragioni di agire. Questo dono che riceviamo dall’ascolto della trasmissione della Parola è chiamato “grazia” dalla Chiesa, perché Dio parla sempre al suo popolo».
Qui è in gioco il servizio della Parola, che, se non potrà mai sostituire i gesti e i riti, quantomeno li potrà richiamare. La fede ci salva sempre anche quando, temporaneamente, non può essere vissuta in azioni cultuali.
- Alfonso Giorgio, prete della diocesi di Bari, è parroco presso la parrocchia di Sant’Antonio da Padova, docente ala Pontificia Università Urbaniana di Roma e all’ISSR di Bari, ed è assistente nazionale Movimento apostolico ciechi.
[1] Cf. Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno nazionale “Testimoni digitali e linguaggi nell’era cross mediale”, promosso dalla Conferenza episcopale italiana, Città del vaticano 24 aprile 2010.
[2] Francesco, Omelia, S . Marta, Città del vaticano 17 aprile 2020.