Luigi Garbini è presbitero della diocesi ambrosiana nella chiesa parrocchiale di San Marco in Milano nel ruolo di viceparroco. Nel corso degli episcopati dei cardinali Martini e Tettamanzi si è occupato dei concerti nelle chiese della città. È autore dei volumi “Breve storia della musica sacra”, il Saggiatore 2005; “Al buio si ascolta meglio. La musica negli orecchi degli scrittori”, Edizioni Unicopli 2014; “Una musica tutta per sé. La musica sacra non esiste”, Giampiero Casagrande editore 2021.
- Don Luigi, quale può essere oggi una definizione generale di musica e di musica sacra in particolare?
Sui dizionari, una volta, c’era scritto che la musica è l’arte dei suoni. Non avevano torto. Altre definizioni fanno ricorso alla assimilazione al genere dei linguaggi. Ma la musica non è un linguaggio come gli altri: il contenuto della musica è la musica stessa. Mi assesterei su questo tipo di definizione – piuttosto indefinita – per fare un discorso sulla musica.
È quindi molto difficile tracciare dei confini interni alla musica stessa. Se in tale discorso ammettiamo una forma di trascendenza, possiamo arrivare a dire che la musica – tutta la musica – sia il tentativo di trovare un collegamento tra la vita quotidiana e il trascendente.
A questo livello le distinzioni – teoretiche o filosofiche – tra musica sacra e altra musica, evidentemente, cadono.
Luoghi e usi
- Che cosa possiamo continuare ad intendere allora per musica sacra?
Si può continuare a parlare di musica sacra in riferimento ad un particolare uso e ai luoghi di questo. I termini hanno evidentemente una storia. Dobbiamo andare al 1860 circa, cioè al momento in cui, in Germania, si è cominciato a scrivere, in qualche documento, musica sacra piuttosto che musica ecclesiastica. Il conio di questa espressione è avvenuto in riferimento ad un genere che si voleva precisare e, in tal modo, rinchiudere in una sorta di recinto, appunto sacro.
È interessante notare come questo tentativo si sia esteso per tutta la seconda metà dell’800 sino ai primi del ‘900, per poi sostanzialmente estinguersi. Si è cioè cercato – forse per l’ultima volta ma invano – di individuare sicuri e insuperabili punti di riferimento per una musica davvero sacra: in primo luogo il canto gregoriano, benché il gregoriano fosse pur sempre una forma composita e ricostruita, perché in quel genere si era rintracciata, in occidente – e questo è vero anche per me oggi – la più riuscita forma di coesione tra le parole della sacra scrittura e la musica, ossia tra la forma propria del culto e la musica del culto.
Dopo il gregoriano, un altro punto di riferimento è stato individuato nella musica di Giovanni Pierluigi da Palestrina che rappresenta una forma di musica molto più sofisticata e perciò da molti, già nell’800, non condivisa: una forma che secondo il Concilio Trento avrebbe dovuto funzionare da calmiere rispetto alle tendenze del discorso polifonico in atto già nel corso del ‘400, per tentare di trattenere appunto la musica in quella sorta di recinto di cui ho detto.
Quel tentativo o quei tentativi sono falliti, per cui oggi, secondo me, ha senso parlare di musica sacra solo per capirsi e orientarsi in senso storico.
Questa ricostruzione consente, tuttavia, di amplificare di molto il nostro concetto di musica sacra, anziché annullarlo. Questa è la tesi sostenuta nel mio libro che reca il sottotitolo “La musica sacra non esiste”. Perciò possiamo ritenere, a mio parere, che l’ambito della musica sacra sia molto più vasto del contenuto storicamente e formalmente ritenuto tale.
- Il nodo problematico discriminante è stato costituito dal rapporto tra Parola e musica?
Certamente il problema della comprensione delle parole in musica ha avuto la sua parte. Nel Concilio di Trento si è parlato anche di intellegibilità. Più in generale però è divenuta sempre più problematica la sofisticazione delle parole in musica e quindi è divenuto problematico il sopravvento della musica in quanto tale sul culto. Ma, in fondo, è stata la forma concreta del culto a consentire questa operazione.
- Come e quando la musica – nella storia della musica sacra – ha preso il sopravvento sul culto? Può fare un esempio?
Si può prendere come punto di partenza il momento in cui Mendelssohn recupera la Passione Secondo Matteo di Johann Sebastian Bach – quasi ormai dimenticata – e la porta dai luoghi propri per cui era stata composta – ossia le chiese – in una sala da concerto, a Berlino, nel 1829. Questo per me – come ho evidenziato nella mia storia della musica sacra – costituisce un momento conclusivo di un periodo e, al tempo stesso, iniziale di un periodo totalmente nuovo.
Quel momento storico rende possibile oggi un ascolto – un uso ed un consumo – della musica sacra del tutto diverso rispetto alla sua origine. Consente, ad esempio, di ascoltare una famosa messa mentre si cerca un po’ di relax, ovvero mentre si stanno facendo mille altre cose nel corso della giornata. La diffusione della musica sacra, la sua uscita dal recinto del sacro, e la sua disponibilità su tutte le piattaforme, rende il concetto di musica sacra vano. E lo si può apprezzare anche nelle vere intenzioni dei compositori: un esempio fra tutti è Bruckner la cui espressività ‘sacra’ è maggiormente evidente nella produzione sinfonica piuttosto che nelle messe.
Secolarizzazione
- La “morte di Dio” nell’età contemporanea quale effetto ha prodotto sulla musica sacra?
È chiaro che si è prodotta – storicamente – una rottura del collegamento col trascendente. Ma il problema di dire quale musica sia sacra e quale sia profana non è affatto estinto. Sicuramente certa musica del ‘900, nel clima culturale della “morte di Dio”, ha inteso operare una consapevole cesura con la tradizione. Ma, a mio modo di vedere, anche quel tipo di musica – quando ha saputo esprimersi nel senso della “umanizzazione dell’umano” – non ha affatto reciso il suo rapporto intrinseco col trascendente.
- Nel Suo libro a fuggire dal recinto della musica sacra – metaforicamente – è una figura femminile: Judith. Chi è Judith?
Harold Bloom, nel libro “Di J”, sulla falsariga della teoria dell’esegeta dell’Antico Testamento Julius Wellhausen – secondo cui la fonte più antica dei primi cinque libri della bibbia è la Jahvista – arriva a sostenere che tale sia stata l’opera di Bersabea, la donna sposata [ad Uria l’ittita] di cui si è invaghito il re David. Al di là della validità dell’ipotesi esegetica, mi ha interessato quel libro perché ha interpretato il lato ‘femminile’ che sempre sfugge al controllo canonico.
A questa tendenza ho associato Judith, la sorella putativa di William Shakespeare, che avrebbe tanto desiderato “una stanza tutta per sé” per leggere e per scrivere e così poter raggiungere i livelli del famoso fratello. Ho giocato con la lettera “J” per rendere più incisiva la mia idea: la musica è una libera arte dei suoni che, nonostante tutte le recinzioni, sfugge ad ogni canone. Judith è quindi l’espressione di categorie quali la creatività, la genialità, la capacità di trasformare, inventare e, in questo caso, di produrre musica sempre nuova: una espressione pensata come tipicamente femminile, benché storicamente interpretata, per la stragrande parte, da uomini, peraltro oggi ritenuti i più grandi protagonisti della musica sacra.
- La fuga della musica dalle varie chiese confessionali è avvenuta tuttavia in maniera molto diversa, come mai?
Mi sembra che al principio delle differenze musicali tra le chiese ci sia un diverso e generale rapporto col culto. Il mondo ortodosso ha conservato un approccio misterico, apofatico, in grado di agganciare meglio l’universo mistico. Il mondo evangelico ha mantenuto un approccio strettamente scritturistico, biblico, secondo la sua riforma: tutto in quel mondo ha continuato a ruotare attorno alle parole della scrittura.
Il mondo cattolico ha sviluppato un approccio parlato, affermativo, ossia preoccupato di dare sempre una spiegazione e, in questo modo – addensando le parole – ha rischiato e rischia di soffocare l’autenticità del culto. Questo è tuttavia un rilievo piuttosto recente. In passato non è ovviamente stato sempre così.
Musica e celebrazione
- Don Luigi, lei sta descrivendo il corso storico della musica in occidente. Ma sta esprimendo un certo rammarico per la sorte della musica da chiesa?
Dal punto di vista della musica – non da altri – penso di poter dire che il Concilio Vaticano II abbia determinato una penalizzazione del repertorio più proprio della tradizione cattolica per il culto, ossia il repertorio gregoriano. L’ho scritto ripetutamente e non ho qui difficoltà a dirlo.
Quello era, secondo me, il repertorio che, pur nella difficoltà della lingua, avrebbe potuto ancora caratterizzare la musica da chiesa. Mentre oggi la chiesa cattolica non ha più una forma adatta al culto in cui si possa universalmente riconoscere.
- Questo esito poteva essere evitato?
Le cose avrebbero potuto andare in maniera diversa. Probabilmente sono risultate troppo forti le implicazioni di altra natura, non musicale. Troppo forti, ad un certo punto, sono stati i toni della discussione portata dentro il Concilio: oggi questi toni si sono sostanzialmente spenti, da tutte le parti. Soprattutto, in quel momento, non è bastato scrivere cose nei documenti senza poi fare in modo che quelle cose si potessero realizzare grazie a figure preparate allo scopo.
Voglio dire che si doveva puntare su persone in grado di metterle in pratica. È evidentemente molto delicato dire questo. Corro il rischio di passare per un restauratore o un conservatore, mentre non penso di esserlo. Le cose sono andate come sono andate nelle nostre chiese, come del resto è sotto i nostri occhi. Sì, a mio avviso, potevano andare in maniera diversa.
- Cosa si potrebbe fare ora per risollevare le sorti della musica da chiesa?
Ciò che si può fare è recuperare – chiaramente poco per volta – la tradizione gregoriana. Questo potrebbe col tempo aiutare a prosciugare il culto dalle sovra-determinazioni di cui è oggetto, riportandolo, di riflesso, alla sua essenzialità. Penso che la reintroduzione del gregoriano possa produrre ancora nelle chiese un certo tipo di sensazione nelle assemblee. Ma per fare questo servono evidentemente delle figure che facciano e che siano in grado di fare quella musica, in maniera quanto più capillare.
- Usando il latino?
Per forza. Secondo me il gregoriano non si può fare in altre lingue. Gli esperimenti in altre lingue non hanno dato risultati. E soprattutto non hanno senso. La tradizione gregoriana contiene un rapporto molto stretto tra le parole in latino della scrittura e la musicalità del canto. C’è qualcosa di insuperato e insuperabile, secondo me, in quel contenuto: qualcosa di legato all’origine del culto cristiano, anche se – certamente – pure il gregoriano è una “ricostruzione” operata dall’occidente cristiano nell’ottavo secolo.
E tuttavia in questo canto c’è una forza che ha a che fare con l’origine, cioè con le parole e i sentimenti espressi dalle comunità prossime all’origine. In questo senso possiamo dire che si tratta di musica sacra, perché è espressione di un sentimento ‘altro’, nel contempo autenticamente umano.
In parrocchia
- Nelle celebrazioni da lei presiedute nella chiesa di San Marco a Milano, cosa avviene con la musica?
Ho trovato una tradizione e sono andato avanti per quella. Ci avvaliamo di un organista – un musicista professionista – che accompagna il canto nella acclamazione del Vangelo e al Santo. Poi offre degli accompagnamenti musicali nei momenti consentiti dal rito. Le nostre celebrazioni sono volutamente molto asciutte. Diamo molto spazio al silenzio dopo l’ascolto della Parola, dopo l’omelia e dopo la Comunione. Lo spazio della musica e del canto è quindi abbastanza limitato.
- In questo modo, l’assemblea partecipa al canto?
Usiamo da più di vent’anni anni, almeno, le stesse acclamazioni e gli stessi moduli gregoriani. Non si può dire che la partecipazione al canto sia migliorata ma neppure che sia peggiorata. Bisogna tenere chiaramente conto – in centro città – di una certa mobilità della assemblea. Mi pare di poter comunque rilevare il sostanziale apprezzamento dei fedeli: avvertono l’essenzialità del rito e colgono il raccoglimento che c’è nella celebrazione.
- Non c’è la Schola Cantorum in San Marco?
Non c’è un coro della chiesa, ma ci sono i cori che chiamiamo a Natale, a Pasqua e in altri particolari momenti dell’anno liturgico. Ritengo il coro una delle espressioni più importanti della partecipazione al culto. Anche nei confronti degli strumenti, oltre all’organo, non ho di per sé preclusioni. Il problema per me è costituito dalle sovra-determinazioni, ossia da tutto ciò che si sovrappone all’essenziale – compresa la musica – sino alla snaturazione.
- Servono musicisti professionisti per rivitalizzare la musica da chiesa?
Normalmente fare musica in chiesa viene considerato un volontariato, anche se ci sono chiese, tra cui San Marco, in cui l’organista – da musicista diplomato – viene retribuito. È chiaro che questa posizione rende la sproporzione, ad esempio, con le chiese della riforma.
Nella chiesa cattolica chi esce dal conservatorio, frequenta scuole diocesane di musica o pontifici istituti acquisendo specifiche capacità professionali, assai difficilmente incontra riconoscimenti in quel ruolo professionale e ministeriale. Il ministero dell’organista dovrebbe essere riconosciuto anche economicamente, così come quello del maestro di cappella.
- Ci sono giovani musicisti preparati per questo?
Ci sono diversi giovani – pagati poco – che già svolgono dignitosamente un ruolo di questo tipo, ministeriale e professionale. Sono ragazzi che hanno studiato organo o direzione di coro. Sono più o meno legati a certe chiese e parrocchie. Costituiscono un elemento di novità positiva nel panorama. Non bisogna perderli.
- Possiamo dunque essere fiduciosi circa le sorti della musica nelle nostre chiese?
Si può essere insieme realisti e fiduciosi: la condizione della fiducia sta nel capire bene come sono andate le cose e, dalla situazione in cui ci troviamo nelle nostre chiese, individuare e attivare strade di recupero.
Finalmente una consideazione decente della musica sacra e liturgica. Credo non ci sia un vescovo in italia che si interessi della cosa
Grazie! molto interessante!