La perversione del bene

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In questi tempi si nota all’interno del mondo cattolico un confronto duro tra parti (forse potremmo dire tra cristianesimi) diverse su questioni delicate e complesse: accoglienza dei migranti, sessualità e omosessualità, matrimonio e divorzio, ambiente… Questa riflessione non vuole entrare nel merito di tali argomenti, ma del modo in cui vengono espressi e comunicati nel discorso interpersonale e ancora con più forza tramite i mass media e i social network.

Vorremmo inquadrare questi fenomeni come dei sintomi di una questione più profonda e più grave. Quando un argomento, prendiamo in esame quello dei migranti, assume nel suo esprimersi forme molto dure, affermazioni dirette e con toni accesi, credo sia importante, al di là della propria personale posizione, porsi alcune domande.

Dietro questa veemenza e foga comunicativa cosa si cela? Da dove nasce la pulsione emotiva che porta i soggetti a mettersi in cattedra, a essere così diretti e convinti delle proprie singole posizioni e allo stesso tempo così agli antipodi tra loro, pur appartenendo alla stessa Chiesa, credendo nello stesso Evangelo di Gesù Cristo?

La contraddizione originaria

A mio avviso meriterebbe rileggere il sempre attuale testo di Maurice Bellet «Le Dieu perverse», recentemente ristampato (Édition Desclée de Brouwer). L’autore mostra come sia «la teologia della perfezione» che quella «della grazia» si fondano su una «contraddizione cristiana».

Da una parte, l’esaltazione dell’amore, un ampliamento del desiderio, la sua trasformazione in comunione, in gioia del dono ricevuto e donato. Dall’altra, la repressione, la colpevolezza, la sfiducia intensa, un sistema pesante e raffinato che toglie all’uomo la sua gioia di vivere e condanna il suo piacere («la legge d’amore è la peggiore di tutte le leggi»).

Due sistemi apparentemente opposti che riproducono però lo stesso modello in grado di castrare e rendere sterile la fede, in quanto alienano l’uomo da ciò che è, dall’essere creato come uomo. Ciò che interessa all’autore è di mostrare come di fronte a questi modelli non bisogna soffermarsi sui contenuti o sulle strutture apparenti, poiché questi vanno solo a dissimulare il funzionamento reale di un sistema nascosto. Per sistema s’intende un insieme strutturato, coerente e stabile, indipendente in sé stesso e da ciò che altro da sé.

Proviamo a fare la stessa operazione rispetto alla conflittualità interna al cattolicesimo, sapendo che andremo incontro a pareri contrari e incomprensioni. Prendiamo, come esempio, il fenomeno migratorio e proviamo a cogliere un elemento di fondo che si trova, da una parte, dietro «il sistema della purezza evangelica» e, dall’altra, dietro «il sistema della difesa dell’identità cristiana».

Il primo ci fa dire che «un cristiano che crede nel Vangelo – già questa affermazione risulta sintomatica – non può non accogliere lo straniero, qualsiasi esso sia». Il secondo, attraverso la denuncia di un’ideologia buonista, in nome del realismo, dello smascheramento di falsità politiche e di parte, mostra l’illogicità di un’accoglienza verso tutti, sostenendo leader che vogliono difendere i valori cristiani che caratterizzano la nostra cultura davanti a tradizioni religiose incompatibili con essa.

Entrambi i sistemi reclamano una purezza originaria. Entrambi reclamano il mantenimento di un’identità cristiana che verrebbe compromessa se non si rispetta una determinata via: una via vera, sapiente, giustificata, teatralizzata (la rappresentazione è ciò che rende possibile ciò che è umanamente impossibile, ma salva le apparenze attraverso una finzione che illude di praticare la verità professata), condannando chi è di diversa opinione in quanto non tollerabile. Ecco, in altra forma, la «contraddizione cristiana».

Per un discernimento creativo

Ma qual è il motore che fa nascere e conservare questi sistemi? È la ricerca di sicurezza, la paura della perdita di identità. In entrambi i sistemi, essa è inconsciamente sottesa e presente. Ed è per questo che le conversazioni, i commenti che leggiamo, i post e le dichiarazioni televisive, almeno in noi, suscitano una sensazione strana, amara. Perché la paura non è generativa (quindi non ci pone in relazione al Creatore) ma è solo foriera di ossessioni, rigidità, fantasmi, sensi di colpa, persecuzioni, regole mortificanti.

Capiamo che nessuna persona che si colloca nelle due posizioni descritte si ritroverà in quanto delineato sopra. Probabilmente anche a ragione. Sia per la semplificazione sia per un possibile errore di valutazione. Ma forse qualcosa di vero c’è. Allora questa riflessione vuole essere solo un invito per ritrovare una forma dialogica e non dialettica al nostro confronto, almeno interno tra cattolici, su temi importanti.

Questo vorrebbe dire attivare un discernimento liberante da paure o infantilismi religiosi, che conduce verso una maturità umana della fede. Disarmarci dell’ideale di perfezione, delle discipline e dottrine irrigidite in residui di cristianesimo ante litteram. Porci nella nostra condizione semplice di umani, soggetti colmi di passione e desiderio che chiedono aiuto all’intelligenza della fede per colmare i propri limiti, dentro un processo in divenire che non troverà mai compimento su questa terra.

 

 

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