La sacramentalità della povertà

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Venerdì 25 ottobre nella cattedrale di San Giovanni in Laterano si è tenuta un’assemblea diocesana, alla presenza di papa Francesco, conclusiva del percorso che la chiesa romana ha intrapreso e attuato nel memoriale del convegno del 1974, passato alla storia come convegno sui “mali di Roma”. Su Avvenire del 26 ottobre, Gianni Cardinale ne offre una sintesi, pertanto mi dispenso dal riportare quanto ascoltato e vissuto in quella occasione. Piuttosto ritengo che questa esperienza chieda di essere accompagnata da qualche elemento di riflessione teologica, onde evitare il rischio, sempre incombente del sociologismo.

In alcuni momenti è risuonata l’espressione secondo cui il povero è “sacramento”. Una bella sfida, dato che la tesi è stata sostenuta in un luogo destinato al culto e durante una liturgia della Parola. E qui si rende necessario qualche suggerimento teologico. La sacramentalità del “povero” ci interpella in quanto la persona che vive nell’indigenza materiale e/o spirituale ci pone di fronte all’umano tout court, così come è stato pensato e creato da Dio, in qualsiasi modo ciò sia avvenuto. Si tratta della donna e dell’uomo che prendono coscienza della loro fragilità nel momento in cui scoprono di essere nudi.

Nella povertà cadono le maschere, anche quelle di Halloween, gli orpelli, i ruoli, le funzioni… è l’umano che si propone così com’è e prima che aiutarlo, va contemplato. Il vescovo di Roma in diverse occasioni (e anche in questa) ci ricorda che mentre offriamo i beni materiali ai poveri, dobbiamo avere il coraggio di guardarli negli occhi. Una coincidenza non estrinseca mi sembra consistere nel fatto che negli stessi giorni è venuto a mancare Gustavo Gutierrez, che ha saputo porre al centro della teologia la figura del povero e dell’emarginato (qui il bel profilo che ne traccia Severino Dianich). E a braccio il papa ha esortato i presenti a non dare del “comunista” a chi si dedica ai poveri.

Nel corso dell’assemblea sono state presentate e denunciate le diseguaglianze che si vivono nella nostra città. Sarebbe tuttavia fuorviante pensare che esse siano semplicemente socio-economiche, anche se questa dimensione è quella che immediatamente si è imposta all’attenzione della comunità credente nel percorso che l’ha vista impegnata a descrivere e denunziare situazioni di povertà cronica nell’educazione scolastica, nella sanità, riguardo alla casa e al lavoro. Ma non si sono chiusi gli occhi di fronte alla povertà spirituale, con particolare attenzione alla solitudine. E da questo punto di vista non è detto che indigenti non siano anche quanti abitano in quartieri agiati, rispetto alle periferie.

Andando oltre, ritengo che sia da denunziare e soccorrere anche la povertà culturale che si respira in una città come la nostra e in genere nel nostro contesto generale. Mentre scrivo sta divampando sui media ancora una volta la polemica relativa all’egemonia culturale in Italia. Gli intellettuali si dividono fra quanti ritengono che tale operazione sia da attribuire a chi ci sta governando e quanti, al contrario, pensano che il potere non può nulla sulla cultura, che continua comunque a diffondersi ed esprimersi come meglio crede, per esempio nel cinema, e in genere negli spettacoli, nelle librerie e nell’editoria, nelle terze pagine dei giornali cartacei e non.

Certo il potere politico può esercitare e di fatto esercita censure più o meno mascherate, anche talvolta malamente, ma si danno forme di potere diffuso come quelle denunziate da Alessandro Chetta nel suo recente saggio Woke i nuovi bigotti. Il politicamente corretto come religione laica (Aras edizioni, Fermo 2024). E del politicamente corretto spesso siamo succubi o almeno deferenti anche noi cattolici. La povertà culturale si percepisce a Roma nei confronti in particolare di turisti che arrivano qui per fruire delle bellezze di questa città, senza fermarsi a contemplarle e di concittadini che ignorano tali espressioni dello spirito. La meditazione generativa di pensiero richiede tempo, che il fugace visitatore non può concedersi. Dio non voglia che sia così anche per i pellegrini del giubileo.

A fronte di questa povertà, la recente costituzione che sta riformando la diocesi ha istituito un ufficio della cultura, affidandone la cura al sottoscritto e all’ammirevole Marco Staffolani. Con grande fatica, perché in particolare il clero (vescovi compresi) sembrano lontani dall’avvertire tale esigenza, in questo primo anno abbiamo aperto dei “cantieri della cultura”, che hanno messo e metteranno in campo dei processi e delle iniziative atte a stimolare l’esercizio della “carità intellettuale”, non meno urgente di quello della “carità materiale” (chi è interessato può assumere le informazioni relative alle attività a questo link).

Insieme alla consapevolezza relativa alla valenza culturale, che l’evangelizzazione deve esprimere e presupporre, perché “la grazia suppone la cultura” (Evangelii Gaudium 115) non ci stancheremo di sottolineare la necessità della riflessione teologica non solo per il clero, ma per i credenti e direi per quanti non si ritengono tali, onde evitare fondamentalismi anche pauperistici, sempre possibili. E tutto ciò nella consapevolezza del fatto, indicato nel 1954 da Gaetano Salvemini che «la cultura vera — come con un paradosso profondo è stata definita — è “ciò che resta in noi dopo che abbiamo dimenticato tutto quello che avevamo imparato”».

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