Due anni fa, nell’ambito delle celebrazioni per il 50° anniversario della promulgazione della dichiarazione conciliare Nostra aetate – il documento che sollecita i cattolici a passare da un atteggiamento ostile a un rapporto fraterno verso gli ebrei – l’ambasciata israeliana presso la Santa Sede ha promosso una campagna mediatica diretta a combattere le manifestazioni dell’antisemitismo contemporaneo. Lo scorso 8 aprile, in occasione della giornata in cui Israele ricorda la Shoah, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher – attuale Segretario per i rapporti con gli Stati – ha voluto manifestare la partecipazione della Santa Sede all’iniziativa con un suo videomessaggio.
Un processo (soltanto) iniziato
Dopo aver notato il nesso che lega il documento conciliare con l’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco, ha sottolineato che la dichiarazione del Vaticano II rappresenta «una condanna dell’antisemitismo sotto ogni forma e specie». Ha poi aggiunto che quel risultato aveva radici profonde nella precedente storia della Chiesa. Per illustrare questa asserzione, ha esposto il contenuto di un ritrovamento documentario – definito «una perla» – nell’Archivio della sezione per i rapporti con gli Stati della Segretaria di Stato. Si tratta di una corrispondenza intercorsa nel 1919 tra il Consiglio dei rabbini askenaziti di Gerusalemme e Benedetto XV. Alla richiesta di aiuto per combattere le violenze antisemite allora esplose in diversi paesi dell’Europa orientale, il papa risponde che la Chiesa, considerando tutti gli uomini come fratelli, è contraria ad ogni espressione di odio, «soprattutto verso i figli del popolo di Israele».
Mons. Gallagher ne trae la conclusione che già a quella data la Santa Sede era consapevole dell’antitesi tra il valore cristiano della fratellanza e l’antisemitismo. Non si può certo chiedere ad un esponente del governo vaticano puntuali conoscenze storiche. Ma è improbabile che gli sia ignoto che la «condanna» dell’antisemitismo nella Nostra aetate fu oggetto in aula di un vivace dibattito, il cui esito portò alla sostituzione di quel termine, presente nello schema preparatorio, con la più cauta espressione di «deplorazione».
Si può insomma notare che sarebbe stato più conforme alla verità storica ricordare che la condanna dell’antisemitismo da parte della Chiesa è un processo che la dichiarazione conciliare non ha concluso, ma solo iniziato.
Diritti civili e politici
Più sorprendente appare l’interpretazione del nuovo materiale archivistico presentato nel videomessaggio. Agli archivisti della sezione per i rapporti con gli Stati non dovrebbero essere sfuggiti gli studi che contestualizzano quei documenti nel quadro complessivo dei rapporti tra Benedetto XV e gli ebrei. Non si tratta di inserire la corrispondenza ora emersa dai depositi vaticani nel contesto della dura presa di posizione, pronunciata dal pontefice nel marzo 1919, contro la home ebraica in Palestina. Altra è infatti la questione qui considerata: l’atteggiamento romano sulle violenze antiebraiche. Ma proprio su questo punto le ricerche sono state assai approfondite.
Già nel corso della Grande Guerra il papa era stato sollecitato dagli ebrei americani a interporre la sua autorità morale per far cessare i pogrom nell’Europa orientale. Dal complesso percorso curiale di elaborazione della risposta, resa pubblica nel febbraio 1916 dal Segretario di Stato, cardinal Gasparri, era allora scaturito l’orientamento poi riproposto nel 1919. Il papa, denunciando l’odio antisemita, si impegnava a tutelare i diritti naturali (la vita) degli ebrei; ma il suo impegno non si estendeva al punto di tutelarne i diritti civili e politici. Da quel momento la linea del papato – che verrà puntualmente confermata nella condanna degli Amici di Israele da parte di Pio XI nel 1928 – si attesta su questa posizione. Il rigetto di ogni manifestazione di odio verso gli ebrei non si estende a respingere ogni forma di antisemitismo. Anzi la condanna dell’odio antiebraico si può coniugare con la promozione della loro discriminazione sul piano civile.
Queste considerazioni sulle distorsioni storiche presenti nel videomessaggio non vogliono minimizzarne il rilievo. Pur non sorrette da adeguate conoscenze storiche, la cui formulazione probabilmente le renderebbero più efficaci, le parole dell’arcivescovo non possono che suscitare un vivo apprezzamento. Sono infatti la testimonianza della ferma volontà della Santa Sede di partecipare alla lotta contro un antisemitismo che, anche valendosi delle nuove vie di comunicazione digitale, appare assai diffuso nel mondo attuale. Ma anche su questo piano si potrebbe avanzare l’ipotesi di qualche opportuno aggiornamento.
Quale antisemitismo?
Negli stessi giorni in cui la Santa Sede partecipava all’iniziativa dell’ambasciata israeliana il Van Leer Institute di Gerusalemme – un centro di ricerca per la promozione di nuove forme di coesistenza nella società israeliana – ha reso noto un documento intitolato Jerusalem Declaration on Antisemitism che è stato sottoscritto da circa duecento intellettuali, ebrei e non ebrei, di tutto il mondo.
Frutto di un gruppo internazionale di esperti in scienze storiche e sociali che ha lavorato sulle manifestazioni dell’antisemitismo contemporaneo per circa un anno, il documento afferma che la lotta all’antisemitismo non può essere disgiunta dalla complessiva lotta «contro ogni forma di discriminazione, razziale etnica culturale religiosa e di genere». In questo quadro il documento sostiene che la definizione di antisemitismo formulata nel 2016 dall’International Holocaust Remebrance Alliance appare insoddisfacente, in quanto, in buona parte, identifica posizioni antiebraiche e antisemite con critiche alle politiche messe in atto dal governo israeliano. Si tratta della definizione in uso nelle ufficiali relazioni internazionali. È stata infatti elaborata da un gruppo di rappresentanti diplomatici di 34 paesi, tra cui l’Italia, ed è sostenuta dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea.
La Santa Sede non ne fa parte. È dunque libera da una nozione di antisemitismo che lo confonde con la politica del governo israeliano. Non c’è dubbio che un diplomatico, come mons. Gallagher, non può che misurare con grande cautela tutti i suoi passi. Per di più la partecipazione ad una iniziativa israeliana di celebrazione della Nostra aetate richiede riguardo e cortesia. Eppure la coincidenza cronologica tra le due iniziative di contrasto alle risorgenti pratiche antisemite non può che colpire gli osservatori. La saggia decisione di inviare il videomessaggio non sarebbe stata una buona occasione anche per chiarire la posizione vaticana su quale sia l’antisemitismo che la Santa Sede intende oggi combattere?
Ringrazio il Prof. Menozzi per questa puntuale disamina. Aggiungo che la Chiesa dovrebbe interrogarsi più precisamente su dove si fondi la fraternità universale, che non può evidentemente avere solo una fondazione di diritto naturale o basata su una specie di religione naturale che ci verrebbe tutti genericamente figlio di Dio. La fraternità universale affonda la sua radice più vera proprio nella dinamica storico salvifica che si muove dall’Allenza con Israele fino alla comunione messianica e, per questo, fraterna.