Dalla pandemia nasce anche una nuova domanda di santità? Le numerose suggestioni che riguardano la liturgia, il vissuto del prete, la riflessione teologica e la dimensione comunitaria rafforzano il passaggio da una santità di identità a una santità di comunione, da una testimonianza di proposta a una testimonianza di condivisione. È utile seguire alcuni percorsi di canonizzazioni recenti o in fieri, in questi mesi di pandemia, per averne consapevolezza.
La beatificazione del card. Stefan Wyszynski, la proposta di riconoscimento di dottore della Chiesa per san Giovanni Paolo II (il 18 maggio ricorre il centenario della sua nascita) e l’annuncio del processo diocesano per i suoi genitori (11 marzo scorso), da un lato, e, dall’altro, l’avvenuta canonizzazione di p. Massimiliano Kolbe e il percorso verso la beatificazione delle sei suore (delle Poverelle), morte a causa del virus ebola in Congo nel 1995.
Non per contrapposizione, ma per sviluppo di una consapevolezza ecclesiale. I santi restano, ma l’interpretazione della santità è sollecitata dalle vicende storiche.
Wyszynski e Wojtyla
La celebrazione di beatificazione del card. Wyszynski era già programmata per il 7 giugno 2020 in piazza Pilsudski a Varsavia, ma la pandemia ha obbligato l’aggiornamento della data. Nato nel 1901 e morto nel 1981, è considerato una delle figure polacche più eminenti del ’900 e il riferimento morale maggiore del lungo periodo comunista. Il vice postulatore, p. G. Bartoszewski, ha detto: «Dobbiamo considerarlo non solo uno statista che, come Mosè, ha guidato la Chiesa e la società attraverso il mar Rosso del comunismo, ma soprattutto come un autentico credente che si è messo a servizio delle persone», ammirato per la santità della sua morte, le virtù esercitate e la qualità d’animo.
I vescovi polacchi nel novembre scorso e in preparazione al centenario della sua nascita hanno formalmente richiesto di proclamare san Giovanni Paolo II dottore della Chiesa per l’importanza e la profondità del suo insegnamento. L’insieme dei suoi studi sul personalismo fenomenologico e del suo magistero episcopale e petrino è, a parere loro e dei vescovi cechi e slovacchi, motivo adeguato per riconoscere l’eminente dottrina che il titolo di dottore della Chiesa pretende. Una richiesta autorevole che potrebbe aprire un iter giuridico specifico per comprovare l’influsso permanente dei suoi scritti nel popolo di Dio della Chiesa universale.
Se Wyszynski rappresenta la chiave di lettura per la vicenda storica del ’900 della Chiesa polacca, il riconoscimento del titolo di dottore a Giovanni Paolo II proietta sulla Chiesa universale una proposta teologico-magisteriale fortemente segnata dal tema dell’identità.
In occasione dell’apertura dell’anno accademico dell’università di Lublino, il rettore, A. Debinski, ha indicato le due figure come straordinari uomini di fede, capaci di declinare contestualmente la loro missione a servizio della Chiesa universale e della nazione. «Insegnarono con coraggio e costanza che ogni essere umano ha dignità di figlio di Dio, membro della Chiesa, ma, allo stesso tempo, figlio della sua nazione, che continua a svilupparsi sulla base della propria cultura, lingua, tradizione, storia e religione». Si deve anche a loro la distinzione fra nazione e stato che ha permesso alla Polonia la continuità di legame con le radici cristiane nel tempo della dittatura.
La via del dono
L’annunciata apertura del processo diocesano per il riconoscimento delle virtù eroiche dei genitori di papa Wojtyla, Karol ed Emilia, risponde a una fama di santità di una coppia duramente provata dalla vita e straordinariamente fedele: morte prematura della figlia Olga, dello zio Jozef, della mamma (il futuro papa aveva 9 anni, nel 1929) e dell’altro figlio Edmund nel 1932. Padre e figlio, ambedue col nome di Karol, vivono la guerra e la successiva occupazione russa. Il padre muore nel 1941. Il postulatore A. Scaber addita la coppia come emblematica per la famiglia oggi, che, provata da divorzi, convivenze e abbandoni, ha bisogno di esempi di amore fedele e di fede indomita.
L’opportunità di uno sviluppo delle forme del processo di riconoscimento di santità, più aderente ai molti vissuti cristiani, ha prodotto il motu proprio Maiorem hac dilectionem (11 giugno 2017). In esso papa Francesco riconosce una quarta via per la proclamazione della santità cristiana per quanti hanno offerto eroicamente la propria vita per il prossimo, accettando liberamente e volontariamente una morte certa e prematura con l’intento di seguire Gesù. Le tre vie precedentemente percorse erano: il martirio, l’esercizio delle virtù eroiche e la canonizzazione detta “equipollente” e cioè un culto attestato e riconosciuto nel tempo che, per il romano pontefice, è testimonianza di santità anche senza il miracolo specifico richiesto.
Nella fattispecie dell’offerta della vita è facile riconoscere il gesto di generosità di p. Massimiliano Kolbe – indicato come “martire” e canonizzato nel 1982 – che, nel lager di Auschwitz, si propose di sostituire un padre di famiglia alla condanna a morte. Morì assieme agli altri condannati nel “blocco della morte” dopo due settimane di agonia, senza cibo e acqua.
Sulla stessa linea si colloca la vicenda delle sei suore italiane che, nel 1995, accettarono consapevolmente di restare nel loro servizio di infermiere a Kikwit (Congo) anche in presenza dell’epidemia ebola che fece centinaia di morti. Nel servizio ai malati contrassero la malattia e morirono. La vicenda delle suore (Clarangela Ghilardi, Floralba Rondi, Vitarosa Zorza, Annelvira Ossoli, Dinarosa Beller e Danielangela Sorti), dopo il processo diocesano conclusosi nel 2014, è ora prossima al riconoscimento vaticano da parte del dicastero dei santi.
Senza confini e senza nemici
Dare la vita nell’epidemia è una forte suggestione per le molte testimonianze cristiane in questi mesi di pandemia. Assieme a mille altre figure, i credenti in “prima linea” (medici, infermieri, preti, addetti ai servizi essenziali ecc.) sanno cosa significa il pericolo legato alla cura delle persone e allo sforzo di salvaguardare la salute di tutti.
In questo gesto di cura, profondamente umano, si sfarinano i confini nazionali, le diversità etniche e le distanze geografiche. Scompare l’odium fidei (l’odio alla fede) perché non ci sono nemici, né contrasti ideologici o di potere. Viene meno una identificazione confessionale, perché lo scontro col male coinvolge mille e mille competenze e generosità.
È un santità di comunione e una testimonianza di condivisione già tematizzate nell’esortazione apostolica Gaudete et exultate (19 marzo 2018). L’universale chiamata alla santità è collocata da papa Francesco nel popolo di Dio in una dimensione collettiva e comune ai membri più umili e dimenticati. «La santità è il volto più bello della Chiesa. Ma anche fuori della Chiesa cattolica e in ambiti molto differenti, lo Spirito suscita segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo».
Se il martirio ha già accumunato le memorie delle varie Chiese cristiane, in particolare nel ’900, è ora tempo di guardare a quanti si impegnano, rischiando la vita, per salvare l’umano comune. Questo fa emerge nella santità cristiana alcune caratteristiche come la gioia, l’audacia e il fervore, l’appartenenza comunitaria e la preghiera.
Ma, in particolare la pazienza e la mitezza: «Tale atteggiamento presuppone un cuore pacificato da Cristo, libero da quell’aggressività che scaturisce da un io troppo grande. La stessa pacificazione, operata dalla grazia, ci permette di mantenere una sicurezza interiore e resistere, perseverare nel bene anche “se vado per una valle oscura”, o anche “se contro di me si accampa un esercito”» (Gaudete et exultate, n. 121).