Questo racconto, anonimo per ovvie ragioni, ripercorre, per sommi capi, il calvario di una giovane che si è vista rovinata irreparabilmente la vita perché un giovane prete, amico di famiglia, la sedusse quando lei era adolescente. Quanto ha pesato quella “colpa” sul suo essere donna, moglie, madre e nonna? Una narrazione “da parte delle vittime”.
Filomena (nome di fantasia) è da una vita che non sorride più! Da quando… Era il tempo della “cristianità” (negli anni ’50/60 dello scorso secolo). Il tempo in cui il sacerdote era una persona importante non solo sull’altare e nella Chiesa, pure nella società e incuteva un senso di rispetto e di… venerazione. Il suo stesso stile di vita, il modo in cui vestiva, poteva perfino mettere soggezione ad una ragazza adolescente come, nello stesso tempo, all’inizio, sentirsi lusingata dall’avere una relazione con lui.
Questo giovane prete, era affabile con la gente, era uno di casa della giovane, poteva essere considerato un amico di famiglia.
La talare lunga fin quasi a terra era portata con una certa eleganza, una veste che copriva perfino i pantaloni “Ma, come mio papà li porta?” si chiedeva incuriosita l’adolescente… Tutto attorno c’era rispetto nei confronti di questa persona “sacra”, le cui mani rendevano vivo e presente Gesù sull’altare. Anche se, sotto quella veste, non poteva nascondere la sua realtà di uomo, e che uomo!
Perché “quelle stesse mani” facevano del male alla giovane ragazza, ed hanno continuato a farlo fino a quasi al suo matrimonio… Per anni!
Ci sono certe violenze che tolgono l’anima a chi le subisce. Sono più di una ferita. Sono come un grosso tumore latente, che nessuno vede, ma la cui presenza rende dolorosa e travagliata l’intera esistenza.
Chi – come me –, dopo diversi decenni, la incontra sul suo cammino per il ministero della riconciliazione, cerca di consolarla, arriva perfino a perdonare peccati non commessi da lei, pur di farla sentire in pace. Ma tutto ciò non la scalfisce! Tutte le relazioni umane, specie quelle familiari, le vede influenzate dal suo “peccato”. Si permette un po’ di umorismo un paio di volte nella sua vita: quando il “sacerdote” se lo trova presente al suo matrimonio, perché era un amico di famiglia, e in un’altra occasione, quando viene a sapere che era stato insignito del titolo di monsignore! Il “mostro” è perfino tenuto in grande considerazione nella sua diocesi: ovviamente nessuno sapeva cosa facesse nel privato, all’ombra del campanile!
Chissà perché è venuto pure a me da sorridere quando ho pensato alla lastra funebre che copriva la sua tomba con la scritta a caratteri cubitali, preceduti dal titolo: “Qui giace MONS. *** … RIP” … (Ma come può trovare pace una persona le cui azioni hanno danneggiato un’esistenza altrui? Come può un Dio misericordioso accogliere una persona nella sua pace e lasciare la “vittima” in una sofferenza continua? È proprio un mistero!).
Difatti, nel cuore e nell’animo della ragazza, col tempo diventata donna, moglie, madre e nonna, si è inciso un tormento che le ha rovinato l’esistenza, perfino privata di quelle gioie “naturali” che ogni donna sperimenta nel diventare madre e nonna.
Non solo, nelle circostanze infelici che ogni famiglia attraversa: come quando il figlio si divide. La colpa è sua! La figlia convive e non si sposa? Anche di questo si colpevolizza. L’altro non si è sposato, l’altra non riesce ad aver figli… Tutto questo capita per “causa sua”!
Si ha un bel dirle: non è vero, queste situazioni sono presenti anche in altre famiglie… Non riesce a darsi ragione. In questo cuore fattosi di pietra il male subìto lo rovescia anche all’esterno, sull’esistenza dei suoi familiari.
Un giorno, nel confessionale, guardando al crocifisso appeso alla parete, mi vien da dirle, guarda che tu sei lì accanto a lui che, come te, si trova in quella condizione perché altri ce l’hanno messo… Guarda e tace, senza alcun commento: ovviamente non si sente toccata!
Per sommi capi, accenno alla situazione dolorosa e difficile di una donna che non sa gioire ed essere serena da quando qualcuno che lei stimava l’ha legata a sé in una relazione perversa che continua a farla sentire, non solo sporca, ma anche caricata di tutti i mali che sperimentano – come si diceva sopra – i suoi familiari.
Costei, con un gruppo ristretto di persone della sua parrocchia, ha occasione di incontrare papa Francesco, voleva condividere con lui il suo dolore che le tiene compagnia da un’esistenza, ma le era accanto il marito e quindi non poteva azzardarsi ad aprire bocca: se lui avesse sentito, cosa le sarebbe accaduto? Né lui, né tanto meno nessuno dei suoi familiari deve sapere nulla: che reputazione avrebbero della moglie, della madre e della nonna?
Un “disordine” tutto “suo”, che ha condiviso con alcuni sacerdoti nel segreto del confessionale, ma tutti si sono mostrati incapaci di darle un po’ di pace, di serenità.
Si è tentato perfino di interpellare il papa. Si pensava, molto probabilmente che una sua parola avrebbe potuto portarle un po’ di serenità. Seguendo l’apposito canale, alla fine, si è riusciti ad avere un suo pensiero con la sua firma autografa. Ma, col tempo, anche questo mezzo si è rivelato come la presenza del sole in un prato coperto di neve; col tempo, questa scompare e resta la realtà che prima era stata coperta.
Dalle conseguenze presenti ancora nella donna dopo decenni che i fatti sono accaduti, ci si rende conto quali reazioni negative produce un simile sopruso da parte di una persona adulta, nei confronti di una giovane, da arrivare a deformare il suo animo. Difatti non fa altro che continuare a nutrire sentimenti di colpa per quello che ha “fatto” e che continua a non ammettere di essere stata “costretta” a subire e a compiere!
Anche chi ha raccolto più volte la “stessa” confidenza si trova incapace di infrangere quel muro che si è costruita, giorno dopo giorno, per tutta la sua esistenza con le sue stesse mani: per difendersi? per proteggersi? per salvarsi da ogni intrusione, dopo essere stata privata della capacità di distinguere gli interventi positivi da quelli negativi?
E, come non bastasse, raggiunta l’ottantina d’età, si trova ancora ad avere le stesse fantasie e sensazioni fisiche di allora e continua a colpevolizzarsi.
A suo vantaggio c’è che, molto probabilmente, sulle prime, non è stata capace di capire fino in fondo quanto le stava accadendo. Non credeva a quanto stava succedendo e negava i fatti a se stessa, tanto da arrivare a pensare che era stata lei stessa ad interpretare male i fatti che accadevano quando si incontrava col sacerdote. Solo col tempo si è resa conto quanto il prete faceva e voleva da lei: un insieme di richieste e atteggiamenti non corretti e inopportuni, ma che ora non era più in grado di rifiutare, tanto gli era sottomessa.
Da quanto ho potuto comprendere, non so se la donna sia arrivata a rendersi conto che la cosa peggiore che stava subendo era la demolizione della sua personalità: il trasformarsi da vittima in complice (nel suo continuo “voler” confessare le “sue” colpe!)… Come pure non so quando sia riuscita rendersi conto che non era una cosa da fare e cosa le ha impedito di chiedere un aiuto a chi avrebbe potuto.
Questo lo si dice e lo si può pensare oggi, con tutta libertà, dopo i fatti accaduti quasi una sessantina di anni fa, quando era inconcepibile che nell’uomo del sacro potesse vivere anche la “bestia”! La talare nascondeva tutto, proprio tutto, non solo i pantaloni dell’uomo e del padre della ragazza e degli altri uomini!
Accogliere, ascoltare, consolare, incoraggiare: tutto sacrosanto. Sono le sempre valide e meritorie opere di misericordia spirituale. Ma possono non bastare, come si è visto in questo racconto.
Niente infatti è riuscito a scalfire la corazza di sofferenza della vittima, la quale avrebbe avuto bisogno di un particolare tipo di aiuto che il prete non poteva dare: quello dello psicologo o dello psichiatra. Il loro intervento avrebbe potuto essere risolutivo e aiutare la vittima a riprendere in mano la propria vita. Chi si ritrova a raccogliere le confidenze di una vittima di abusi ha l’opportunità preziosa di spingerla, anche con insistenza se necessario, a chiedere aiuto a chi ha i mezzi per intervenire in modo competente.