La teologia del laicato secondo Lazzati

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Il prefetto del Dicastero delle cause dei santi, il card. Marcello Semeraro, è intervenuto il 13 maggio 2023, presso la sede della Azione cattolica ambrosiana, a un incontro in memoria del venerabile Giuseppe Lazzati nel 37esimo anniversario della sua morte. Pubblichiamo di seguito il suo intervento (dal sito del Dicastero delle cause dei santi).

lazzati e montini

Sento il bisogno di dire la mia gratitudine alla Fondazione «Giuseppe Lazzati», all’Azione cattolica ambrosiana, all’Istituto secolare «Cristo Re» e all’associazione «La Città dell’Uomo», per l’invito rivoltomi a ricordare il venerabile Servo di Dio Giuseppe Lazzati nel 37° anniversario della morte. Egli è sempre stato per me una figura di riferimento, sicché, quando, in occasione dei miei cinquant’anni di ordinazione sacerdotale, un mio ex alunno, intervistandomi e rievocando il mio impegno per la teologia del laicato, mi chiese quale fosse oggi il mio pensiero in proposito, gli risposi testualmente: «La figura completa del fedele laico è per me ancora quella di Lazzati».

In effetti, nel 1986 (erano i miei primi anni di docenza dell’ecclesiologia nella Facoltà di Teologia del Laterano) mi era stato chiesto assumere la cattedra di «Ricerche sul Laicato», subentrando alla prof. Rosemary Goldie, che andava in pensione.[1]

Occupai per diversi anni l’incarico[2] ed è in quel contesto che il pensiero di G. Lazzati divenne oggetto dei mei studi. Non poteva del resto essere diversamente, poiché, riguardo alla teologia del laicato, Lazzati era indubbiamente un’autorità. Lo ricorda pure il Decretum super virtutibus firmato il 5 luglio 2013 dal card. Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi. Vi si legge: «Il Servo di Dio rifletté profondamente sulla responsabilità dei laici nella Chiesa e nel mondo e operò per concretizzare nella realtà secolare una presenza specificamente cristiana».

Erano gli anni in cui erano già sorte alcune problematiche sicché l’incontro di oggi con voi mi permette di rievocare quei momenti, che fanno parte della storia della Chiesa in Italia e che, se bene considerati, aiutano a comprenderne progressi e pure ritardi e possono, nel caso, anche aiutare a trovare delle nuove risposte per l’oggi.

La ricezione postconciliare

Si ricorderà, dunque, che il periodo postconciliare fu contrassegnato pure da una non sempre serena assimilazione dell’insegnamento del Vaticano II. Sulla questione del laico, in particolare, ci fu chi, equivocandone l’insegnamento, lo portò fuori dal suo naturale quadro ecclesiologico, o anche sbilanciò la questione del laico esclusivamente sul fronte del suo rapporto col mondo. Si trattava, in termini estremi, di una ripartizione di campi che, per un verso, escludeva i ministri sacri da ogni forma di competenza in ordine al temporale e, dall’altra, i fedeli laici dalla presenza attiva nella vita interna della Chiesa. In breve, si attribuiva la Chiesa ai «chierici» e il mondo ai «laici». Una posizione evidentemente insostenibile!

Non mancarono, però, occasioni di ulteriori riflessioni e approfondimenti, alla cui base si potrebbero individuare due ambiti di riflessione: uno di carattere ecclesiologico e l’altro canonistico-giuridico. Quanto al primo, si potrà ricordare l’influsso esercitato dalle nuove suggestioni espresse da Y. Congar, che pure era stato uno dei precursori delle acquisizioni conciliari. La sua visione iniziale, benché formulata nell’auspicio di una «ecclesiologia totale» non più ridotta a «gerarcologia», era formulata mediante il fondamentale binomio di «gerarchia/laicato».[3] Tale concezione lasciava ora il posto a una nuova impostazione ecclesiologica di tipo comunionale, la cui base è sicuramente nel magistero del Concilio Vaticano II.

In una sorta di retractatio agostiniana, Congar riconosceva che il suo intervento nei Jalons pour une théologie du laïcat (1953) era stato eccessivamente condizionato dall’intento di definire il ruolo del laico di fronte al clero, o ministro ordinato. Il Concilio, sosteneva ora Congar, aveva come reinventato l’uomo cristiano, donandogli la consapevolezza ch’egli deve attingere non solo dalla gerarchia ma, più ancora, dalle convinzioni evangeliche derivanti dalla propria ontologia di grazia ricevuta col battesimo. Se, dunque, in una prospettiva gerarcologica, la Chiesa è societas inaequalis, nella prospettiva del «popolo di Dio» bisogna accentuare l’eguaglianza radicale fra tutti i cristiani, che trova in Cristo il proprio ultimo fondamento. Nella Chiesa il tutto deve essere compiuto da tutti, benché non da ciascuno allo stesso titolo e alla stessa maniera.

Al binomio precedente, dunque, che perseguiva la valorizzazione del fedele laico nel quadro di una Chiesa ancora clericale, doveva sostituirsi l’altro di «comunità/ministeri», lasciandone emergere l’idea che, in un mondo oramai non cristiano, la Chiesa è presente mediante l’organica cooperazione di tutti i membri del popolo di Dio, popolo messianico, nel quale, cioè, agisce lo Spirito. Ecco, perciò, la nuova conclusione:

«Gesù ha istituito una comunità strutturata, una comunità interamente santa, sacerdotale, profetica, missionaria, apostolica, con ministeri al suo interno: alcuni liberamente suscitati dallo Spirito, altri legati con l’imposizione delle mani all’istituzione e alla missione dei Dodici. Bisognerebbe dunque sostituire, allo schema lineare, uno schema in cui la comunità appaia come la realtà inglobante, all’interno della quale i ministeri, anche quelli istituiti e sacramentali, si situerebbero come servizi per ciò che la comunità è chiamata ad essere e a fare».[4]

A seguito di questa correzione, la Chiesa appare ormai come una comunità costruita da una pluralità dì servizi. In questo contesto, dove il battesimo è costitutivo di tutta la dignità cristiana, non è più il laico ad avere bisogno di una definizione, ma il ministro ordinato.[5]

Riguardo al secondo ambito, ottennero eco alcune osservazioni sulla varietà delle nozioni di fedele laico presenti nella costituzione Lumen gentium. Tra gli altri H. Heimerl, canonista austriaco, in un suo studio anteriore alla promulgazione del nuovo Codice, ne distingueva almeno quattro.

La prima, negativa-unipolare, è quella che, in rapporto al chierico, individua nel laico colui che non è tale. L’altra nozione, negativa-bipolare, è quella che pone il laico in relazione ai due stati, clericale e religioso; a loro confronto, il laico è colui che non presenta in sé i loro caratteri e privilegi.

Accanto alle due precedenti nozioni, se ne possono trovare altre due, questa volta in positivo. Si tratta di una nozione positiva (unipolare) essenziale, che vede il laico soprattutto nel suo rapporto con i chierici, dai quali si distingue con un ruolo attivo e positivo: egli collabora con la gerarchia per l’edificazione del Corpo di Cristo; e di una nozione positiva (bipolare) esistenziale dove il laico è il cristiano che ha la sua collocazione nel temporale: a differenza del chierico e del religioso, che escono dal «mondo», il cristiano opera cristianamen­te nel mondo. Quest’ultima era la nozione prevalente: il laico è Welt- christen, cristiano nel mondo. Questa designazione – diceva Heimerl – poteva sostituire quella di «laico», ormai appesantita da significati contraddittori[6].

In ambito italiano le nuove tesi del Congar furono presto accolte e diffuse da B. Forte.[7] Egli condivise senz’altro l’idea che quella del laico è una questione interna dell’ecclesiologia; riguardo a quest’ultima, poi, egli riteneva l’idea che la continuità col Vaticano II ne implicasse necessariamente il superamento e questo mediante lo sviluppo di quegli elementi «comunionali» che, pure presenti, non erano tuttavia ancora pienamente recepiti. Ora, appunto, nella prospettiva dell’«ecclesiologia di comunione», anche B. Forte giungeva a ritenere superata la nozione di laico. Egli, infatti, non ha un proprium da vantare; piuttosto, nell’ambito del binomio comunità/ministeri-carismi, il fedele laico se lo vede attribuito dal tipo di ministero, o di carisma che ha ricevuto, o che riceve. Come ogni altro cristiano, del resto.

Anzitutto «cristiani»

Il dato «nuovo», infatti, è che tutti: laici, chierici e religiosi che siano, sono anzitutto «cristiani». Da qui sgorga il «dover essere» del cristiano, la sua missione nella Chiesa e nel mondo. Qualora poi si voglia qualificare la specificità del ministero ordinato rispetto alla molteplicità dei ministeri e carismi esistenti nella Chiesa, si dirà che esso possiede come proprio il carisma del discernimento dei carismi e il ministero della sintesi dei ministeri. Solo in questa chiave il ministero ordinato si mostra promozionale nei riguardi dei fedeli laici.

Quanto poi all’«indole secolare» che il Vaticano II attribuisce ai laici come loro propria e peculiare si dirà che, nel recupero della prospettiva comunionale, essa è una qualità che invece bisogna riconoscere a tutti i battezzati. Anche se alcuni, per un libero dono dello Spirito, hanno un rapporto più proprio con il saeculum, si deve dire che la Chiesa intera è interpellata dal mondo ed è posta in relazione con esso. E poiché, in ultima analisi, «laicalità» e «secolarità» coincidono, si dovrà pure affermare che tutta la Chiesa è «laicale», così come è per intero «secolare». Laicalità di tutta la Chiesa, dunque, e non invece attributo proprio e specifico di alcuni battezzati.

Tali osservazioni furono subito contestate da Giuseppe Lazzati, cui le modifiche proposte parvero non soltanto superare il magistero conciliare sui fedeli laici ma anche contrastarlo e, comunque, ridurlo in termini di genericità.[8] Anzitutto, egli obiettò che non andavano confusi termini come «dimensione» (secolare) e «indole» (secolare). Il primo era stato usato da Paolo VI quale attribuzione valida per tutta la Chiesa;[9] il secondo, invece, fu impiegato dal Vaticano II per indicare ciò che è proprio e peculiare dei laici.

«Dimensione», in effetti, è una delle coordinate che, evidentemente insieme con altre, caratterizzano il mistero della Chiesa. Essa dice che il Popolo di Dio, in quanto soggetto storico, vive e agisce nello spazio e nel tempo ed è in missione verso il mondo. Una sola dimensione, tuttavia, non riesce affatto a definire l’intera natura della Chiesa la quale, più che unidimensionale, è invece complessa. Se non altro, si dirà che la Chiesa è relazionata al mondo per la sua missione ma che è relazionata al mistero trinitario per la sua vocazione. Vocazione e missione definiscono la Chiesa che, in quanto tale, viene-da-Dio ed è inviata verso il mondo.

Quanto, invece, all’espressione «indole secolare» qual è intesa per i laici dal Concilio Vaticano II, essa dice qualcosa di più della semplice relazione con il saeculum. Proprio dei laici, infatti, non è tanto il loro essere in un rapporto dialogico-missionario verso il mondo, che condividono con ogni battezzato. Loro dovere, piuttosto, è quello di evangelizzare il mondo usando delle realtà temporali medesime: «cercare il Regno di Dio trattando le realtà temporali». Il laico è cristiano nel mondo con i mezzi del mondo.

In altre parole, è la comune esistenza dedicata interamente alle attività temporali, per nulla materialmente distinta da ciò che pure un non credente onesto e competente può fare, che per il fedele laico diventa annuncio vivo di Cristo. Per questo, egli non solo si sente invitato dal Concilio a riconoscere e a rispettare la legittima autonomia delle realtà terrene, ma vede affidata alla sua personale responsabilità anche la stessa scelta dei mezzi ritenuti più idonei al fine (cf. Gaudium et spes 43).

La «secolarità», che per i sacri ministri e i religiosi è una dimensione, per il fedele laico è un’indole. Precisazione, questa, che per G. Lazzati non compromette affatto l’ecclesiologia della comunione. La Chiesa, infatti, è comunione non soltanto delle diversità marginali, ma anche di quelle poste a livello più profondo, come la distinzione vigente tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale, o gerarchico. Neppure compromette quell’esigenza di stile più rispettoso delle autonomie e competenze all’interno della vita della Chiesa, che viene indicato con l’espressione (allora corrente) di «laicalità di tutta la Chiesa».

L’ambito del secolare

Potrei fermarmi qui, anche perché quello che mi è stato richiesto per questo incontro non è l’esposizione completa della teologia sul laicato di Giuseppe Lazzati. Ci sono, per questo, apposite pubblicazioni. Sottolineerei, ad ogni modo, che nella sua prospettiva, gli ambiti nei quali il fedele laico è chiamato a svolgere il proprio apostolato e dove è chiamato a realizzare la sua sequela di Cristo sono tre: l’ambito del secolare, quello conseguente dell’azione sulle strutture e, quindi, l’ambito dell’annuncio finalizzato a suscitare la fede.[10]

Circa il primo, che assume in sé anche il secondo, Lazzati dice che

«il laico è impegnato a estendere i frutti della Redenzione a tutte le attività dell’ordine temporale sottraendole al disordine del peccato per attuarle secondo il piano di Dio. Nel fare questo il laico fa opera di Chiesa: egli è la Chiesa che, immergendosi nel mondo, lo salva dalla rovina del peccato e lo fa crescere, per quanto da lui dipende, nel senso e nel modo voluto da Dio» (p. 80-81).

In questa azione del laico risplende la «secolarità» come momento concreto della sequela Christi. Lazzati sottolinea che il laico deve vivere questo ambito da cristiano e, proprio perché lo vive in questo modo, la sua azione acquista valore di apostolato. Scrive:

«Tale testimonianza non consiste […] nel richiamare principi o sentenze cristiane mentre si attende al proprio lavoro fatto comechessia, ma nel portare nel proprio lavoro quella coerenza […] che costituisce la luminosità cristiana di un’azione per sé umana dando a questa un valore apostolico. Perciò, perché si dia testimonianza cristiana valida su questo piano, bisogna che l’operare abbia quella perfezione tecnica che è richiesta dalla natura dell’opera e proporzionata alla capacità dell’operante e, in più, quella pienezza di valore umano che è risultato della natura in grazia e costituisce la luminosità rivelatrice di cui si è detto» (p. 81).

Per queste affermazioni, non è difficile trovare un luogo ispiratore nel testo conciliare di Apostolicam actuositatem, n. 5:

«La missione della Chiesa non mira soltanto a portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche ad animare e perfezionare l’ordine temporale con lo spirito evangelico. I laici, dunque, svolgendo tale missione della Chiesa, esercitano il loro apostolato nella Chiesa e nel mondo, nell’ordine spirituale e in quello temporale. Questi ordini, sebbene siano distinti, tuttavia sono così legati nell’unico disegno divino, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una creazione nuova: in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto alla fine del tempo. Nell’uno e nell’altro ordine il laico, che è simultaneamente membro del popolo di Dio e della città degli uomini, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana».

L’impegno politico del fedele laico

In questa prospettiva Lazzati è in grado di prospettare anche l’impegno politico del fedele laico; impegno che nasce anch’esso da una chiamata di Dio che coinvolge il credente nella trasformazione del mondo secondo i principi e i valori del Regno. È un tema che Lazzati toccò, fra l’altro, nella prolusione al 47° Corso di aggiornamento culturale dell’Università Cattolica, che si tenne a Verona nel settembre 1977. Qui egli parlò della politica come luogo dove il cristiano

«mette a prova la sua misura di fedele laico e come tale si qualifica sia nella capacità inventiva o creativa nel dare senso al mondo e ordinarlo a servizio della crescita di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, sia nella capacità di confronto con altre letture interpretative dell’uomo e del mondo, confronto fondato in rispetto dell’uomo e del suo nativo bisogno di ricerca di verità e in capacità di discernimento o di potere critico volto a cercare, con passione, ogni valido elemento di unità pur nel rifiuto di inconciliabili diversità».[11]

Avendo, come prefetto del Dicastero delle cause dei santi, la possibilità di consultare la Positio preparata dal prof. A. Oberti per il processo di beatificazione e canonizzazione, ho controllato quante pagine sono dedicate alla bibliografia sulla teologia del laicato di Giuseppe Lazzati: nel vol. III della Positio sono ben 266! Da esse traggo una citazione, che riguarda l’impegno politico del fedele laico, che è poi nell’introduzione al volumetto La città dell’uomo. Costruire, da cristiani, la città dell’uomo a misura d’uomo.[12] La riprendo perché ritengo abbia un sapore di attualità.

Siamo agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso e Lazzati comincia con l’osservare, in generale, la presenza di «diffusi sintomi di disaffezione, d’indifferenza e di dispregio per la politica» e pone la necessità di individuarne le cause. Scendendo quindi nel particolare, annota che «si ha la sensazione di assistere a un processo d’irreversibile declino-emarginazione della tradizione cattolico-democratica fatta di equilibrio, di lungimiranza, di magnanimità». In terzo luogo, annota che per troppi cristiani c’è una perdita di significato della politica stessa. Da qui l’urgenza di un nuovo pensare la politica, per il quale propone la formula del costruire la città dell’uomo a misura d’uomo.

L’avventura non è facile e anche per questo il cristiano necessita della speranza e della forza interiore che gli viene dalla Grazia. Ricorda per questo l’esempio dell’amico Giorgio La Pira:

«agiva con la pienezza della propria autonomia, sapendo che il compito era affidato a lui e non al vescovo di Firenze, negli anni in cui era sindaco di Firenze, e come sindaco, ne era il responsabile. Espletava il suo compito da cristiano; e con sofferenza profonda, ma intendendo il messaggio di Cristo cercava lavoro ai disoccupati, di dare una casa a coloro che non l’avevano. Gli si scaraventavano contro perché andava a requisire le case vuote, azione giusta perché questo gli imponeva il Vangelo. Non aveva odio per nessuno, amava la vita».[13]

Per fare, allora, eco a Giuseppe Lazzati e accrescerne l’attualità, cito qualcosa che papa Francesco disse alla Comunità di Vita Cristiana (CVX) e alla Lega Missionaria Studenti d’Italia nell’Udienza del 30 aprile 2015, mettendo da parte il testo scritto già preparato.

«“Ma un cattolico può fare politica?” – “Deve!” – “Ma un cattolico può immischiarsi in politica?” – “Deve!”. Il beato Paolo VI, se non sbaglio, ha detto che la politica è una delle forme più alte della carità, perché cerca il bene comune. “Ma Padre, fare politica non è facile, perché in questo mondo corrotto… alla fine tu non puoi andare avanti…”. Cosa vuoi dirmi, che fare politica è un po’ martiriale? Sì. Sì: è una sorta di martirio. Ma è un martirio quotidiano: cercare il bene comune senza lasciarti corrompere. Cercare il bene comune pensando le strade più utili per questo, i mezzi più utili. Cercare il bene comune lavorando nelle piccole cose, piccoline, da poco… ma si fa. Fare politica è importante: la piccola politica e la grande politica. Nella Chiesa ci sono tanti cattolici che hanno fatto una politica non sporca, buona; anche che hanno favorito la pace tra le Nazioni. Pensate ai cattolici qui, in Italia, del dopoguerra: pensate a De Gasperi. Pensate alla Francia: Schumann, che ha la causa di beatificazione. Si può diventare santo facendo politica. E non voglio nominarne più: valgono due esempi, di quelli che vogliono andare avanti nel bene comune. Fare politica è martiriale: davvero un lavoro martiriale, perché bisogna andare tutto il giorno con quell’ideale, tutti i giorni, con quell’ideale di costruire il bene comune. E anche portare la croce di tanti fallimenti, e anche portare la croce di tanti peccati. Perché nel mondo è difficile fare il bene in mezzo alla società senza sporcarsi un poco le mani o il cuore; ma per questo vai a chiedere perdono, chiedi perdono e continua a farlo. Ma che questo non ti scoraggi. “No, Padre, io non faccio politica perché non voglio peccare” – “Ma non fai il bene! Vai avanti, chiedi al Signore che ti aiuti a non peccare, ma se ti sporchi le mani, chiedi perdono e vai avanti!”».[14]

Grazie per avermi ascoltato.

Azione Cattolica Ambrosiana – Milano, 13 maggio 2023

Marcello card. Semeraro


 

[1] La prof. Goldie è stata, come noto, un’importante protagonista per la «promozione del laicato», come all’epoca si diceva. Fu uditrice al Concilio Vaticano II e contribuì notevolmente alla nascita e sviluppo ad experimentum del «Consiglio per i laici» all’interno della Curia romana.

[2] Frutto di quell’insegnamento è il volume M. Semeraro, Con la Chiesa nel mondo. Il laico nella storia, nella teologia, nel magistero, Vivere In, Roma 1991.

[3] È noto che Lazzati ebbe come suoi punti di riferimento di Congar sia Sacerdoce et laïcat dans l’Église, sia  Jalons pour une théologie du laïcat.

[4] Y. Congar, Ministeri e Comunione ecclesiale, Bologna 1973, 19; cf. anche Les laïcs ont-ils part à faire l’Eglise, «Quatre Fleuves» 18 (1983), p. 111-120.

[5] Congar, Ministeri e comunione, p. 22.

[6] Cf. H. Heimerl, Concetto di laico nella costituzione sulla Chiesa del Vaticano II, «Concilium» 2 (1966), 173-186; Idem, Ist der Laienbegrijf noch aktuell?, «La Chiesa dopo il Concilio» II/2, Milano 1972, 799-806.

[7] Cf. B. Forte, Laicato e Laicità, Casale Monferrato 1986.

[8] Per quegli anni mi riferisco soprattutto a G. Lazzati, Secolarità e laicità, le caratteristiche del laico nella chiesa e per il mondo, «Il Regno-Attualità» 1985/12, 333- 339.

[9] II testo magisteriale cui B. Forte poggiava la sua tesi si trova in un discorso pronunciato da Paolo VI il 2 febbraio 1972 in occasione del XXV della «Provida Mater». Disse: «La Chiesa ha coscienza del fatto che essa esiste nel mondo, che cammina insieme con tutta l’umanità, e sperimenta insieme col mondo la medesima sorte terrena, ed è come il fermento e quasi l’anima della società umana; essa perciò ha un’autentica dimensione secolare, inerente alla sua intima natura e missione, la cui radice affonda nel mistero del Verbo incarnato, e che si è realizzata in forme diverse per i suoi membri – sacerdoti e laici – secondo il proprio carisma», in Paolo VI, Gli Istituti Secolari una presenza viva nella Chiesa e nel mondo a cura di A. Oberti, Milano 1986, 40.

[10] Per quanto segue, cf. G. Lazzati, L’apostolato dei laici, oggi, ora in «Lazzati, i laici, la secolarità» («Dossier Lazzati, n. 6»), AVE, Roma 1994, p. 78-84. A questo articolo si riferiscono le pagine indicate per le successive citazioni.

[11] Anche per questa citazione cf. il «Dossier Lazzati, n. 6», p. 121.

[12] Ed. AVE, Roma 1984.

[13] Il testo è tra le «Carte Lazzati: 4C0454» e si riferisce a un non meglio precisato Convegno svoltosi il 20 giugno 1981 su Il laico nella Chiesa cattolica. L’amicizia Giuseppe Lazzati si consolidò dal 1946 in poi, a partire dal periodo della Costituente, della cui assemblea fecero parte ambedue, formando insieme con Dossetti e Fanfani il gruppo scherzosamente chiamato «del porcellino». Nel giorno dei funerali, sarà Lazzati a tenere a Firenze il pubblico discorso funebre, cf. L’umiltà come norma di vita, in «Avvenire» del 6 dicembre 1977; La Pira, commiato per la gioia, in «Vita e Pensiero» 60 (1978) n. 3, p. 62-64.

[14] https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2015/04/30/0320/00712.html

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